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Quando CNN e MSNBC hanno deciso di togliere la parola (staccando il collegamento) a Donald Trump, presidente Usa in carica ma perdente, che il 6 novembre 2020 farneticava in diretta televisiva degli inesistenti brogli di cui sarebbe stato vittima, di primo acchito ho esultato: ecco l’informazione libera che si ribella alle fake news, anche se è il tuo Capo di Stato a diffonderle. Poi, a botta fredda, ho iniziato a pensare a come fosse stato possibile che Trump, un uomo che aveva costruito tutta la sua comunicazione sulle fake news diffuse in buona parte attraverso i media, fosse riuscito a diventare il Presidente degli Stati Uniti a dispetto di tutta la “informazione libera”, in primis quella del suo paese. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire, se lo scopo è smascherare le falsità di un potente. Temo però che sia legittima anche un’ altra lettura di questo evento: il potente viene bannato, ridicolizzato, censurato solo quando il suo potere sta crollando. Fino a quando è stabilmente sul trono, il teatro della comunicazione ammette il dissenso, ma non discute le fondamenta di cartapesta del Truman Show costruito dal potente. Invece, quando il potente annaspa, abbarbicato al trono che scricchiola, solo allora il mondo della comunicazione fa cadere i proiettori dal soffitto e fa sbrecciare il fondale del finto panorama marino, gli elementi della storia farlocca che il potente ha raccontato ai sudditi per diventare il sovrano. E allora però la sensazione di essere manipolati non diminuisce, ma aumenta.

Nemmeno George Orwell immaginava che alcune sue intuizioni sarebbero state tanto profetiche. Le sue simpatie socialiste e democratiche gli fecero scrivere, sia in termini giornalistici che letterari, parole seminali contro il totalitarismo di Stato, incarnato storicamente da quella Unione Sovietica parodiata ne “La fattoria degli animali”. Eppure, nemmeno il visionario Orwell di “1984” e del “Grande Fratello”  poteva immaginare che il controllo sociale e l’orientamento del consenso sarebbero passati nelle mani di privati, e che quei privati sarebbero diventati più potenti degli Stati sovrani.

Facebook è nato come una piazza virtuale tra universitari per dare i voti alle ragazze. Progressivamente è diventato il social media più influente e capillare del pianeta, e alla fine del giro è diventato il posto nel quale l’ analfabeta funzionale si forma la sua opinione e poi vota Trump, o Salvini o Meloni o Le Pen (sillogismo aristotelico: non tutti coloro che votano questi signori/e sono analfabeti funzionali, sia chiaro; però gli analfabeti funzionali che votano, votano questi signori/e). Come sia stato possibile che l’espansione planetaria di questo strumento abbia disegnato una parabola circolare, che sia stato utilizzato da tutti, compresi gli intellettuali e i geni del pianeta, per poi tornare come in un gioco dell’oca alla casella di partenza dell’ignoranza, Dio solo lo sa (oltre a Zuckerberg). Con la differenza che un social “ignorante” usato da studenti universitari potrebbe essere inteso come una operazione con un senso, seppur frivolo e goliardico, mentre quello che accade adesso sul social network più mainstream fa venire i brividi per l’assoluta inconsapevolezza della propria buaggine da parte di certi leoni da tastiera. Questo non significa che non eserciti un potere immenso sulla mente delle persone: tutto il contrario. Pensate a quanto tempo della vostra giornata “cazzeggiate” su Facebook, e pensate alla genialità totale, perversa, di chi ha intraveduto le potenzialità commerciali di questo strumento: una piazza in cui ognuno può dire la propria opinione, anche se “la propria opinione” non esiste, perchè l’organismo mononeuronale di turno non si è mai messo nelle condizioni di potersi formare una opinione, nonostante le illimitate possibilità attuali, se confrontate con l’analfabetismo di necessità dei nostri nonni o bisnonni. E questa è una responsabilità gravissima sia del soggetto, sia della scuola, sia della società della intermediazione culturale, risultata talmente irrilevante da consentire la proliferazione di questi ultracorpi, dei baccelli che anzichè provenire da un altro pianeta si autoreplicano in casa, doppiando idioti a ripetizione.

Come se, all’improvviso, questi gestori-loro-malgrado della democrazia diretta fossero stati travolti dal senso di colpa per aver consentito ai mostri di moltiplicarsi e diventare anche famosi (a mezzo di manifestazioni di odio razziale, sessuale, religioso, sociale, civile nonché idiozie terrapiattiste et simlia), Facebook Twitter e Instagram hanno iniziato a censurare contenuti e bannare pagine. Il risultato è talvolta paradossale (persino la pagina Facebook di Ferraraitalia è stata mandata negli spogliatoi per diverse settimane a causa di alcuni vocaboli, non offensivi nè turpi, contenuti in un articolo satirico su Sgarbi), talvolta inquietante. L’inquietudine nasce dal fatto che questi social network privati, che hanno raggiunto una diffusione enorme e veicolano “informazione” disintermediata a miliardi di esseri umani, moltissimi dei quali li utilizzano per formare lì la propria (sub)cultura, decidono ormai senza appello a chi dare e togliere la parola. L’autorevolezza e la pericolosità di questa facoltà dipendono entrambe dalla rilevanza sociale e mediatica di questi mezzi, che è divenuta smisurata. L’autorevolezza è, in qualche modo, autoconferita ma anche guadagnata “sul campo”: se un mezzo diventa così potente, il merito è di chi lo ha creato e gestito. La pericolosità è altissima: una società per azioni di private persone decide se dare, togliere o amplificare la voce di un pazzo o di un genio, di un fanatico o di un Nobel, di un genocida o di un Gandhi. Si dirà: è un mezzo privato, potranno decidere quello che può passare o non passare sui loro canali. Se non ti piace, esci e “cambia canale”. Inoltre: tanto lamentarsi dell’odio e dell’ignoranza che viaggiano sul web non può diventare lamentarsi anche del fatto che l’odio e l’ignoranza vengano rimossi dal web. Altrimenti siamo gente che si lamenta di tutto. Anche questo è un ragionamento con una sua coerenza. Tuttavia…

Tuttavia: adesso la censura su Facebook e Twitter sta attraversando un momento di popolarità politically correct, perchè la vittima è Trump (un Trump che ha perso le elezioni, e quindi il potere). Io però mi faccio una domanda: se domani l’algoritmo di Facebook diventasse razzista, come la metteremmo? Se la sua policy prevedesse all’improvviso che si può inneggiare alla mafia o addirittura veicolarne i messaggi e i contenuti, come la metteremmo? Se da domani fosse consentito ridicolizzare e bannare Trump, ma fosse vietato criticare Putin? A nessuno viene il sospetto che il neoprogressismo di queste policy private colpisca i potenti solo quando sono decaduti, finiti, detronizzati?

Trovo molto pericoloso che un Elon Musk o un Mark Zuckerberg possano decidere quali informazioni e opinioni possano circolare, e quali no. Intanto questi media sono diventati mille volte più influenti di una testata editoriale, ma a differenza di questa non sono imputabili per diffamazione, anche se intermediano calunnie – il che fa il paio con il fatto che fatturano mille volte il fatturato di un editore “tradizionale”, ma attualmente si possono permettere, con semplici escamotage, di non pagare le tasse. Ma soprattutto: e se la macchina del consenso e della censura spostasse la sua banda di oscillazione sulla base di impulsi squisitamente “commerciali”? Finché il cavallo è vincente, può dire qualunque enormità suprematista, nazionalista e razzista. Quando il cavallo è perdente, si chiudono quei profili che fino al giorno prima propagandavano teorie complottiste e folli nella più totale libertà.

Questo tipo di atteggiamento al mio naso non profuma di libertà e democrazia, ma puzza di opportunismo. Certo, nel mondo c’è un problema altrettanto grande, enorme e contrario: il fatto che in molti paesi retti da regimi totalitari (Turchia, Cina, Iran) l’accesso ai social network è pesantemente limitato, e i contenuti vengono impediti spesso ben prima di accedere all’analisi delle policy dei social. Tuttavia una questione ugualmente importante rimane aperta: se sia giusto lasciare la valutazione dei contenuti solo ed esclusivamente nelle mani di questi potentissimi neo-capitalisti della comunicazione liquida, che detengono oggi un potere di orientamento del consenso superiore a quello di uno Stato di stampo orwelliano.

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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