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Liberamente tratto da un racconto di Chekhov

La luce tutte le mattine,
almeno io penso sia mattina, entra in questo camerone pieno di echi e di voci aggrappate ai muri scalcianti, si intrufola di soppiatto. È calda, se la si guarda dalla mia seggiola è carica di milioni di piccole farfalle che galleggiano nel suo raggio e spariscono nell’ombra.
Io me ne sto seduto su questa piccola seggiola, forse era di una scuola elementare o magari di un asilo, perché le mie ginocchia sono vicine alla mia faccia. Chissà quanti bambini sono stati seduti su questa seggioletta, avranno imparato a fare cerchi e stanghette, poi le lettere dell’alfabeto, a fare di conto a recitare le tabelline. Le gambe di questa seggiola sono di ferro, freddo e un po’ consunto, sopra c’è la seduta in legno laccato tutta sfrangiata sul davanti, lo schienale è storto e scomodo.
Ma io sono attratto dalla luce, mi scalda, mi ci crogiolo come una lucertola sui muri estivi.
È il buio a farmi paura,
quel buio in cui vengo gettato quando non voglio prendere le pillole, quelle grandi, quelle che mi fanno bere con quell’acqua calda che sa di ruggine. Poi, anche se lo negano quando passano i dottori, quella camicia che mi stringe le braccia dietro la schiena, loro la adoperano ancora. Puzza quella camicia. Sa di vomito e cipolla, di sangue e cimice. Non mi piacciono quelle pillole, sono troppo grandi, preferisco le punture. Con quelle dormo ma sono sveglio. Un po’ come ora.
Io non lo so come sono entrato qua dentro, il reparto numero 6 oramai è casa mia. Ma come era casa mia? Sai che non me lo ricordo. Sento in lontananza delle urla, delle grida, dei pianti soffocati, ma non so se era mio padre che mi picchiava o se siamo noi matti quando cambia il tempo.
Sai che dicono che prima della pioggia o del brutto tempo, i folli cominciano a gridare e cantare? Penso sia vero. Io però non canto mai.
Alle volte la mia testa è talmente pesante che non riesco ad alzare il collo, non riesco a guardare dritto davanti a me, mi guardo i piedi. Sono scalzo e loro, i piedi, sono sporchi, le unghie sono nere.
Quando però la luce mi colpisce in faccia e mi scalda mi sento libero, mi sembra di essere al mare, oppure seduto davanti al bar mentre bevo un bel chinotto. Addirittura i raggi del sole, anzi il raggio, perché ne entra solo uno, mi fa ricordare dei libri che forse ho letto. La tigre della Malesia, quello che fece il giro del mondo su una mongolfiera, quell’altro che uccide una persona e poi si pente e diventa buono, sì, lo scrittore era russo. Chissà se li ho letti davvero quei libri oppure me li hanno raccontati, oppure me li sono inventati.
Alle volte mentre guardo il pavimento, azzurro sporco, mi cade un filo di bava a terra, non lo faccio apposta, mi cade da sola. Sono sempre mezzo addormentato, ogni tanto uno di quelli col camice diverso dal mio mi prende per un braccio e mi porta in bagno. Mi fa male, e poi in bagno neanche chiude la porta e io mi vergogno. C’è puzza in bagno, c’è sempre qualcuno a cui fanno il clistere e c’è merda dappertutto, a me fa schifo e alle volte non riesco a farla. E allora loro si arrabbiano, urlano, gridano, mi danno delle sberle. Sembrano matti. Ma chi sono i matti, noi o loro? Magari è la disperazione, ma io non sono sicuro di sapere che cos’è. Forse ce n’è di più fuori, forse quando ero fuori ero disperato. Ora non più. O forse sì.
Alla mattina c’è sempre quel raggio pieno di farfalle che entra dalla finestra e io mi scaldo. Poi ci sono anche le brutte giornate, quelle con la nebbia, quelle dove manca la luce anche durante il giorno. In quei giorni davvero mi sento morto, anche in altri, ma in quelli di più ed allora urlo. E loro si arrabbiano, vengono due volte con i pastiglioni. mi portano al buio. E io allora conto, fino a che mi dimentico i numeri.
Nel reparto numero 6 il tempo è fermo, anche se ogni giorno è uno di meno. Ma forse è così anche fuori. Ma poi fuori esiste o è solo una bugia, che a forza di pensarci mi sembra vera? Vabbè io guardo le farfalle che si rincorrono in quell’ultimo spicchio di luce, prima che il buio le mandi a dormire.

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

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