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PIAZZA FONTANA – Era un pomeriggio alla milanese, quel 12 dicembre 1969, grigio, freddo, le lucine di Natale tentavano, poverine, di sbriluccicare, ma erano opache in quell’umido tra pioggerellina e nebbia. Sono scoppiate le caldaie, disse un poliziotto all’entrata della banca dell’Agricoltura in piazza Fontana, un pompiere controbattè l’affermazione apodittica: macchè, è una bomba. Entrai, ero il primo giornalista a introdurmi nel bunker del massacro, sotto il tavolone in mezzo alla sala circolare c’era il buco, il cratere dov’era scoppiata la bomba. I brandelli delle vittime penzolavano appiccicate ai muri, mai avevo visto un orrore del genere. Non ci volle molto per capire che i terroristi fascisti avevano dichiarato guerra all’Italia democratica che tentava di uscire da una società per certi versi medievale, una guerra di cui avevano discusso e che avevano preparato alcuni anni prima, coperti dalle sante autorità.
Poche ore dopo la strage, uscì, ufficiale, la prima deviazione politica, il primo atto di un conflitto ideologico, che, forse, non è ancora terminato. Fu il prefetto di Milano Mazza a gettare la grande bugia in mezzo allo sconcerto della popolazione: sono gli opposti estremismi, disse, un’invenzione che avrebbe imputridito anche le relazioni personali (persino familiari) dei cittadini.
Non mi ci volle molto per capire, tornato al giornale scrissi “Un’infame provocazione”, titolo di prima pagina che ebbe, per fortuna, grande seguito. Era tutto chiaro, ma le autorità, secondo il piano ben concertato continuarono ad affermare che era una strage anarchica e, per dimostrare che era vero, ecco l’arresto proditorio di Pietro Valpreda e subito dopo il volo di Pino Pinelli dal quarto piano della questura milanese, uffficio di Calabresi. Eravamo ancora lì in questura in quella notte tragica, Pinelli era caduto (?) senza un grido, ma il questore diceva “si è buttato gridando che era la morte dell’anarchia quando lo informammo che avevamo preso Valpreda e che aveva confessato”. Era tutta una balla, una vergognosa bugia. C’era anche Calabresi lì nell’ufficio del questore, ma non disse parola, pareva nascondersi dietro il suo maglioncino beige. Era tutta una montatura ben architettata, confezionata da tempo e non importa sapere chi erano gli esecutori, colpevole era quella parte dello Stato che non ammetteva altra società se non quella che afferiva agli interessi dei padroni e uso la parola “padroni” con cosciente consapevolezza. Era una strage di Stato. Sono passati 45 anni da quel giorno e mi domando con grande tristezza se è cambiato qualcosa nella nostra società: il potere è sempre nelle stesse mani e le centinaia di vittime delle stragi nere sono state ammazzate due volte con una insopportabile spietatezza.

IL COMUNE PAGATORE – Entro nel negozio davanti al quale un questuante se ne sta sdraiato, mano tesa al passante. Quello sì che sta bene, mi dice una signorina dietro il banco. Beh, insomma… azzardo. Come no, continua la commerciante che sa tutto: il Comune gli dà la casa, gli dà trenta euro al giorno e gli paga perfino il telefonino. Rimango allibito: scusi, chiedo, ma chi le ha raccontato questa fola metropolitana? E lei, sicura: me lo hanno detto!
Ecco come si forma l’opinione della cittadinanza: “me l’hanno detto”. L’importante è che le informazioni siano di destra, siano razziste, siano contro la povera gente, così si forma la coscienza “buona” del paese.

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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