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Oltre alle banche, che come si è visto falliscono, a creare preoccupazioni al risparmiatore – come qualcuno comincia a segnalare e come vedremo – ci sono anche le cooperative. E’ il caso di chiedersi perché questo succede, perché sta diventando così difficile trovare un posto sicuro dove depositare i propri soldi e al contempo così facile vederli sparire. La prima cosa da fare è risalire alle cause senza soffermarsi sugli effetti, in modo da capire come si dovrebbe agire. E’ ormai evidente a tutti che il fallimento di una banca è frutto di comportamenti sbagliati o poco corretti dei suoi amministratori e di inadeguati controlli della Banca d’Italia. Ma ciò accade a causa di una legislazione che ha allentato vincoli e divieti che in precedenza garantivano maggiore tutela al risparmio nel rispetto dei risparmiatori. Per comprendere come siamo arrivati a questo punto dobbiamo individuare il vero nocciolo – il risparmio – e ricordare che esso è davvero una cosa importante, al punto che per la sua tutela si impegna parte dell’articolo 47 della nostra Costituzione che recita testualmente “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.”

Nel passaggio dalla sovranità nazionale a quella europea, dunque dalla tutela della Costituzione della Repubblica italiana alla vigilanza operata dall’Unione Bancaria, non solo il risparmio è meno garantito, ma assistiamo anche ad altre trasformazioni che cancellanno le vecchie leggi ‘sociali’, cioè quelle leggi che prestavano attenzione alla crescita e alla tutela dei suoi cittadini e che ci hanno dato ad esempio la scala mobile, lo statuto dei lavoratori e l’articolo 18. Un lungo periodo in cui tutto cambia; un tempo durante il quale – per capirci – la forbice di diseguaglianza tra capitalista e prestatore di lavoro inizialmente accettabile arriva sino a Marchionne e alla riduzione dei minuti di pausa degli operai della Fiat! Un processo lento in cui le differenze si sono talmente amplificate da non vederle nemmeno più.

E anche le leggi bancarie erano diverse da quelle attuali. La banca:
– aveva un’alta specializzazione (cioè esisteva una diversificazione nell’erogazione del credito a ben precisate categorie di lavoratori e imprenditori);
– era sottoposta al diritto comune e al ferreo controllo della Banca d’Italia, resa pubblica fin dal 1936;
– aveva una vocazione territoriale;
– doveva rispettare dei limiti nella creazione del denaro poiché le era imposta una elevata riserva obbligatoria;
– la banca commerciale era distinta e separata dalla banca d’investimento.

Il concetto di base cui si ispirava tutta la legislazione era quello di una “istituzione-funzione”, con rilevanti risvolti di carattere sociale. La banca insomma aveva una funzione specifica nel fare credito a determinate categorie economiche ed in determinati territori. Secondo il professor Renzo Costi, questo sistema di lacci e lacciuoli frena crescita e sviluppo ed è contrario al principio della libera concorrenza. Come dire, ‘troppo Stato’, Senza considerare, evidentemente, che quello che definisce “immobilismo degli anni che vanno dal dopoguerra ai ’70” ci aveva in realtà portato al boom economico, e che forse la concorrenza aiuta interessi diversi da quelli dei risparmiatori.

Si arriva al 1985, quando lo Stato italiano, recependo col Dpr del 27/06/1985 n° 350 la Direttiva Ue del 1977 nr. 80, da una svolta a tutto questo, e si noti, non ultimo, che cominciamo a fare le cose nel nome dell’Europa. A questo punto, per esempio, per aprire una banca sono richiesti tre requisiti fondamentali: fedina penale limpida, esperienza economico-finanziaria, fondi necessari. Un po’ vago, direi, ma i cambiamenti avvengono in nome di principi che invece ad enunciarli sembrano molto seri, ovvero: sana e prudente gestione, concorrenza, efficienza e stabilità complessiva. Parte insomma anche in campo bancario la cultura dello slogan da far diventare luogo comune ed accettare come cosa ovvia.

Il buon senso del risparmiatore comune ci dice invece che:
– l’alta specializzazione assicurava ad esempio all’agricoltore di trovare soddisfatti i suoi bisogni perché trovava un istituto bancario specializzato nel suo settore;
– che una banca sottoposta al diritto comune piuttosto che ad un diritto speciale diverso da quello dei mortali assicurava vicinanza al comune cittadino;
– che il passaggio da banca funzionale e territoriale a banca multifunzione e senza limiti territoriali ha fatto sì che non più l’imprenditore locale ma la speculazione sui mercati finanziari sia diventata il centro dell’interesse della banca;
– l’eliminazione della differenza tra banche commerciali e banche d’investimento ha permesso che il risparmio della famiglia depositato in una banca popolare potesse andare in finanza, ed infine;
– il sapere che al di sopra di tutto c’era la banca delle banche, sottoposta solo allo Stato e non ad altre banche private, che ha il dovere di controllare il risparmio così come dettato dall’art. 47 della Costituzione assicurava… sicurezza, almeno fino a quando non è stata di fatto privatizzata.

Certo il tutto era da migliorare e migliorabile ma quanto meno non sarebbe stato il caso di buttare via il bambino con l’acqua sporca, invece in nome dell’Europa e degli interessi avulsi dai piccoli risparmiatori abbiamo sacrificato buone leggi, controlli e radicamento sul territorio e permesso che il risparmio diventasse una preda alla mercé del libero mercato, dovunque esso venga depositato, non più un bene da difendere.

E cosa dire poi del ‘prestito sociale’ della coop? Il risparmio è forse l’unica cosa che banche e coop hanno in comune, per un errore diffuso, perché le famiglie che lasciano soldi alla coop scambiano in buona fede quel libretto che gli viene consegnato con una specie di deposito bancario. Si tratta di famiglie e pensionati che lasciano somme contenute, non di investitori. Di sicuro i ‘prestiti sociali’ non ha niente a che fare con i prodotti bancari, sono tutt’altra cosa. Chi dà i soldi ad una cooperativa lo fa perché condivide i suoi scopi e il modo in cui saranno impiegati i suoi fondi, e quindi, sono a rischio i risparmi depositati alle cooperative o sono più sicuri dei depositi bancari? Una coop può fallire, come qualsiasi altra attività, non è costretta a fallire come una banca. Tutte le banche, infatti, grazie agli sforzi legislativi di cui abbiamo un po’ tracciato le linee, sono diventate un luogo davvero poco sicuro, è solo questione di tempo.

La cooperativa dà le sue belle garanzie e un po’ di interesse sulla cifra depositata, assicura una liquidità del 30% (le banche dal 1947 hanno avuto un obbligo di riserva medio del 20%, oggi praticamente 0%) e non possono ricevere più di 36.500 euro da ogni socio. Ma chi garantisce? Non certo “aiuti di Stato”, vietatissimi. E sopratutto non è previsto un Fitd (Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi) come per le banche. La garanzia è il patrimonio delle coop stesse e si tratta di un credito chirografario. Dunque in caso di fallimento dovrebbero essere soddisfatti prima dipendenti e altre tipologie di creditori.
Quindi la garanzia del deposito in una coopeerativa è collegato alla “solidità” della particolare coop a cui stiamo prestando il nostro denaro, perché esse non sono tutte uguali e non possono certamente essere assimilate ad una banca.

Per quanto riguarda le banche, dal 2016 si ufficializza il bail in e l’Unione Bancaria, di cui abbiamo cominciato a vederne gli effetti anche con la Carife, ed in merito al Fitd, costituito dalle stesse banche e tutelato dallo Stato, comincerei ad avere qualche dubbio perché:
– il fondo può essere utilizzato solo per garantire i depositi fino a 100mila euro;
– non ha però portata sufficiente a coprire l’ammontare complessivo dei depositi nelle banche “a rischio”, cosa succederebbe allora se fallissero più banche contemporaneamente? O se la banca fosse troppo grande?;
– altri aiuti sarebbero “aiuti di Stato” e quindi vietati.

Per concludere: se fossi in uno Stato rispettoso della sua Costituzione, potrei anche scegliere di avere i risparmi nella mia coop di prossimità e sentirmi tranquillo, perché si sto finanziando una cooperativa ma pur sempre di risparmio si tratta e quindi degno di tutela statale. In questo Stato non ci sarebbe l’Europa dei banchieri, concorrenza o libero mercato da considerare e temere, ma solo il risparmio, il sudore e la fatica dei cittadini da tutelare: in tutte le sue forme.
Ma se invece vivo nel mondo in cui vivo adesso, senza garanzie né tutele statali per il risparmio, forse per sentirmi più sicuro i soldi dovrei lasciarli sotto il materasso.

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Claudio Pisapia

Dipendente del Ministero Difesa e appassionato di macroeconomia e geopolitica, ha scritto due libri: “Pensieri Sparsi. L’economia dell’essere umano” e “L’altra faccia della moneta. Il debito che non fa paura”. Storico collaboratore del Gruppo Economia di Ferrara (www.gecofe.it) con il quale ha contribuito ad organizzare numerosi incontri con i cittadini sotto forma di conversazioni civili, spettacoli e mostre, si impegna nello studio e nella divulgazione di un’informazione libera dai vincoli del pregiudizio. Cura il blog personale www.claudiopisapia.info

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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