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Da: Giorgio Fabbri

Il Prefetto di Ferrara, per volontà meritoria del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha consegnato due medaglie e due diplomi alla memoria di Giosuè Nave e Giuseppe Pala, entrambi finanzieri uccisi dai partigiani comunisti del maresciallo Tito. Due vittime dell’odio che probabilmente si rivoltarono nella fossa quando, il 2 ottobre 1969, Tito fu insignito dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito (sic!) della Repubblica Italiana. Onorificenza che suona come offesa agli Italiani che furono massacrati dai partigiani “titini” e che la dice lunga su come, per lunghissimi anni, sia stato coperto dall’oblio il dramma delle foibe, mentre si incensava uno spietato dittatore responsabile di crudeltà e persecuzioni d’ogni genere, di cui furono vittime tutti coloro che si opponevano ai suoi disegni, comunisti compresi.

Dopo la rottura con Stalin (1948) che gli valse un trattamento di favore da parte dell’Occidente, il regime di Tito si comportò infatti in maniera spietata contro quei comunisti italiani che avevano scelto di vivere in Jugoslavia e che volevano restare fedeli alla linea del PCI, allora ossequiente al mito di “Baffone”.

Per chi non lo sapesse,un migliaio di ex partigiani, giovani e operai dei cantieri triestini, spinti dalla disoccupazione e dalla fede politica decisero nell’immediato dopoguerra di lasciare le loro case e di andare a costruire il socialismo in Jugoslavia: Pola e Fiume le principali mete. Lì ripresero a lavorare in fabbrica, per mettere il proprio mestiere al servizio del socialismo. Ma da subito si scontrarono con una realtà diversa da quella che avevano immaginato .Con la rottura tra Tito e Stalin del giugno `48 tutto precipitò. Erano italiani e per giunta internazionalisti.Così quando il Cominform «scomunicò» la Jugoslavia di Tito, non rinnegarono l’URSS e i funzionari titini che da Zagabria andarono a Fiume e a Pola per dissuaderli non li convinsero . Vennero dunque espulsi dalle fabbriche dove lavoravano, ridotti in miseria assieme ai loro familiari e dispersi. Alcuni riuscirono fortunosamente a tornare in Italia – dove il Pci impose loro il silenzio – altri vennero deportati in Bosnia per il «lavoro volontario» in cave e miniere. Altri ancora, i più in vista, dopo processi sommari con l’accusa di tradimento e spionaggio al servizio del Cominform, finirono a Goli Otok il campo di concentramento aperto nel luglio `49, dove venivano segregati tutti gli oppositori del regime titino, senza differenze di fede politica.

Lo storico Giacomo Scotti, attraverso le testimonianze, le memorie e i documenti ufficiali, stima che circa 30.000 prigionieri politici furono detenuti sull’«Isola calva» (Goli Otok) e che quasi 4.000 vi morirono, per stenti o torture.

Tito e i suoi sgherri non facevano distinzioni fra croati, sloveni o italiani : tutti coloro che ostacolavano i loro piani dovevano essere eliminati, in un modo o nell’altro. A comprova di ciò aggiungo che recentemente sono state scoperte nuove foibe in Slovenia, dove furono uccisi numerosi sloveni sgraditi a Tito e ai suoi complici.

Anche iIl Cardinale di Zagabria ,Alojzije Viktor Stepinac (beatificato il 3 ottobre 1998 da Giovanni Paolo II) fu diffamato, arrestato e condannato a 16 anni di lavori forzati, mentre “scomparvero” oltre duecento sacerdoti. Vennero inoltre chiuse le scuole cattoliche, espropriate le proprietà della Chiesa, requisite le tipografie e violata la libertà di stampa.

Chi frequentava le funzioni religiose veniva osteggiato,deriso e considerato un “nemico del popolo”.

Non voglio dilungarmi oltre, ma penso con rammarico che nel maggio del 1980, sceso dal treno a Bologna, lessi un manifesto del PCI che “abbrunava le sue bandiere dinanzi all’eroica figura del maresciallo Tito”.

Maresciallo responsabile di atti non eroici ma criminali, che noi abbiamo purtroppo onorato come “Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana”!

Mi auguro che qualcuno, prima o poi, reputi opportuno e doveroso revocare quell’onorificenza a un personaggio che non ha certamente bene operato nei confronti dell’Italia e dell’umanità e che avrebbe meritato, invece di una medaglia, il severo giudizio di una corte penale internazionale per i feroci crimini di cui si rese responsabile.

Giorgio Fabbri

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