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Quella che stiamo attraversando è più di una crisi. Sembra piuttosto un momento di disgregazione che ha a che fare con la morte di una vecchia civiltà fondata sul consumo materiale spinto ad estremi eccessi, sull’idolatria dell’io, la competizione e l’interesse egoistico. Sembra allo stesso tempo un momento emergente che ha a che fare con la nascita di qualcosa di completamente diverso, i cui contorni ancora non appaiono delineati. Tutto sembra in bilico tra una speranza ben fondata ed un pessimismo altrettanto ben fondato.
Qua e la si colgono segni evidenti di una creatività operante che sta minando i vecchi modelli ma sembra ancora molto forte la tendenza a guardare indietro, ad usare soluzioni ed idee ormai obsolete per affrontare epocali problemi sistemici. La diffusione globale di una mentalità ego riferita e fondata su una razionalità tecnica calcolante, ha portato ad una situazione che produce risultati collettivi che forse nessuno, preso singolarmente, vorrebbe. In questa prospettiva vediamo davanti a noi un futuro minaccioso, che invano i leader cercano di rendere roseo con appelli piuttosto penosi all’ottimismo; un futuro in cui l’ampiezza e la gravità dei problemi presenti non sembra più risolvibile tramite le stesse logiche e strategie che li hanno creati e che, ottusamente, i vari potentati cercano ancora di applicare. E’ uno scenario carico di sintomi patologici che vede una serie di disconnessioni crescenti tra sfere autoreferenziali che sembrano proseguire, alimentate da implacabili logiche interne, lungo traiettorie indipendenti, distruttive per la specie umana e per il sistema terra nel suo complesso.

Vi è innanzitutto una micidiale frattura tra l’obbligo di crescita illimitata e le risorse limitate del pianeta, esito di una corsa dissennata che ha portato a superare ampiamente la capacità della natura di reintegrare quello che annualmente viene consumato.
C’è uno scostamento insostenibile a livello demografico dove, da una parte ci sono i paesi più ricchi ed avanzati tecnologicamente con tassi di crescita negativi che mettono in crisi quel che resta del welfare (sanità e pensioni soprattutto) e, dall’altra, paesi poveri con tassi esplosivi tali da rendere impossibile ogni sforzo di regolazione mediante robuste politiche sociali.
C’è una disconnessione fortissima tra l’economia reale su cui dovrebbe fondarsi la crescita e il sistema finanziario che, anziché fornire capitali indispensabili per lo sviluppo e il benessere collettivo è diventato un gigantesco quanto incomprensibile meccanismo basato sull’azzardo e mirato alla massimizzazione del profitto a prescindere da qualsiasi tipo di ricaduta nella vita reale.
C’è una drammatica rottura tra reddito e ricchezza con una concentrazione sempre più spinta di quest’ultima in pochissime mani: dove l’1% della popolazione mondiale detiene più ricchezza del rimanente 99% (rapporto Oxfam) e dove sembra che 85 Paperoni detengano da soli una ricchezza equivalente al 50% della popolazione più povera (pari 3,5 miliardi di persone).
C’è una disconnessione profonda tra felicità e consumismo, tra Pil e benessere, poiché appare ormai in tutta evidenza che, superata una certa soglia, più consumo non implica affatto maggiore felicità né per i singoli, né per le famiglie né per le collettività.
C’è un drammatico problema di proprietà dei beni dove il ricorso costante alla privatizzazione continua a distruggere i beni pubblici, comuni e collettivi, trascinando tutto nella macchina infernale della competizione esasperata e della finanziarizzazione; e a fronte di questo imperio del mercato che regola i beni privati, vengono meno le idee per la gestione del bene pubblico e mancano sitemi per la gestione dei beni comuni che pure esistono e sono esistiti lungo tutta la storia dell’uomo.
C’è un problema di perdita e cambiamento del lavoro dove milioni di posti vengono sostituiti rapidamente dall’automazione e dalle macchine intelligenti; milioni di persone vengono gettata nell’insicurezza (e non raramente nella povertà) e non si capisce ancora come vedere le nuove opportunità che si vengono a creare né tantomeno le modalità attraverso cui garantire ai nuovi possibili lavori adeguate remunerazioni.
C’è una profonda disconnessione tra gli investimenti in ricerca scientifica e tecnologica e la gravità ed ampiezza dei problemi che dovrebbero essere affrontati a livello globale, poiché, in un mondo privatizzato e abbandonato alla cieca forza del mercato, i capitali vengono attratti verso le maggiori opportunità di guadagno piuttosto che verso i reali bisogni delle persone.
C’è una evidente crisi di leadership democratica caratterizzata dalla discrepanza sempre più forte tra le elite politiche e tecnocratica che prendono ufficialmente le decisioni (in base alle pressioni e ai diktat delle lobby finanziarie ed economiche) e le popolazioni che queste decisioni devono subire.
C’è infine un drammatico problema di governance dietro il quale si intravede lo scontro tra elite promotrici della globalizzazione uniformante e le forze focalizzate sulla valorizzazione delle identità e delle differenze regionali.

Si tratta di una serie di aree problematiche (ed altre forse se ne potrebbero aggiungere) che raramente vengono lette ed affrontate insieme come sarebbe invece assolutamente necessario. L’attuale organizzazione della conoscenza ereditata dalla modernità tende invece a separare, a scomporre in ambiti di pensiero approfonditi quanto autoreferenziali, a costruire sfere di dominio sconnesse la une dalle altre, che tendono a generare con grande facilità esternalità negative di cui nessuno si ritiene responsabile. Ed infatti, malgrado le discrepanze evidenti ogni santo giorno si esalta la crescita e l’aumento del Pil, si celebra la finanza, si cantano i vantaggi delle privatizzazioni, si plauda ad ogni facilitazione offerta al libero scambio di merci e persone, si loda indiscriminatamente la tecnologia, si abbraccia e si spinge in ogni modo il consumo. E non si vedono le esternalità che in questo modo vengono scaricate sul sistema globale compromettendone il funzionamento.
Ecco allora profilarsi di fronte a noi quel futuro inquietante che ci impone, pena la sopravvivenza, di cambiare paradigma, di fare un passo evolutivo, di attingere ad un livello più profondo dell’essenza umana, che sia forse più vicino alle pascaliane ragioni del cuore, più lontano dagli algoritmi impersonali della ragione tecnica, lontanissimo, soprattutto, dall’ideale dell’automa consumista che nel consumo cerca invano la felicità.

Alla base di tutto possiamo riconoscere tre relazioni fondative profondamente interconnesse ed inseparabili che toccano tutti ed ognuno: il rapporto dell’uomo (di ognuno di noi) con la natura e il pianeta in relazione al quale si configura la sfida ecologica; il rapporto tra gli uomini, ovvero dell’uomo con l’uomo attraverso le molteplici forme familiari, comunitarie, sociali ed istituzionali, su cui si fonda la sfida socio economica globale; il rapporto con noi stessi, con la nostra singolare interiorità, dove si gioca la sfida spirituale e culturale più importante.

La circolarità delle tre relazioni e, conseguentemente delle tre sfide, mostra esemplarmente come la responsabilità per il futuro sia cosa che riguarda tutti. Quando si osservano le aree problematiche nel loro insieme, appare infatti un quadro nel quale idee, teorie, comportamenti e istituzioni contribuiscono direttamente o indirettamente ad aggravare o alleggerire i problemi. Problemi che noi stessi abbiamo generato, con la conclamata incapacità di cogliere la totalità e con la focalizzazione su sottosistemi che, gestiti malamente, massimizzano i profitti (per pochi) e socializzano le perdite, scaricando le loro esternalità sull’ambiente, sulla società e sulla soggettività dei singoli, compromettendone il benessere e la felicità.

Il nostro tempo è adesso: se ancora la parola democrazia ha un senso, sta a noi cambiare prospettiva, mettere al centro della nostra visione un approccio collaborativo, sistemico, responsabile e co-creativo; sta a noi pensare e richiedere nuove forme istituzionali che possano favorire il nascere di una realtà emergente che va curata e indirizzata a beneficio di tutti. Sta a noi superare le vecchie categorie obsolete ed evitare di perdere tempo e risorse in polemiche sterili che nascondono i veri problemi e impediscono di cogliere le nuove opportunità.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

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