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Da MOSCA – “Casa dolce casa” nella campagna russa, circondati dal calore di una stufa, se fa freddo, e comunque da tavole imbandite, cani, gatti, bambini, caramelle. Ci si è arrivati con una familiare piena di vivande, torte e biscotti preparati dalle nonne. Qualcuno l’ha raggiunta con gli autobus o i treni suburbani, gli ėlektrička. Se la destinazione del desiderio è, invece, più lontana, si caricano i bagagli pesanti su aerei pieni di viaggiatori che cercano solo un po’ di quiete da routine e smog quotidiani.
Stessa direzione per tutti, le dacie di campagna, dove ogni famiglia russa che si rispetti (oggi non più solo russa) scappa nel fine settimana per cercare riposo, calore invernale, refrigerio estivo.
Molte di esse assomigliano a casette delle favole, con le tendine ricamate alle finestre, con un camino che fuma e cornicioni delicatamente e finemente orlati. Una mansarda dalla piccola finestra circolare, permette di sbirciare silenziosamente la luna addormentata.

La dacia è parte della stessa cultura russa, un angolo di paradiso che, ai tempi del regno di Pietro il Grande, era riservato ai ceti più elevati (o meglio, ai vassalli leali allo zar), ma che, durante il periodo sovietico, divenne un rifugio semplice, di legno, assegnato dallo Stato per particolari meriti, dove poter liberamente coltivare orto e alberi da frutto, preparare dolci marmellate e conserve, e passare serene giornate di riposo con famiglia e amici. In russo arcaico, la parola dača significa “qualcosa di dato” e ricorda il latino “data”. Da qui la sua origine storica.

Il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale conobbe una crescita rilevante delle dacie e, in mancanza di una legge che ne vietasse la costruzione, molti lotti di terreni furono occupati da cittadini che cercavano uno sfogo in campagna. Nel 1955, fu introdotta la cosiddetta “Società di giardinieri” che riceveva il diritto all’uso permanente della terra per fini agricoli, oltre al permesso di allacciarsi a rete elettrica e idrica. Si trattava di una sorta di fattorie collettive. Nel 1958, fu creata una nuova forma di cooperativa per la costruzione di dacie che riconosceva il diritto del singolo a costruire una piccola casa sulla terra locata dal governo. Il crollo dell’Unione Sovietica vide il ritorno alla proprietà privata e molte dacie furono privatizzate, pure nei villaggi di medie e grandi dimensioni.
Ancora oggi se ne trovano di bellissime, anche appena fuori porta, con la loro tipica architettura e le finestre lavorate, edificate solitamente a gruppi di tre, come la Trinità. E’ una vera moda, una tendenza tale per cui molti parlano scherzosamente di “daciamania”.

Ci sono poi le gosdacie, le dacie di stato assegnate a membri del governo, accademici, ufficiali superiori dell’esercito e altre figure di rilievo. Nella Russia moderna, l’amministrazione presidenziale continua a possedere numerose dacie che vengono affittate a funzionari governativi. Il presidente russo ha la residenza ufficiale nella sua dacia a Zavidovo e Novo-Ogarëvo, la sua personale è a Ozero. Le gosdacie a Komarovo, vicino a San Pietroburgo, e a Peredelkino, a 25 km da Mosca, sono abitate da intellettuali e artisti sovietici. Peredelkino è stato battezzato il “villaggio degli scrittori”, perché creato da Stalin per premiare gli scrittori, gli artisti e i grandi intellettuali dell’epoca. Qui ricevevano una dacia i cantori del regime ma anche romanzieri, accademici, maestri di scacchi, uomini dal grande valore artistico e intellettuale. Anche Evgenij Evtushenko, poeta a lungo dissidente, ha posseduto una casa a Peredelkino per lungo tempo. Si trattava di una comunità dove ci si conosceva, dove si respiravano letteratura e arte; un luogo incantevole circondato da neve che si scioglieva a maggio e da un bosco. Oggi, qui, sono arrivate le ruspe per costruire un complesso residenziale: ville, piscine, garage sotterranei, guardie e cancelli elettronici, uno di quei luoghi dove vanno ad abitare i “nuovi ricchi”. A Peredelkino si trova ancora la dacia-museo di Boris Pasternak che qui ha vissuto ed è sepolto, con la famiglia, nel cimitero accanto alla chiesa del paese, fra alberi di betulle, faggi e pini. La dacia-museo è aperta al pubblico ed espone gli effetti personali del poeta, tra cui i dipinti del padre Leonid Pasternak, la sua collezione di ceramiche in stile georgiano e la sua grande biblioteca.

Abbiamo poi sfogliato un numero del mensile Marie Claire del dicembre 2012, dal titolo “Il rifugio dell’inverno in una dacia che ricorda il romanzo Dottor Zivago”, dove il fotografo Sergio Ghetti è stato invitato a passare un fine settimana a Petrushovo, sulla strada di Kazan, nella dacia di Irene Commau, intellettuale di origine russa e sovietologa all’Istituto francese di relazioni internazionali. Irene racconta di essere capitata lì nel 1992, in quell’angolo di Russia eterna che compare negli archivi storici per la prima volta nel ‘500. L’edificio da lei acquistato era una scuola elementare costruita nel 1912 e caduta ormai in disuso, e le era piaciuto immaginare che, nella storia delle pareti di quella casa, vi fossero rimaste le risate e gli allegri strilli degli alunni. D’altra parte, in quella casa sarebbero cresciuti i suoi figli, al ritmo di quei risolini. Un tuffo nel passato e nell’infanzia felice.
Anche il National Geographic, nello stesso anno, ha pubblicato un bellissimo servizio fotografico su questi luoghi d’incanto. Il numero di chi si sposta a vivere qui, per scelta, è in crescita.
Insomma, molte persone, anche straniere, sono contagiate sempre di più dal desiderio di possedere un terreno da coltivare e vivere in una casetta calda e confortevole, se pur piccolina, sotto una volta celeste stellata e silenziosa, dove basta chiudere il cancello per dimenticarsi di tutti e di tutto, e sentire solo il profumo delle fragole e delle rose che sbocciano.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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