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“Cambiava umore con facilità estrema, i giudizi e i commenti degli altri lo trovavano più indifeso e contribuivano ad aumentare il suo smarrimento. Tutto era forse accaduto troppo in fretta e bisognava ricominciare da capo. Ma ora che erano cadute tante premesse, non aveva più una meta e niente che ne colmasse l’assenza; adattarsi gli sembrava una resa, la sua crisi non poteva finire così. Trovava assurda la sua vita, ritornava su certe constatazioni con una fissità che lo stancava e gli faceva talvolta desiderare di evadere, di tornare a muovere, di distrarsi”. Questo estratto, tratto da “La morte in banca” di Giuseppe Pontiggia, primo romanzo aziendale italiano, potrebbe attagliarsi allo stato d’animo di un neo assunto di studi classici alle prese con un mondo calcolante e meschino, abbracciato per necessità; ma anche di un piccolo neo ristoratore che, causa epidemia, vede il suo sogno imprenditoriale ucciso sul nascere, e la banca trasformarsi da assistente a spietata, indifferente matrigna.

Per una volta Antonio Patuelli, presidente dell’ABI(Associazione Banche Italiane), non parla solo pro domo sua quando dice: “Il primo meccanismo che con l’arrivo del Coronavirus non può funzionare è quello che tecnicamente viene definito ‘calendar provisioning‘, insieme alla nuova definizione che è stata proposta per il ‘default’. Un combinato disposto micidiale per l’economia e i cittadini. Le regole pensate prima della pandemia non possono essere fatte valere adesso, come se tutto fosse normale. Ne va della salute non tanto delle banche quanto dell’economia in generale, della vita di tutti noi. Dei cittadini che investono, delle aziende, piccole o grandi che siano. Secondo la definizione in vigore tra un mese e mezzo, cade in default chi ha un debito arretrato di 90 giorni, anche per soli cento euro. Se si tratta di aziende il limite sale a 500 euro, in ogni caso bassissimo. È un meccanismo micidiale soprattutto in epoca di pandemia perché chi accusa quel ritardo finisce per essere inserito nella lista dei cattivi pagatori, con tutto quello che ne consegue. È evidente che tutto ciò in periodo di pandemia finirebbe per strangolare l’economia”.

E’ la vigilanza BCE il fulcro del sistema, ed è quella che può far partire la macchina che cambi le regole e le adatti alla guerra pandemica in corso. Dal 2018 a capo dell’organo c’è Andrea Enria, economista italiano, proveniente dall’Autorità Bancaria Europea (EBA). L’AD di Mediobanca, Alberto Nagel, conferma che le norme che impongono accantonamenti piu’ rapidi sui crediti deteriorati, eliminando la discrezionalita’ e portando a svalutare i NPL di un terzo ogni anno, comprese le inadempienze probabili, i cosiddetti UTP(unlikely to pay), sono “… applicate alla situazione post-covid, come una bomba atomica”.  Poi aggiunge che ha fiducia in Enria, che è uno con cui si può parlare. Lo speriamo tutti, e non perchè le silhouettes di Nagel e Enria siano particolarmente rassicuranti: anzi, vedere le loro foto mi fa correre un brivido lungo la schiena, perchè mostra la siderale distanza tra loro, la loro vita, e la nostra. Tuttavia esistono, a volte, top managers e massimi decisori economici che risultano all’altezza dei momenti storici, e questo lo è, senza ombra di dubbio. La nostra fiducia in loro non può riporsi nel fatto che possano in qualche modo “mettersi nei nostri panni”. Questo non è possibile. La nostra fiducia in loro (Andrea Enria, Christine Lagarde) deve riporsi nel fatto che siano ben consapevoli che la montagna di denaro e privilegi e, per carità, responsabilità sulla quale sono seduti sta già smottando. Se questa montagna franasse, loro sarebbero gli ultimi a fallire in senso economico, essendo in cima alla scala, ma i primi a fallire in senso storico, e questo potrebbe essere un colpo mortale per il loro ego. Dobbiamo confidare nella loro egocentrica e disperata capacità di non passare alla storia come i più ricchi del cimitero: quel cimitero sociale che non sarebbero stati in grado di scongiurare.

 

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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