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Mi ricordavo di Simone ai tempi del liceo, quando qualche amico parlava di lui come di uno studente riservato e taciturno. Qualcuno sussurrava “è silenzioso, particolare, sempre chiuso in casa o nelle grandi aule del conservatorio a suonare il pianoforte, è un tipo un po’ strano”. Certo che fra i ragazzini, un coetaneo che passa le sue giornate in compagnia di uno strumento musicale piuttosto che di un pallone o di una radio dove si ascoltano partite o canzonette, può apparire un po’ particolare. Io non lo conoscevo, dunque, personalmente, lo incrociavo mentre andava al conservatorio di via Previati, era amico di mio fratello Nicola che, a differenza di molti, mi diceva che quel ragazzino era un vero prodigio. Ho ritrovato Simone Ferraresi dopo tanti anni, per caso, in rete, lui a New York, io a Mosca, e mi sono incuriosita. Mi piaceva vedere, sapere e leggere che quel ragazzino dai capelli rossi era ora arrivato a essere un giovane professore in America e che aveva suonato nelle sale più prestigiose del mondo. Viaggiando per la vecchia Europa, approdando ai pubblici moscoviti, e non solo. Allora l’ho contattato e ho voluto saperne di più. Ho scoperto anche con piacere che il suo forte legame con Ferrara è rimasto intatto, anzi forse rafforzato, come accade a molti che si allontanano. A me per prima. Eccoci qui allora a parlare con lui e di lui, in vista di un importante evento che, grazie a lui, si terrà a Ferrara dal 18 al 26 luglio, il Ferrara Piano Festival.

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Il logo del Ferrara piano festival
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Simone Ferraresi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho voluto preparare questa intervista partendo da alcune parole chiave che ritengo legate a Simone e che possono in qualche modo, scusate l’espressione, definirlo, disegnarlo. Queste parole chiave, che mi ha ispirato, sono al momento cinque: viaggio, Russia, stelle, sogno, Ferrara. Alla fine dell’intervista capiremo insieme se le ho indovinate o se ne aggiungereste altre.

Ho cercato di studiare, al meglio, il tuo percorso personale e professionale. È incredibilmente e talmente ricco di esperienze che mi viene proprio da definirti cittadino del mondo. In questo interessante viaggio di vita, quale paese ti è rimasto maggiormente nel cuore e perché?
Credo fosse Arthur Rubinstein che alla domanda “Qual è il suo compositore preferito” rispose: “quello che sto suonando”. Questo è ciò che sento quando mi chiedi quale paese mi è rimasto nel cuore. La gente di ogni paese in cui ho vissuto ha contribuito a formare la persona che sono adesso. Quando m’immergo in altre culture, mi lascio istruire dalla loro storia. Per me non ci sono nazioni, ma culture, credenze, usi e costumi. Vivendo negli Stati Uniti ho toccato con mano aspetti culturali positivi quali ottimismo, onestà, ambizione e resistenza alla sofferenza (resilienza). In Italia c’è il detto “il riso abbonda sulla bocca degli stolti”, per cui l’ottimismo all’americana viene visto con diffidenza. In America è il contrario, essere pessimisti è essere dei perdenti e non portare il sorriso stampato in faccia equivale a mancanza di fiducia in se stessi (soprattutto nell’ambiente di lavoro, ma anche in generale). Io, invece, apprezzo anche il pessimismo e la tristezza di alcune culture, derivanti da diverse esperienze e percorsi storici delle popolazioni, qualità queste che purtroppo non trovo in America. Non c’è quasi mai nella cultura bianca americana un riferimento alla tristezza e alla malinconia, se non forse nelle canzoni country (più che altro una nostalgia, ma non profonda come un tango argentino o triste come una canzone classica giapponese). Il fatto che in alcune culture lo stile di vita sia ottimistico o pessimistico dimostra che non esiste un modo ideale di atteggiarsi alla vita, come quello che si trova nelle librerie sugli scaffali nella sezione “self-help”. Da ogni paese apprendo e assorbo solo le qualità che m’interessano. Ad esempio, il patriottismo lo considero una qualità negativa, come tanti altri aspetti della cultura americana che non apprezzo. Avere la nazionalità americana non fa per me perché la mia identità rimane italiana. Detto questo, la mia vera nazione e linguaggio rimane la musica: essendo sempre con me, mi permettere di vivere a casa mia ovunque io mi trovi.

Davvero molto bella questa immagine della casa sempre con te, la tua musica. Ammetto che io provo la stessa sensazione con la scrittura. Mi piace portare con me solo le mie emozioni, passate e presenti, e la penna che mi permette di tracciarle. Anche per me questa è casa, la mia mano che traccia sull’onda di ciò che la mia anima ha catturato. Mi piace molto questa linea comune che ci unisce. Sapevo che avrei trovato qualcosa di più in te di quel poco che conoscevo… Ma torniamo a te. Mi ha molto colpito la tua presenza, se pur saltuaria, a Mosca, non solo perché mi ci trovo in questo momento e credo di viverla intensamente ma perché credo che la Russia sia da sempre la culla della musica. Se dovessi ricordare un luogo di Mosca che ami o che trovi particolarmente interessante e associarlo ad un compositore o ad alcune note, dove mi consiglieresti di andare, di sedermi a contemplare cosa o dove passeggiare ed ascoltando che cosa?

Vorrei che tu andassi a casa di Alexander Nikolayevich Scriabin, se non ci sei ancora stata. Adesso è un museo ma l’appartamento è rimasto fermo al giorno in cui il compositore morì, nel 1915. Si possono osservare il tavolo e le sedie nella sala da pranzo. La guida indica addirittura la sedia dove lui abitualmente sedeva. Si vedono i suoi abiti, il suo letto, lo studio e la scrivania dove giace lo spartito con abbozzi dell’ultima opera che stava scrivendo, il “Mistero”. Puoi ammirare anche la sua libreria, piena di libri di esoterismo, teosofia, fisica e metafisica. Il suo telefono. Mi ha colpito molto il fatto che un compositore d’inizio novecento disponesse di un telefono. Quando ho suonato le musiche di Scriabin nella sala da concerto sotto il suo appartamento ho avvertito una grande responsabilità, quasi timore.

Ci andrò presto, promesso, e sarà magari l’occasione di riparlarci… Amo molto la letteratura russa e la trovo fonte di grande ispirazione, insieme alla musica e alle bellezza di alcuni paesaggi e giardini che si possono ammirare in primavera. Se quindi ti chiedessi di mettere in musica un romanzo russo, che so un Notti Bianche di Fëdor Michajlovič  Dostoevskij, mi diresti che sono impazzita o avresti qualche idea e ispirazione (sempre al fine di stuzzicare il tuo animo da compositore…)?
Dostoevski è il mio scrittore preferito. Ho letto quasi tutto, tranne alcuni dei racconti e il Giocatore che ho interrotto anni fa. Ciò che accadde a livello culturale in Russia tra gli anni ’60 dell’ottocento e gli anni ’40 del novecento è uno dei miracoli artistici, a mio parere, più importanti dell’umanità. Letteratura, arti visive, musica, danza, quale altro paese in quel periodo ha potuto raggiungere simili vette in tutte le discipline artistiche? Per quanto riguarda la musica classica, la cosiddetta grande musica fino al tardo romanticismo è quasi interamente un prodotto mitteleuropeo, mentre da Tchaikovsky in poi si nota un’esplosione di creatività nei compositori russi: Scriabin, Rachmaninov, Stravinsky, Prokofiev i più grandi. Non mi azzarderei a mettere in musica la letteratura russa perché, nonostante sia un appassionato, non ho mai vissuto in Russia per un periodo tale da conoscere a fondo la loro cultura. Credo non sarei in grado di interpretarla correttamente.
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Mi permetto di dissentire dalla tua considerazione precedente. Credo che saresti davvero capace di farlo… pensaci. Un altro aspetto interessante del tuo percorso, a mio avviso, è il richiamo al mondo delle stelle. Mondo magico di per sé, come magico sai essere quando suoni. Mi piace pensare a te come a un compositore con la testa fra le stelle, per non dire fra le nuvole, con rispetto parlando, tipico di un autentico sognatore. Ad ogni modo, ti vedo come una persona che guarda in alto, verso il cielo e che ad esso si ispira. Come definiresti questo richiamo al mondo delle stelle del tuo Alcyone?

Ricordo di avere scelto il liceo scientifico con l’intento specifico di studiare astronomia. Ci rimasi molto male quando mi resi conto che astronomia non si studiava affatto, a parte alcuni cenni durante il quinto anno. L’astronomia è sempre stata uno dei miei interessi principali perché la ritengo molto legata alla musica. L’influenza maggiore per quanto riguarda la relazione musica/stelle è stata senza dubbio Scriabin, con la sua visione mistica e missione teosofica della musica. Pensa che aveva immaginato di eseguire il suo Mistero, opera purtroppo rimasta incompiuta, sulle montagne dell’Himalaya e in tale occasione si immaginava campane che suonavano dal cielo.

Ti definiresti un sognatore? Io ti definirei tale, se non altro per il coraggio che hai avuto di seguire i tuoi sogni, ma chiedo a te. Se sì, come ti immagini la relazione, a mio umile avviso molto forte, fra musica e sogno? La dimensione del sogno e dell’immaginario ricco di sorprese mi sembra particolarmente adatta a te, scusa se insisto sul punto… Ci tornerò anche dopo…
Sognatore sì, ma non al livello di Scriabin! Invecchiando sono diventato più razionalista, anche se c’è una cosa che addolcisce il mio pensiero scientifico e questa è il linguaggio musicale, per il quale stento a trovare spiegazioni coerenti. Le discussioni sull’estetica musicale e i motivi per cui certa musica suscita sensazioni e emozioni specifiche su certe persone sono sempre discutibili e non riescono a raggiungere un grado di oggettività soddisfacente. Siccome sono un musicista classico, suppongo stiamo parlando di musica classica. Maurizio Pollini disse in un’intervista che la musica è indispensabile all’umanità in quanto necessaria come lo sono i sogni. Ma io credo che la dimensione del sogno legata a quella della musica classica possa essere intuita da persone che hanno un certo background o piattaforma di conoscenza, per cui è un discorso relativo: dipende da chi ascolta che cosa. Per quanto riguarda la musica classica europea, la maggior parte delle persone al mondo non dispone di una cultura musicale “occidentale” per essere in grado di apprezzarla ed essere emozionati da essa. Questo non toglie che molti siano trasportati nella dimensione del sogno dai tanti altri generi musicali, come pop, rock, jazz oppure da linguaggi musicali non appartenenti al mondo occidentale. Alcuni esempi di musica non classica che possono darmi emozioni contrastanti come malinconia o euforia sono il gruppo Sigur Ròs, il musicista Egberto Gismonti, il tango argentino. Infine, sognatore nel senso di seguire i miei sogni, sì, ma questo è soprattutto merito di New York che mi dà la forza di seguirli. Prima di venire a New York non ero così determinato.

simone-ferraresiQuando ti osservo suonare, oltre alle note che ascolto, vedo anche il tuo trasporto fisico, un corpo che accompagna il ritmo. Sembra quasi che siano le note a tirare le fila di un corpo che segue un’onda magica, senza regole o senza alcun cammino pre-tracciato. È qui che mi è venuta ancora l’immagine di te come quella di una persona legata alla dimensione del sogno, di una fantasia pura, dove un corpo segue le note quasi inerme. Immagino sia difficile, ma prova a descrivermi, se riesci, il tuo stato d’animo allo scorrere della musica…
Ci sono pianisti che si muovono molto di più! Pensa che una delle maggiori critiche che mi è stata rivolta, dagli insegnanti di pianoforte, era che non mi muovevo abbastanza, che non mi lasciavo trasportare dalla musica. Mi è, infatti, molto difficile, durante un concerto, riuscire ad arrivare a un grado di concentrazione tale da permettermi di lasciarmi andare all’espressione interiore personale, anche per via delle tante regole da rispettare mentre si interpreta il testo musicale di un compositore, al quale cerco di attenermi il più possibile. Mi si permetta una parentesi, questo dell’interpretazione del testo è un problema che è nato nel momento in cui la figura del pianista solista, circa cento anni fa, si è separata da quella del compositore e il pianista-non compositore è quindi diventato un artista nel senso di attore, ricreatore di musiche d’altri. Essere in grado di esprimere la mia personalità attraverso la musica di altri compositori significa prima di tutto essere a mio agio durante il concerto, in modo da raggiungere una completa concentrazione (il che dipende, principalmente, dalla qualità del pianoforte, dalla sua accordatura e dall’acustica della sala) e anche, ovviamente, sapere il brano benissimo (non dico alla perfezione perché ciò non esiste). Quando questo accade, allora noterai che durante l’esecuzione sono libero di muovermi liberamente e dimentico il mondo esterno: ciò che sta al di fuori di me e del pianoforte sparisce completamente e la sensazione che provo è come una trance provocata dall’essere totalmente assorbito e trasportato dall’esecuzione. Sono convinto che questo succeda ad altri musicisti, quindi credo che sia un aspetto naturale dell’atto esecutivo. Inoltre, ciò che lo spettatore vede durante un concerto è la conseguenza di mesi di duro lavoro, per cui se non si conosce il brano musicale sembra di assistere a un’improvvisazione miracolosa e talvolta, quando il pianista è molto bravo, si ha l’impressione o illusione che la musica sia creata sul momento, che l’artista sia completamente in balìa dei suoni e non segua regole. È facile e probabilmente necessario per il pubblico credere ai miti del musicista “genio”, “talento”, “carismatico” e altre romanticizzazioni varie della figura del pianista, dovute spesso all’aspetto esteriore del musicista e a come si muove sul palco più che a come e cosa suona. Si tratta quindi di una sorta di miraggio, un’impressione per chi non conosce a fondo tutto ciò che sta dietro quel momento di esibizione. Il concerto è il frutto delle circostanze che hanno portato una persona ad avere grande passione, predisposizione a livello fisico, mentale e nervoso e una certa cultura musicale, combinate a una routine di disciplina e lavoro alla tastiera che può arrivare a 40 ore settimanali. Mi pare che 40 ore di lavoro alla settimana siano nella norma, sicché ci tengo a smitizzare il luogo comune del pianista figura eccezionale o persona diversa dagli altri. Vorrei, infine, sottolineare che salire su un palcoscenico comporta un certo grado di finzione, il quale viene spesso collegato al mondo della musica classica odierno in cui hanno maggiore successo quei pianisti che si presentano in un modo accattivante o che si muovono in modo particolare o stravagante (dando quindi un’impressione di maggiore artisticità nel caso di pianisti bravi, oppure riempendo il vuoto artistico tramite l’aspetto visivo nel caso di pianisti mediocri). La teatralità del gesto pianistico è un fenomeno che c’è sempre stato, e a questo proposito mi vengono in mente le raffigurazioni di Franz Liszt durante i suoi concerti nelle quali si può ben notare un notevole trasporto fisico. Nel caso di Liszt ovviamente ci troviamo davanti a un grandissimo musicista. Altri pianisti erano noti per il loro aspetto imponente e grandi mani, come Sergej Vasil’evič Rachmaninov e Vladimir Samojlovič Horowitz. Anche se Rachmaninov era molto meno teatrale nel movimento rispetto a Horowitz. Arthur Rubinstein era pure uno che si muoveva in modo istrionico e ciò contribuiva non poco alla sua fama, come lui stesso fece notare in un’intervista. I pianisti famosi che “non si muovono”, ovvero che muovono solo gli avambracci e le dita, mi pare siano principalmente quelli della scuola italiana, ad esempio Pollini e Benedetti-Michelangeli. Nel pianismo di scuola russa invece di solito muovono di più il tronco e usano il gomito con maggiore flessibilità. In generale, la maggioranza del pubblico apprezza uno che si muove di più e proprio per questo va a vedere un pianista e non mette su un disco nel suo salotto.

simone-ferraresiVorrei ora arrivare alla tua nuova iniziativa a Ferrara, che hai lanciato sul web, raccogliendo molti consensi e che, dopo la presentazione di sabato 14 giugno al Teatro Comunale Abbado di Ferrara, vedrà la sua prima edizione dal 18 al 26 luglio, nella nostra bella città. Da ferrarese nel mondo, sono, infatti, molto incuriosita (e felice) del fatto che hai recentemente fondato il Ferrara Piano Festival. Mi pare un ottimo ponte Ferrara-mondo, ce n’è bisogno. Ce ne vuoi parlare?
Il Ferrara Piano Festival è un’idea che mi è nata qualche anno fa principalmente per connettere la mia città natale con New York. Collega le tre cose che più mi stanno a cuore: il pianoforte, Ferrara e New York. Negli anni questa idea si è rafforzata e finalmente ho deciso di fondare un’associazione non-profit che si occupa di organizzare questo evento che si svolgerà a Ferrara a metà luglio. La maggior parte dei festival pianistici in Italia sono delle stagioni concertistiche con artisti già famosi, mentre il Ferrara Piano Festival è dedicato ai giovani pianisti, protagonisti assoluti della manifestazione. Uno degli obiettivi principali di questo festival è, infatti, quello di dare occasioni a giovani musicisti per farli esibire in Italia, se non italiani, e in Usa se non americani. Durante master class con maestri del pianoforte di fama mondiale, i migliori allievi verranno successivamente invitati a tenere concerti all’estero. Ho studiato a lungo molti degli eventi simili esistenti e credo che questo nostro festival abbia un format innovativo. Se compri le riviste di musica classica, noterai decine di masterclass estive in tutta Italia. Offrono tutti la master class come occasione di studio e tutto finisce al termine dell’evento, mentre nel Ferrara Piano Festival le master class sono un mezzo per promuovere la carriera concertistica.

Come credi che si possa incentivare e promuovere questa interessante ed originale iniziativa? Possiamo dare una mano e in che modo?
Sono fortunato ad avere l’appoggio delle istituzioni ferraresi, di sponsor, associazioni e persone, sia qui a New York che a Ferrara che credono nel progetto e mi stanno aiutando a realizzare questo sogno. Per ora lo scoglio maggiore è riuscire a pubblicizzare il festival a un livello internazionale, ed essendo questa la prima edizione si tratta di una impresa abbastanza ardua.

Per quanto potremo, ti appoggeremo… Cosa ti resta nel cuore di Ferrara e cosa vorresti che si sapesse di lei in una grande città come New York, dove vivi?
Fin da piccolo sono un appassionato della storia di Ferrara. Negli anni ’70 molte famiglie avevano due grossi volumi su Ferrara e la mia era una di quelle. Ricordo di aver passato ore a leggere e rileggere quelle pagine che mi affascinavano tanto, con foto in bianco e nero dei vicoli del centro storico immersi nella nebbia. Di Ferrara mi rimane sempre dentro il fascino di queste strade e stradine nebbiose e silenziose. Mi rimangono nel cuore i suoi suoni e sapori, cose che non posso avere in una grande città. Ci sono due sensazioni uditive che più di tutte mi mancano: i rintocchi delle campane nel silenzio e i canti delle rondini (a New York non ci sono le rondini). E poi, ovviamente, per un ferrarese all’estero la più grande “punizione” è di non poter gustare facilmente i cibi tipici. Quando parlo di Ferrara con i newyorkesi, la maggior parte della gente non l’ha mai sentita nominare. Se chiedo loro dove sono stati in Italia, le risposte sono sempre le stesse: Firenze, prima di tutte, e poi Venezia, Roma e Napoli. Altre piccole città come Siena, Gubbio e Norcia sono molto più famose di Ferrara. Questo mi rende triste e vorrei che si sapesse di più quanto Ferrara sia importante per l’arte, l’architettura e la sua storia legata alla dinastia estense. Secondo me la colpa principale è della scuola negli Usa, dove nel migliore dei casi, ammesso che si parli dell’Italia in storia e geografia, si affrontano prevalentemente nozioni su Firenze, Toscana, Roma e Italia centrale. Fuori dalle scuole, addirittura, l’Emilia-Romagna non è nemmeno conosciuta come una delle regioni italiane, mentre tutti conoscono la Toscana. Le uniche città emiliane relativamente note sono Parma, a causa del prosciutto e del parmigiano, e forse Modena per Pavarotti e la Ferrari. A New York, famosa per la sua internazionalità, la città di Ferrara è quasi completamente assente e mi domando perché. Per quanto riguarda la ristorazione, ho conosciuto molte persone, anche giovani, che sono venute da Ravenna, Rimini, Bologna, Modena, Parma per aprire ristoranti. Da Ferrara, nessuno. Vorrei che qualcuno venisse a New York e aprisse un ristorante tipico ferrarese. Avrebbe un successo enorme, eppure nessuno sembra comprendere questa potenzialità.

Concordo pienamente con te; sono stata, infatti, lo scorso mese di marzo, al salone del turismo di Mosca e su Ferrara, al grande stand dell’Emilia Romagna, si trovava solo un piccolo opuscoletto. La città e bellissima e ricca di storia (ricordo anch’io il famoso libro verde con titoli dorati di Chiappini sugli Estensi che circolava in casa al periodo del liceo…) e va promossa. Anche se credo che, negli ultimi anni, molti giovani ci stiano lavorando seriamente e da dentro la stessa città, ma va sicuramente fatto molto di più. Se dovessi concludere con un suggerimento ai giovani che vogliono osare come hai fatto tu, fra le cinque parole chiave che ho ritenuto adatte a te, quali prenderesti ? O ne aggiungeresti-consiglieresti altre?
Viaggio e sogno. Viaggiate per realizzare i vostri sogni.

Io ti ringrazio di cuore allora e un grande in bocca al lupo per il Ferrara Piano Festival. Continueremo a seguirti, e, sicuramente, a viaggiare e sognare con te.

Per maggiori informazioni sul Ferrara Piano Festival: [vedi]

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Pescando un pesce d’oro
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