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Da qualche giorno ci viene proposta, sbandierata  sui media con clamore e clangori, la decisione della Corte dei Conti che, tramite un suo membro, pensa di richiedere una cifra enorme alle agenzie di rating le quali, dal 2011, hanno penalizzato l’Italia declassandola e classificandola tra le nazioni  “pig”, quindi responsabile con altre di quelle economie-spazzatura che s’identificano come una delle cause determinanti del tracollo dell’economia europea e globale. Sembrerebbe che il ricorso abbia come input iniziale una grave dimenticanza delle agenzie, quella cioè di non contare nelle ragioni addotte quanto “vale” economicamente l’immenso patrimonio artistico di proprietà della Nazione. Mi si perdoni l’uso del virgolettato per esprimere concetti a me particolarmente ostici e quindi da lasciare agli esperti di questo settore, ma soprattutto per non incorrere nelle severe e giuste reprimende dell’assessore ferrarese Marattin.

Ho cercato quindi di avvalermi nella riflessione di un bell’articolo di Francesco Erbani apparso su “La Repubblica” del 6 febbraio, delle considerazioni di Salvatore Settis sul medesimo giornale e nella stessa data, e del parere dell’amico Fabio Donato espresso nell’Introduzione al suo recentissimo libro La crisi sprecata, Aracne editrice in uscita in questi giorni. Ma partiamo da Marattin che così delinea la figura del procuratore che ha promosso l’azione contro le agenzie e che si può leggere nel suo diario di Facebook: “Angelo De Dominicis, il procuratore regionale della Corte dei Conti del Lazio che ha chiesto 351 miliardi di danni alle agenzie di rating. Al suo attivo un libro di poesie e un saggio che intreccia le vite di Andreotti, Paolo Conte e Tinto Brass. E voi c’avete paura della Troika.” Un giudizio pesante che però rende bene conto di quella intricatissima vicenda che progressivamente sta minando le ancor sempre più fragili resistenze del patrimonio culturale italiano. Cominciando dall’ignobile vicenda dei tagli all’insegnamento della Storia dell’arte nelle scuole secondarie (o almeno in parte da esse) di cui responsabile prima è stata la mai deprecata gestione Gelmini ex Ministra della Cultura e la debole e confusa difesa della attuale Ministra Carozza, vicenda che c’entra eccome perché potenzialmente, ma non solo, toglie alle giovani generazioni la possibilità di rendersi conto di che cos’è il patrimonio artistico, poetico, paesaggistico di cui l’Italia è la massima detentrice mondiale. Un’efficacissima immagine che mi è arrivata su fb, mostra la Dama con l’ermellino di Leonardo con questa dicitura “Milano 2020. La sciura con il cane in braccio”, evidente ironia sulla probabile incapacità delle generazioni future di non sapere riconoscere i grandi capolavori della nostra arte. E per finire in gloria, la “riorganizzazione” della gestione dei Beni Culturali di cui riferisce con chiarezza degna di tutta condivisione Vittorio Emiliani nell’ “Unità” del 7 febbraio scorso. Problemi enormi che potrebbero portare alla paralisi della gestione di quello che sciaguratamente in vena di compiacimenti elettorali venne chiamato “giacimento” o “riserva” del patrimonio culturale d’Italia di cui ci si riempie la bocca, che si teme possa cadere nelle mani dei privati ma dei quali nello stesso tempo s’invoca la presenza. Da qui un tentativo di riorganizzazione delle funzioni ministeriali proposto dal Ministro Bray che sembra sia assai debole e non sposti di molto il macigno della gestione dei Beni Culturali.

Francesco Erbani propone un esempio ferrarese per rendere conto del significato che si deve dare al termine valore. Erbani ben conosce la realtà ferrarese, avendo collaborato per molto tempo con Paolo Ravenna e con Italia Nostra, e in quell’occasione ho potuto rendermi personalmente conto della capacità di affrontare questi problemi da parte del valente giornalista. La sua riflessione prende spunto dal giudizio di Paolo Leon, autore del discusso ma stimolante Economia della cultura (Il Mulino editore) che asserisce: “E’ che alle agenzie di rating non interessa tanto il contributo della cultura al valore del patrimonio, quanto il valore di mercato della fruibilità del bene.” Un discorso assai interessante se si pensa che, anche affidando a 10 in una scala di valori che vada dall’1 al 10 e dando un plus valore oltre al 10 al verso dantesco “patrimonio” italiano “la bocca mi baciò tutto tremante”, non potrò mai spenderlo quel verso o monetizzarlo. Così Erbani ripropone l’esempio ferrarese analizzato da Leon che indaga il valore delle Mura ferraresi: “Abbiamo calcolato quanto spazio quelle mura hanno sottratto ad una potenziale espansione della città proprio in quel luogo: il mancato guadagno in termini, diciamo, di speculazione edilizia è il valore di quelle mura”. Ma, analizzando l’affermazione di Leon, Erbani propone d’individuare che cosa sia quel valore ipotetico “che indicizzato nei secoli, serve ai cittadini di Ferrara, insieme alla sua bellezza intrinseca, per capire che importanza ha la cinta muraria e quanto conviene tutelarla al meglio”. Per concludere – con mia piena condivisione –  che “non essendoci compratori possibili, quel valore serve per aumentare la consapevolezza civica”. Sarebbe il risultato più eticamente nobile che si possa dare al valore dell’opera d’arte o del monumento!

Altrettanto significativo, e per me risolutivo, l’intervento di Salvatore Settis di cui nessuno può mettere in dubbio la capacità e la perizia che si assommano alla sua indubitabile e affascinante storia scientifica. Come si sa, a seguito di non sempre piacevoli polemiche, lo studioso si è dimesso dal suo ruolo di consulenza al ministero per assumerne uno dirigenziale al Louvre, dalla cui esperienza trae alcune preziose considerazioni. A cominciare dalla monetizzazione dei beni storico-culturali e del paesaggio che altro non si può definire come un falso problema (e secondo Costituzione!), perché i beni culturali altro non possono e non devono  essere “ciò che la memoria e l’anima sono per ognuno di noi” per cui va rilevata l’inutilità, o meglio la stupidità e la pericolosità, di monetizzare l’opera d’arte o il paesaggio o un verso di Dante. Al prezzo si deve opporre il valore. E da qui partire per quell’ “économie de l’immatériel” che è diventata l’arma risolutiva della Francia di questo particolare problema: “C’è una ricchezza inesauribile, fonte di sviluppo e di prosperità: il talento e la passione delle donne e degli uomini”. Una splendida (e posso aggiungere commovente) dichiarazione di principi e, per dirla con Settis, “Talento e passione innescati, alimentati, sorretti dalla memoria culturale”. E questo grande intellettuale prestato alla Francia, perché qui è guardato con sospetto o appare troppo rigoroso per le nostre menti di “itagliani”, perché non può o non deve diventare ministro dei Beni culturali? I valori immateriali possono produrre economia come ben si evince dall’esempio francese; ma in Italia tutto questo rimane (e non si sa per quanto) lettera morta. Ne abbiamo esempi anche nostrani quando la presidente della Provincia di Ferrara, inaugurando il convegno dell’Arci, sostiene che quella associazione fa politica culturale attiva (e non si sa cosa cosa facciano le altre meno fortunate associazioni culturali storiche della città, poverette) perché – testuale – “noi non abbiamo mai disinvestito in cultura ma questa consapevolezza non è così diffusa oltre il nostro territorio” in quanto qui non c’è come altrove “un atteggiamento eccessivamente rivendicativo e polemico”. Alla grazia! Con quello che a Ferrara è accaduto riguardo alle politiche culturali, andrei un po’ più con i piedi di piombo, evitando trionfalismi che mi sembrano perlomeno un po’ fuori tono. Ma soprattutto rimanendo misterioso quell’altrove.

A questo punto ben sovviene l’analisi di Fabio Donato che nella sua Introduzione a La crisi sprecata invoca un radicale cambiamento dei modelli di governance “che si basi sulle logiche di network, su criteri di apertura e trasparenza e su forme di partenariato con i soggetti privati” (p.8).  Ciò che Donato ritiene necesario è passare dal modello manageriale “micro” a quello “meso“, quest’ultimo “riferito ad aree territoriali omogenee sotto il profilo culturale, che sia coerente con le caratteristiche del nostro patrimonio culturale”. La proposta che prosegue attraverso un’analisi economica assai stringente ha i suoi vantaggi e tenta la risoluzione della crisi attraverso una puntuale analisi. Ma in città, di questo, mi pare non se ne sia ancora tenuto conto.

Come del resto, a proposito della scambio e dell’interazione tra pubblico e privato, mi pare importante accogliere le parole di Settis che domanda se sia possibile in Italia “distinguere chi entra in un museo con lo spirito del donatore da chi vi entra solo per far profitti?” E si veda la vicenda dell’ esibizione del secolo a Bologna: la Ragazza dall’orecchino di perla di Vermeer, un’operazione altamente di profitto che poco dà alla città se non una monetizzazione priva di valore. Eppure, proprio in questo periodo di crisi economica, il valore della cultura sembra attrarre le persone. E probabilmente, sulla scia della mostra evento, ecco che un numero che sembra fantascientifico di più di mille persone si reca alla Pinacoteca Nazionale di Bologna per assistere a una conferenza. Il valore del Museo dunque resiste in epoca di crisi, e lo costatiamo giornalmente nella programmazione delle attività delle associazioni culturali che inducono a riferirsi all’économie de l’immatériel. E penso alle sale piene per i cicli dell’Istituto Gramsci alla Biblioteca Ariostea o alle conferenze del Garden o degli Amici dei Musei o degli Amici della Biblioteca alla Pinacoteca o al Museo di Spina o all’Ariostea, che diffondono cultura immateriale ma nello stesso tempo promuovono acquisto di libri o visite alle mostre. Ecco perché rimango spesso perplesso di fronte all’esigenza, che sembra diventata assolutamente e sconsideratamente prioritaria, del rendimento economico che le mostre o gli eventi dovrebbero produrre, proprio perché non supportati da queste premesse che l’improbabile decisione della Corte dei Conti ha provocato e che nasce da pura ignoranza (nel termine benigno di non conoscenza). Sentire la lista delle priorità di un’economia in sfacelo mette sicuramente in ombra le esigenze del valore della cultura ma, nonostante e in opposizione alla crisi, quest’ultimo deve essere riproposto come priorità, per non allevare generazioni future di un paese che non ha talento né anima o ha talento senza anima.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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