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In Italia, il terreno che ha consentito al disastro culturale di massa di mettere solide radici ha avuto come nutriente essenziale la televisione commerciale, il cui protagonista indiscusso è stato Silvio Berlusconi. Quello che gli italiani hanno premiato è stato “l’uomo che si è fatto da solo”, l’abile imbonitore, il barzellettiere sempre a caccia di gnocca (lo cito: “Stamani in albergo volevo farmi una ciulatina con una cameriera. Ma la ragazza mi ha detto: “Presidente, ma se lo abbiamo fatto un’ora fa…”. Vedete che scherzi che fa l’età?”), l’imprenditore capace di costruire un impero editoriale “dal nulla”, il non essere un “politico di professione”. Quello che gli italiani hanno messo sotto il tappeto sono le origini della sua iniziale fortuna.
Cito Wikipedia sulla Banca Rasini, di cui suo padre era funzionario: “… la banca è un punto di incontro di capitali lombardi (principalmente quelli della nobile famiglia milanese dei Rasini, proprietaria del feudo di Buccinasco) e palermitani (quelli provenienti da Giuseppe Azzaretto, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia)….Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi (padre di Silvio) ratifica un’operazione destinata ad avere un peso nella storia della Rasini: la banca acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d’amministrazione figurano nomi destinati a divenire famosi, come Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus”.
La protezione della mafia, Berlusconi l’ha cercata anche in concomitanza della sua discesa in politica; l’ha ottenuta attraverso il plenipotenziario siciliano Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa per essere stato ritenuto il mediatore del patto di protezione tra Berlusconi e Cosa Nostra, condannato a 12 anni in primo grado nel processo sulle presunte intese tra Stato e mafia, indagato per le stragi del 1993 con il sodale storico.

Quello che gli statunitensi hanno premiato di Donald “Rockerduck” Trump è stato “l’uomo che si è fatto da solo”, l’abile imbonitore, l’arrapato sempre a caccia di gnocca (cito lui: “sono automaticamente attratto dalla bellezza – inizio subito a baciarle, è così. È come una calamita. Bacio subito. Nemmeno aspetto. Quando sei famoso te lo lasciano fare. Puoi fare tutto. Afferrale dalla figa. Puoi fare tutto”), l’imprenditore capace di costruire torri, grattacieli e casinò, il non essere un “politico di professione”. Quello che gli statunitensi hanno messo sotto il tappeto sono le origini della sua fortuna, la protezione della mafia.
Cito Roberto Saviano: “Nei primi anni ‘80 Cosa Nostra americana gonfiava il prezzo del cemento e bloccava con scioperi i cantieri che non pagavano tangenti. Il calcestruzzo continuò ad arrivare in grande quantità e senza ritardi solo nei cantieri di Donald Trump. Come mai? Perché Trump poteva contare su un asso nella manica: Roy Cohn, un avvocato che oltre ai suoi interessi curava anche quelli di Anthony «Fat Tony» Salerno (capo della famiglia mafiosa dei Genovese) e Paul Castellano (capo della famiglia Gambino), due dei boss accusati dalle autorità federali di gonfiare il prezzo del cemento. Grazie all’intercessione di Roy Cohn, i cantieri di Trump venivano esclusi dagli scioperi dei sindacati,…Trump ha sempre fatto affari con mafiosi. Nel 1984 affidò i servizi elicotteristici dei suoi casinò a una società di proprietà di Joe Weichselbaum, un uomo con precedenti per furto d’auto e appropriazione indebita, che l’anno dopo sarebbe stato incriminato per traffico di droga: utilizzava i suoi velivoli per trasportare cocaina colombiana. … A metà degli anni 2000 il suo partner in importanti progetti immobiliari, tra cui un grattacielo Trump a Soho, era Felix Sater, figlio di un boss della mafia russa di Brooklyn, reo confesso di una truffa azionaria da 40 milioni di dollari realizzata con le famiglie mafiose Genovese e Gambino. Nel 2007 si fece fotografare alla posa della prima pietra del grattacielo Trump a Toronto con il suo socio nell’affare, Alex Shneider, divenuto magnate dell’acciaio in Ucraina dopo la caduta dell’Unione Sovietica e genero di Sergej Mikhailov, il più potente boss della mafia di Mosca”.

Le analogie tra i percorsi (compresa la “discesa in campo” per sfuggire ai guai giudiziari), l’essere divenuti star televisive, il parallelo consenso popolare raggiunto, la incredibile rimozione dal dibattito pubblico della loro alleanza con il potere criminale, rendono quasi naturale un parallelismo nella parabola dei due tycoons. Anche il controllo dei media li accomuna. Purtroppo i grandi media diventano indipendenti dal potere solo quando sta crollando. Infatti la CNN ha oscurato un farneticante Trump, Presidente in carica, mentre sproloquiava senza alcuna prova, a spoglio in corso, sul fatto che la vittoria di Biden era frutto di brogli e illegalità. Una censura della fake new senza precedenti. In Italia non è mai successo, ma nemmeno negli USA sarebbe successo se Trump non stesse cadendo dal trono (mentre scrivo la vittoria di Joe Biden non è ancora matematica, ma quella che appare certa è la sconfitta di Trump).

Spiace semplificare proprio mentre si parla dell’eccesso di semplificazione. Tuttavia sono persuaso che la diffusione massiva di una cultura orizzontale, prima attraverso le tv e poi i social media, abbia contribuito in misura decisiva a formare una “opinione pubblica” completamente piatta, incapace di scendere sotto la superficie ingannevole e pacchiana delle cose. L’analfabetismo funzionale è definito dall’Unesco come «la condizione di una persona incapace di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere da testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Secondo un recente studio dell’OCSE, il 28% degli italiani tra i 18 e 65 anni è un analfabeta funzionale. “Più della metà degli italiani ha difficoltà a comprendere l’informazione scritta”, ha detto alcuni anni fa l’illustre linguista Tullio De Mauro.

La riduzione della base culturale è un paradosso, se pensiamo alla potenzialmente infinita possibilità di raccogliere, selezionare e collegare fonti di informazione, mai esistita in passato. Questa democratizzazione dell’ignoranza è un fatto drammatico, che ha conseguenze tragiche sulle fondamenta delle democrazie. Succede infatti che una relativa minoranza (ma enormemente numerosa) di esseri umani facenti parte dell’elettorato attivo, esercita questa funzione abbeverandosi a informazioni false, che non è in grado di battezzare come false e che non approfondisce oltre al titolo. E poi va a votare. Prima che il mio ragionamento sia bollato come elitario o provocatorio, vorrei rimarcare, di nuovo, che una minoranza (molto numerosa) di persone condiziona con le sue scelte “politiche”, basate su una sottocultura fake, la vita della maggioranza delle persone. Come se la loro visione del mondo fosse fondata sulla lettura di un continuo Lercio (il più famoso fabbricatore satirico di fake news), cui esse si abbeverano però del tutto inconsapevolmente. In democrazia vince la maggioranza, ed io, come altri, mi sto ponendo la domanda (nient’affatto provocatoria) se la democrazia debba essere intesa, a questo punto, solo come una questione di numeri.
Il suffragio universale, ovvero il principio secondo il quale tutti i cittadini di età superiore ad una certa soglia, in genere maggiorenni, senza restrizioni di alcun tipo a partire da quelle di carattere economico e culturale e altre quali censo, etnia, grado di istruzione, orientamento sessuale e genere, possono esercitare il diritto di voto e partecipare alle elezioni politiche, amministrative e ad altre consultazioni pubbliche, è stato una conquista fondamentale della vita democratica. Adesso lo diamo per scontato, ma fino al 1893 non lo è stato in nessuna parte del mondo, e molte nazioni lo hanno introdotto nel ventesimo secolo. David Harsanyi, scrittore e giornalista per il Washington Post, ha detto: “se non hai la minima idea di ciò che ti sta intorno, hai anche il dovere civile di non soggiogare il resto di noi alla tua ignoranza“.
La soluzione non è semplice: però non comprendo per quale ragione esistano dei test da superare per accedere alla cittadinanza di un paese, e non possa essere concepito un test che non definirei nemmeno culturale, ma cognitivo, di base il cui superamento condiziona la possibilità di votare per chi ci deve governare. Se non ci poniamo seriamente questo problema, temo che il tramonto di potenti come Trump e delle loro cheerleaders (come l’Independent ha definito l’ormai indefinibile Matteo Salvini) sarà fenomeno effimero, e preluderà all’alba di personaggi ancora peggiori.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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