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Ecco le parole indecenti (e memorabili) del direttore di Repubblica Maurizio Molinariospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più su Rai 3 dello scorso 10 ottobre. “I no tav sono un’organizzazione violenta, quanto resta del terrorismo italiano degli anni settanta. Aggrediscono sistematicamente le istituzioni, la polizia, anche i giornali, minacciano giornalisti a Torino e la cosa forse più grave che sono in gran parte italiani che si nutrono anche di volontari che arrivano da Grecia, Germania e a volte dalla Francia…”.
Ma Molinari prosegue: “Per un torinese ‘No Tav’ significa sicuramente terrorista metropolitano, chiunque vive a Torino ha questa accezione…” [Qui l’estratto della trasmissione].

Dalla Val Susa la risposta non si è fatta attendere molto. Quei ‘terroristi’ dei No Tav hanno organizzato una simpatica iniziativa dal titolo “Una pioggia di Querele su Molinari”. Personalmente, spero che le querele vadano in porto. Frasi come quelle di Molinari si possono sopportare nella piazza del mercato o in qualche bar Sport: infatti la calunnia è spesso figlia dell’ignoranza. Un giornalista top, il direttore di un grande giornale, non ha però il diritto di essere ignorante.

Ma perché Molinari, che non né stupido né ignorante, calunnia i No Tav? Perché arriva ad arruolarli nelle Brigate Rosse? Eppure ha lavorato a Torino per parecchi anni. Sa bene che i No Tav sono un movimento popolare e democratico, con decine di migliaia di aderenti e militanti, con un grande radicamento sul territorio. E sa perfettamente che è un vasto movimento che da 30 anni oppone a una Grande Opera costosissima, basata su un progetto antiquato, criticata da più parti (e con pareri autorevoli) come inutile e dannosa, con un sicuro quanto tragico impatto ambientale ed antropico. Che cos’hanno mai di tanto pericoloso i militanti contro l’Alta Velocità? 

Per capire meglio questo accanimento, questo marchio d’infamia, non solo della Repubblica di Molinari ma di tutta tutta l’informazione mainstream del nostro Paese, occorre andare indietro di un paio d’anni.

Breve storia di un giornale che cambia padrone

Il 23 aprile 2020, John Elkann, tramite una società della famiglia Agnelli, diventa proprietario del 60,9% de La Repubblica, numero 2 dei quotidiani italiani. Lo stesso 23 aprile, la nuova proprietà – passando sulla testa dei giornalisti e collaboratori, compresi i rappresentanti sindacali – dà il benservito al vecchio direttore e nomina direttore Maurizio Molinari. Il quale è da tempo in rampa di lancio, essendo già in forza alla premiata ditta, in qualità di direttore de La Stampa (numero 3 dei quotidiani italiani) da sempre proprietà della famiglia. Proprio come la Juventus.

Fatto sta che in questi due anni la linea di Repubblica è cambiata radicalmente: siamo ormai lontanissimi dal giornale fondato da Eugenio Scalfari. Ora la “voce del padrone” deve farsi sentire, forte e chiaro.
Solo un particolare, ma molto rilevatore: fino all’ultimo cambio di proprietà, alla domenica, in prima pagina, c’era solo l’editoriale di Eugenio Scalfari, solo lui, anche se il vegliardo era ormai perso nel suo monologo narcisistico. Per i giornalisti che, da Ezio De Mauro in avanti, gli erano succeduti alla direzione, la prima pagina domenicale rimaneva off limits: il loro editoriale appariva il lunedì.
L’era Agnelli/Molinari ha imposto un nuovo stile. L’editoriale di Maurizio Molinari ha subito conquistato la prima pagina. Rimarcando una precisa linea editoriale, schierato senza se e senza ma con il falco Bonomi, l’infallibile Super Mario, il primato delle Grandi Opere, l’odio contro i no tav, la demonizzazione dei 6 milioni di no green pass, l’endorsement sul ritorno al nucleare proposto da Cingolani.

Italia maglia nera

Ma l’operazione lampo di John Elkann, e la conseguente eclissi di Repubblica, è stato tutt’altro che un fulmine a ciel sereno. È invece l’ultimo, definitivo tassello che porta a compimento un processo di concentrazione editoriale italiana, che non ha paragoni in qualsiasi paese occidentale.
Basta fare il conto. Famiglia Agnelli: La Stampa e La Repubblica, Gazzetta dello Sport (numero 4 tra i giornali Italiani). Urbano Cairo: Corriere della sera (numero 1 dei quotidiani italiani), Rcs Media Group e i 3 canali di La 7. Silvio Berlusconi: Mediaset (con ascolti superiori alla Rai), Mondadori e il quotidiano di famiglia Il Giornale. Infine Andrea Riffeser Monti, attualmente presidente presidente della Fieg (la Confindustria dei giornali, ndr), proprietario de Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno.

Questi 4 moschettieri hanno oggi in mano l’informazione. Quella scritta: bisogna infatti aggiungere almeno un centinaio di periodici settimanali (da L’Espresso, a Panorama, fino ad arrivare a Gioia, Gente, Di Più, Donna Moderna, Sorrisi e canzoni Tv…). E quella televisiva: 9 canali su 9, più una bella presenza nelle gerarchie Rai. Non mancano naturalmente i network radiofonici. E una costellazione di case editrici, più meno illustri, Einaudi in primis.

Ci sarebbe un altro grande giornale in Italia, un quotidiano molto ben fatto, ma si chiama Il Sole 24 ore, ed è proprietà di Confindustria. Quindi suona la medesima musica. Anzi, il più delle volte dirige il coro di tutta la stampa mainstream. Cioè governativa. Cioè padronale. Cioè senza libertà: libertà di informazione, libertà d’inchiesta, libertà di opinione.

Non c’è quindi da stupirsi se l’Italia risulta a livello mondiale al 41° posto per la Libertà di Stampa [Vedi qui]. Dietro Norvegia e Finlandia (1 e 2 posto), dietro a Portogallo (12), Germania (13), Irlanda (15). Ma anche dietro Uruguay (19), Namibia (23), Lettonia (24), Ghana (27), Sud Africa (31), Burkina Faso (36)…

Dare spazio a ogni voce, coltivare il dubbio

Dentro la grande gabbia di una informazione controllata da poche e potenti mani vivono e lavorano diverse centinaia di giornalisti. E molti sono bravi giornalisti. Possono scrivere liberamente del Festival del Cinema di Venezia, dell’ultimo libro di Bruno Vespa o Fabio Volo, dar conto delle parole del Papa, indignarsi per l’ennesimo femminicidio.
Possono scrivere di tante cose. Non di tutto. Possono intervistare e dare la parola a tanti. Non a tutti. Possono dar spazio a tante opinioni. Non a tutte. Su alcuni argomenti esiste una narrazione ufficiale a cui attenersi. Non c’entra con il segreto di stato. Semplicemente: di alcune cose non si parla. Non si chiama censura, basta e avanza l’autocensura. 

Da tempo, ad esempio, la nostra piccola testata denuncia la generale disinformazione sulle ragioni e gli obiettivi del movimento No Tav. Nella narrazione dei grandi giornali e dei canali televisivi chi si oppone alle Grandi Opere e ai suoi effetti devastanti sul tessuto sociale e sull’ambiente è dipinto come un anarchico, un violento, un estremista, un terrorista.
Poco importa se questo movimento – in Val Susa come in tante parti d’Italia – interessi decine di migliaia di persone, intere comunità con Sindaci in testa, e tecnici, geologi, urbanisti, economisti, professori universitari. Poco importa che il movimento No Tav abbia molte volte dimostrato non solo il devastante impatto ambientale e antropico delle Grandi Opere, ma anche la loro inutilità e il loro costo folle, buono solo a saziare gli appetiti dei soliti grandi player economici. Non basta che il movimento stesso abbia prodotto studi scientifici e progetti alternativi, ispirati al rispetto e non alla rapina del territorio e delle comunità che lo abitano.

Per il governo – ora più che mai che, assieme alla pandemia, è arrivata la prima pioggia di miliardi del PNNR – il primo grande obbiettivo è ‘riaprire i cantieri’, e riaprirli in fretta. Accelerare, assegnare gli appalti eliminando i lacci e lacciuoli delle norme anticorruzione.
In questo quadro, il movimento No Tav rappresenta una fastidiosa pietruzza, un intralcio da levare dal sentiero, con le buone o con le cattive… E per cattive, leggasi: le cariche, le botte, gli arresti. Di cui, seguendo il copione stabilito, si parla e si scrive pochissimo.
Che il governo Draghi, un inedito incrocio tra un governo di Unità Nazionale e un governo dell’Alta finanza, si muova secondo questa direttrice è abbastanza scontato. Meno scontata è che i media italiani si siano piegati a questa direttiva senza un lamento. Ripetendo il mantra delle Grandi Opere fattore di progresso e soprattutto oscurando completamente la voce dei movimenti antagonisti.

Può anche darsi che i No Tav non abbiano tutte le ragioni dalla loro parte. Ma una informazione (e un giornalista) può dirsi libera solo se sceglie il dubbio come stella polare. Solo se ascolta la voce e le ragioni di tutti. Solo se ricerca e riporta le fonti e non si basa sui sentito dire o sulle veline dei padroni dei giornali o delle segreterie di partito.
Altrimenti rimangono gli insulti e le calunnie come quelle del direttore Maurizio Molinari. Ma Molinari non è un giornalista.

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
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