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Il nostro paese è fra i pochissimi ad attuare l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità nelle scuole pubbliche; sicuramente siamo stati dei “pionieri” in questo campo e chi ha definito addirittura “selvaggi” i primi inserimenti a scuola non ricorda quasi mai che, dalla parte di “frontiera” che ci si è lasciati alle spalle, c’era una “riserva” fatta anche di scuole speciali e di classi differenziali.
“Pionieri, selvaggi, riserva e frontiera” sono termini propri di un vocabolario da colonizzatori del Far West che normalmente non userei se non fossi convinto che il percorso dell’integrazione è stato insolito proprio perché si è scelto di conquistare nuovi spazi per poter accogliere nuovi diritti dentro il panorama della scuola pubblica.
Dal punto di vista normativo sono quasi 43 anni che questa esperienza caratterizza il nostro sistema scolastico, dal punto di vista pratico pochi di meno; quindi è trascorso ormai un lasso di tempo significativo: molti libri sono stati scritti, molti studi sono stati pubblicati, molte ricerche sono state svolte, anche se sono scarse le indagini conoscitive del Parlamento e ancora pochi i testi sull’efficacia delle strategie dell’integrazione.
Siamo stati sicuramente un paese all’avanguardia ma oggi, che il contesto socioculturale è totalmente diverso da quello degli anni settanta, oggi che il mercato sta colonizzando anche il territorio scolastico, oggi che si danno i voti per fare le classifiche, oggi dobbiamo chiederci cosa fare per mantenere alta la tensione ideale su questo che può essere definito “il maggior processo di trasformazione della scuola italiana”.
A volte ho la sensazione che, nel campo dell’integrazione, tra il dire e il fare ci sia di mezzo il “norMare”, cioè una vastità liquida di norme (circolari, ordinanze, note, leggi, legge-quadro), limpide e trasparenti, che purtroppo si raggiungono solo occasionalmente, rimanendo in tal modo distante dal nostro fare quotidiano.
Insomma abbiamo una normativa molto attenta che ha creato un orizzonte ideale di riferimento ma oggi credo valga la pena chiedersi se la scuola sia cambiata adeguatamente o meglio, come canterebbe Gaber, se la scuola che “ha mangiato l’idea” dell’integrazione abbia compiuto completamente la sua “rivoluzione”.
Eppure pedagogisti, insegnanti, ricercatori ed amministratori stranieri vengono nel nostro paese per capire ed imparare come facciamo.
La nostra scuola, di fatto, è vista come un faro per tutti coloro che vogliono navigare nel mare dell’inclusione.
Il motivo è evidente: il processo di integrazione è stato ed è un arricchimento per la società, è un opportunità incredibile di scoperta, di conoscenza, di confronto, di civiltà, di crescita, di maturazione che migliora il clima educativo e che favorisce la ricerca di nuove tecniche didattiche.
Tutti coloro che lavorano faticosamente nella scuola si accorgono ogni giorno dei vantaggi che l’integrazione offre a tutti gli studenti in termini di opportunità formative, di approfondimenti culturali, di strategie individualizzate, di relazioni umane: questi miglioramenti si vedono, si osservano, si documentano, si verificano, insomma si respirano durante il percorso.
Tutti coloro che credono nell’integrazione a scuola sanno che per affrontare il tema della diversità non serve negare il conflitto emotivo e cognitivo che si genera inevitabilmente nella classe; al contrario solo accogliendolo, accettandone le contraddizioni ed analizzandole insieme, si può educare davvero all’accettazione delle diversità, senza inutili pietismi ed ipocriti buonismi.
Tutti coloro che si impegnano per una scuola da vivere come un luogo accogliente sanno che la gestione cooperativa della classe, la relazione di aiuto, lo sfondo integratore, la didattica che adatta i materiali e sceglie i suoi strumenti, l’individualizzazione dei percorsi sono strategie efficaci ed utili non solo per motivare gli studenti ma per migliorare lo stile dell’insegnamento e gli effetti dell’apprendimento.
Noi lo sappiamo.
Tutta questa ricchezza invece non interessa a chi, usando i test per valutare gli apprendimenti, in nome di una presunta oggettività, intende stilare la classifica fra scuole e dentro le scuole fra le classi e dentro le classi fra alunni.
Questo patrimonio non interessa affatto a chi pensa che il problema della complessa valutazione dei ragazzi con disabilità si risolva escludendoli dalle prove nazionali.
Per molti di noi è chiaro che i test, così strutturati, così somministrati e così analizzati, sono uno strumento diagnostico improprio, usato da un guaritore imperfetto, per imporre una terapia d’urto scorretta che fa della sottrazione l’operazione aritmetica preferita per togliere personale, risorse, spazi, diritti e democrazia.
In poche parole al fenomeno dell’integrazione non viene attribuito “valore” in alcun modo, nonostante esso sia un elemento da indagare proprio perché potrebbe restituire il grande sforzo di attenzione della scuola ai sogni e ai bisogni di tutti e di ciascuno.
Noi che ci crediamo dobbiamo proporre una valutazione di sistema che valorizzi tale aspetto, che sia da affidare ad un ente indipendente, che coinvolga gli organi collegiali, che svolga i suoi compiti in una logica di ricerca inclusiva, che presti la dovuta attenzione alle caratteristiche del sistema nel suo insieme, che divenga strumento di lavoro condiviso ed efficace per una trasformazione positiva, che si preoccupi di facilitare la cooperazione e non la competizione, che eviti di scrivere sulla lavagna le scuole buone e dall’altra quelle cattive ma che metta a disposizione gli esiti per il miglioramento di tutte le scuole.
In tale logica, il processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, se lo si considera davvero “un punto di forza del nostro sistema educativo”, meriterebbe di essere considerato coerentemente.
Noi che ci crediamo dobbiamo riuscire ad inserire, all’interno di una valutazione seria del sistema Scuola, la qualità dell’integrazione come elemento fondamentale; dobbiamo riuscire ad individuare dei buoni indicatori di qualità per arrivare poi a definire dei Livelli Essenziali di Qualità dell’Integrazione.
Indicatori che facciano riferimento ad esempio alla disponibilità di risorse strutturali, all’assegnazione e alla formazione del personale, alla loro collegialità nel progettare e alla corresponsabilità nell’agire, alla continuità e alla stabilità del personale, alla differenziazione dei percorsi, alla qualità del tempo scuola e all’organizzazione scolastica in generale.
Inoltre dovremo riuscire a dimostrare quanto il contesto socioculturale abbia influito negativamente in questi ultimi anni e quanto possa essere deleterio il ritorno ad istituzioni speciali o differenziate, non solo dal punto di vista socioculturale ma anche “spudoratamente” economico.
Se infatti consideriamo il panorama culturale e politico che sottrae la dignità al lavoro dei docenti, che “taglia e toglie” risorse, che svaluta le scuole pubbliche e privilegia quelle private, che favorisce la competizione fra scuole considerandole mercati di opportunità formative, che consente l’ingresso dei privati per inopportune sponsorizzazioni, che impone di raggiungere determinati standard, si avverte forte il rischio che anche le scuole, condizionate dal clima, ostacolino le politiche di inclusione poiché potrebbero abbassare il loro rendimento e la loro prestazione complessiva.
Se poi esaminiamo le osservazioni riferite alla Camera nel 1998, durante l’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Cultura coordinata dall’onorevole Sbarbati, si nota che sono stati segnalati problemi reali (nei rapporti con i Servizi Sanitari, le difficoltà nel rispettare Accordi di programma, la scarsa formazione degli insegnanti curricolari, la propensione alla delega all’insegnante di sostegno) ma anche che viene indicata la strada per la creazione di scuole particolarmente attrezzate per i casi “gravi”.
Possiamo concludere quindi che il rischio di una “disintegrazione” dell’esperienza maturata è ben presente.
Se infine prendessimo alcuni indicatori (ad esempio l’emanazione di norme, le occasioni di studio e di ricerca, le attività dei gruppi di lavoro e dell’Osservatorio Permanente) potremo concludere tranquillamente che dal giugno 2001 ad oggi (cinque anni di Moratti, due di Fioroni, tre anni e mezzo di Gelmini ed uno e mezzo di Profumo) l’attenzione dei governi all’integrazione è stata davvero molto bassa ed il silenzio esplicito e fastidioso.
C’è quindi il pericolo di farsi condurre verso un futuro di esclusione attraverso il ritorno ad un passato di separazione.
Può essere di sicura utilità far tesoro delle esperienze precedenti cercando di migliorarle.
Ad esempio qualche anno fa, tra il 2005 e il 2006, ho partecipato ad un Gruppo di Lavoro misto (MIUR, Invalsi, Associazioni delle Famiglie) nato dall’esigenza dell’Osservatorio Permanente per l’Integrazione Scolastica di monitorare la situazione.
Il gruppo ha discusso a partire da un’ipotesi di indicatori e descrittori per la qualità dell’integrazione scolastica.
Le indicazioni di lavoro del gruppo non sono però state raccolte pienamente (anzi a tratti sono state stravolte dall’Invalsi e dal Ministero).
È stato realizzato un questionario di rilevazione dell’integrazione scolastica che aveva lo scopo di: rilevare informazioni sullo stato dell’integrazione; dare ulteriore impulso all’integrazione di qualità; fornire alle scuole strumenti per l’autoanalisi; esplorare indicatori idonei alla rilevazione della qualità dell’integrazione.
Tale questionario era strutturato in: Dati generali (relativi all’Istituto); Elementi di struttura (la formazione delle classi, l’assegnazione di ore dei sostegni, la collaborazione fra docenti e dei docenti con i non docenti, la costituzione ed il funzionamento dei gruppi di lavoro, l’erogazione di risorse, la disponibilità di tecnologie e di sussidi, la presenza di barriere architettoniche e percettive); Elementi di processo (la continuità, l’accoglienza, la chiarezza e la condivisione con le famiglie delle certificazioni e dei documenti, l’articolazione degli spazi, l’utilizzo del personale di sostegno e non, la socializzazione e le relazioni con i compagni di classe); Elementi di risultato (la modalità di valutazione degli apprendimenti, dell’autonomia, della comunicazione, della socializzazione, delle relazioni, dell’integrazione).
Le scuole hanno avuto modo di rispondere sia on-line che off-line alla fine dell’anno scolastico 2005/2006.
La ricerca è stata effettuata su un campione non rappresentativo, in quanto il questionario è stato compilato su base volontaria.
Ha risposto quindi solo il 62% delle scuole e la percentuale di quelle Secondarie di Secondo grado è stata bassissima.
Sono emersi comunque dati preoccupanti sull’affollamento delle classi, sulla inadeguatezza nella formazione dei docenti curricolari, sulla mancanza del titolo di specializzazione per molti insegnanti di sostegno, sui ritardi nella nomina di questi ultimi, sulla scarsa formazione specifica dei Dirigenti Scolastici, sulla discontinuità didattica, sulla presenza di barriere architettoniche e sulla scarsa chiarezza delle diagnosi funzionali.
Sono tutti presupposti fondamentali dell’integrazione che segnalano un basso livello qualitativo.
Se però si analizzano attentamente i dati, ci si accorge che la maggior parte di questi aspetti critici è dovuta a quel contesto di “disintegrazione” che è conseguenza delle politiche messe in atto dai governi degli ultimi 12 anni (aumento del numero minimo di alunni per classe e del numero di alunni con disabilità per classe, nomina in ritardo degli insegnanti di sostegno e loro ricambio dopo qualche settimana, mancata assegnazione del giusto numero di ore di sostegno, discontinuità del personale come conseguenza della precarietà, frammentarietà dei docenti come risultato di assurde classi di concorso nella scuola secondaria di secondo grado).
In questi casi quindi chi deve ricevere una valutazione molto bassa è il Ministero che non applicando le norme vigenti, elude ed evade l’impegno nei confronti dell’integrazione condizionandone il buon esito.
In questi casi gli insegnanti ed il personale Ata sono acrobati di un circo di periferia che camminando su un filo sottile e senza rete, riescono comunque a provocare grandi suggestioni.
In pratica la scuola pubblica, nonostante le mille difficoltà create da un contesto ostile, riesce a resistere con tenacia.
In una valutazione di sistema che coinvolga l’integrazione andrebbero approfonditi anche altri aspetti: ad esempio l’adeguatezza o meno dell’assegnazione di risorse, l’uso proprio ed improprio degli insegnanti di sostegno, la dotazione dei collaboratori scolastici per l’assistenza di base; l’eventuale coinvolgimento degli insegnanti curricolari nella presa in carico, la partecipazione delle famiglie; l’inserimento nel Piano dell’Offerta Formativa di un protocollo di accoglienza; la documentazione del percorso educativo; la presenza di centri di consulenza per le scuole; la presenza ed il funzionamento dei gruppi di lavoro ed il loro eventuale coordinamento regionale.
Sarebbe da indagare con più profondità anche il mondo delle scuole private; non solo negli aspetti sopra citati ma anche per ciò che riguarda elementi molto più materiali come la ripartizione della spesa per l’insegnante di sostegno (giungono molte segnalazioni che spesso venga fatto ricadere quasi totalmente sulla famiglia).
Io penso che in questi “anni di frontiera” noi dobbiamo provare a “tenere alta l’attenzione” sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità portando idee, contributi, esperienze affinché non sia accettato passivamente e acriticamente il dogma di uno standard da raggiungere, tarato su una normalità decisa da altri e totalmente incurante di ciò che avviene nel percorso insegnamento/apprendimento.
Con un gioco di parole, ricordo che l’anagramma della parola: “valutazione” è “violenza tua”; sono consapevole del fatto che sia soltanto un divertimento linguistico, suggerisco però di ragionare attorno al fatto che quello dell’insegnante è davvero un mestiere potente; per questo tutto ciò che riguarda l’educazione, in futuro, andrebbe trattato con estrema cura, con delicatezza, pazienza e rispetto, con competenza e professionalità.
Noi che, anche nel paesaggio scolastico di oggi, abbiamo scelto di percorrere “La strada giusta”, dobbiamo cercare i mezzi capaci di accogliere nuovi compagni di viaggio, dobbiamo produrre l’energia pulita e ricaricabile necessaria per muoversi e poi dobbiamo anche riuscire a non perdere l’orientamento che, per me, vuol dire “tenere la sinistra” cioè procedere verso una scuola che educhi ai saperi e alle libertà, che non insegni a crepare ma a creare, che aiuti ad imparare e non a separare, che si preoccupi delle relazioni e non metta in atto delle discriminazioni, che parta dall’integrazione scolastica e che porti all’inclusione sociale.

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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