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“Algoritmo: [dal lat. mediev. algorithmus o algorismus, dal nome d’origine, alKhuwārizmī, del matematico arabo Muḥammad ibn Mūsa del 9° sec. (così chiamato perché nativo di Khwarizm, regione dell’Asia Centrale)]. – 1. Termine che indicò nel medioevo i procedimenti di calcolo numerico fondati sopra l’uso delle cifre arabiche. Nell’uso odierno, anche con riferimento all’uso dei calcolatori, qualunque schema o procedimento matematico di calcolo; più precisamente, un procedimento di calcolo esplicito e descrivibile con un numero finito di regole che conduce al risultato dopo un numero finito di operazioni, cioè di applicazioni delle regole. In partic., aeuclideo, metodo per determinare il massimo comune divisore di due numeri interi a e b, basato su divisioni successive. 2. In informatica, insieme di istruzioni che deve essere applicato per eseguire un’elaborazione o risolvere un problema”.

La Treccani mi ha disilluso, stavolta. Io che speravo che l’etimo di “algoritmo” fosse composto da “algos”, dolore, e da “ritmo”, cioè il succedersi ordinato di un movimento: il ritmo del dolore. Il ritmo della pedalata di un rider, ad esempio, uno di quegli esseri umani che corrono per la città per consegnarti in tempo il cibo caldo che hai ordinato, sprofondato nel tepore del tuo divano. Mi persuadeva anche il latino “algidus”, freddo, gelido. Perchè l’algoritmo è un calcolo freddo, indifferente alle sfumature che attraversano continuamente l’animo e la vita dell’essere umano: la malattia, propria o di un familiare; il traffico, l’incidente lungo la strada, o la rapina di cui puoi rimanere vittima (pensiamo anche ai corrieri col furgoncino). Last but not least, il blasfemo esercizio del diritto di scioperare, riconosciuto dalla Costituzione ma stigmatizzato come il rifugio dei fannulloni.

Il “ranking reputazionale” è la classifica della reputazione di un rider. Più il rider è puntuale nelle consegne, più il rider è disponibile a effettuare qualunque consegna gli venga richiesta, più la sua classifica lo vede in alto. Più il rider consegna in ritardo o si sottrae ad una proposta di consegna, più scende nella classifica, fino ad essere espulso dall’azienda per la quale lavora: anzi, con la quale lavora, dal momento che i corrieri (motorizzati o meno) vengono lisciati da quest’assurda retorica secondo cui non sono dei dipendenti, anzi dei semi schiavi, ma dei collaboratori, dei liberi professionisti, in quanto sono, appunto, “liberi” di accettare o rifiutare un incarico. Come se questa scelta fosse indifferente per loro, quando di indifferente c’è solo l’algoritmo: consegni, sei alto in classifica. Rifiuti una consegna, scendi in zona retrocessione, finchè non vieni retrocesso, alias espulso.

Una recentissima sentenza del Tribunale di Bologna, che ha deciso su un ricorso presentato da tre categorie della CGIL (Nidil , Filcams  e Filt), ha introdotto un granello di sabbia nell’ingranaggio algido, indifferente, oliato, dell’algoritmo. L’algoritmo (nel caso di specie, dell’azienda Deliveroo) che non distingue tra le motivazioni che stanno alla base di una mancata presa in carico o di una mancata consegna è discriminatorio. Il Tribunale ha infatti stabilito che non è giusto trattare allo stesso modo, ai fini della “classifica” reputazionale del rider, il fatto di non accettare la consegna per futili motivi o per gravi ragioni, quali una malattia o una disgrazia o un imprevisto – che sono poi le piccole o grandi sventure umane che il mondo del lavoro dei “garantiti” tutela attraverso il riconoscimento della malattia retribuita, o i permessi per assistere un familiare malato, per allattare un figlio, o per andare alle esequie di un padre deceduto. L’algoritmo è “cieco” di fronte a queste situazioni e le tratta tutte allo stesso modo perchè “decide” di essere cieco. Se volesse vedere le differenze, potrebbe farlo: basterebbe agire manualmente per introdurre un correttivo. Il Tribunale, per questa discriminazione, ha riconosciuto un risarcimento di 50.000 euro ai ricorrenti. Dal punto di vista tecnico, non è una class action, perchè in Italia l’azione collettiva intesa come “trattazione in un unico procedimento di più domande di risarcimento connesse a uno stesso illecito lesivo di una pluralità di soggetti” è ammessa solo se ricorre una categoria di consumatori. Tuttavia, come precisa l’avvocato della CGIL De Marchis, di fatto ha lo stesso effetto, “perché c’è una discriminazione collettiva in materia di lavoro. Non c’è la figura di un rider specifico dietro la causa ed è per questo motivo che è ancora più dirompente, perché vale per tutti i riders”. Questa è la meraviglia che, a volte, in un orizzonte ed un presente cupo e gelido, realizza certa giurisprudenza del lavoro: interpretare le norme in maniera evolutiva, cogliendo i fenomeni in atto nella loro dinamica reale, che è poi quella che incide sulla carne viva delle persone.

Si tratta di una decisione che contrasta in maniera radicale l’egemonia del “pensiero calcolante”, di cui parla spesso Umberto Galimberti, specificando peraltro che “pensiero calcolante è una definizione di Heidegger il quale, a più riprese, individua nel pensiero occidentale questa tendenza al calcolo e questa riduzione di tutto il pensiero alla calcolabilità. Pare che noi sappiamo fare solo di conto, visualizzando il mondo sotto il profilo dell’utile. La qualità del pensiero di cui oggi noi disponiamo è egemone al punto che, ormai, non sappiamo più che cosa è bello, cosa è brutto, cosa è vero o santo, perché siamo attratti subito da cosa è utile”. La causa vinta non appare più, quindi, come la declinazione velleitaria di una battaglia contro i mulini a vento, come appaiono sempre più spesso i padroni indistinti, nascosti dietro trust o celati dietro il calcolo di una formula; ma diventa una lotta doverosa dell’umanesimo contro la mera utilità economica.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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