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BIRMINGHAM – Piove a Birmingham. Tante paia di scarpe, tra cui varie ballerine, finiscono noncuranti nelle pozzanghere. Chi le indossa cammina veloce, lo sguardo fisso nel vuoto: così gli inglesi si distinguono dall’altrettanto folta massa di residenti esteri. Non soffrono il freddo, un maglione è sufficiente a riscaldarli, mentre passano accanto a un albero di Natale, diretti a casa, per preparare un dolce con fragole e lamponi freschi di serra contenute in buste anonime di carta: l’Università di Birmingham è uno dei pochi punti della città dove si possono acquistare frutta e verdura appena colte, perlomeno questo si lascia intendere. Coloro che non hanno particolari pretese, e non necessitano di accontentare l’olfatto, per esempio, possono svoltare in uno dei tanti supermercati, dove si acquista il pane, rigorosamente a fette, appena sfornato dai panifici olandesi. Tra i piccoli market in città spiccano, inoltre, i Despar; la catena, anch’essa di origine olandese, dalla tinta verde e rossa, qui è una delle più presenti ed è ben nota pure a Ferrara dove, fra via Carlo Mayr e piazza Travaglio, ha avuto la vincente trovata di aprire un ristobar che utilizza in cucina tutti i prodotti a breve scadenza provenienti direttamente dai banchi. Dunque una maniera per abbattere gli sprechi della grande distribuzione.
Ma se a B’ham – inflazionata abbreviazione usata sugli stessi cartelli stradali di città – può risultare d’affronto comprare del pane da tagliare, può esserlo altrettanto usare delle padelle in cucina: è sufficiente porre un piatto nel forno a microonde, o al massimo togliere la pellicola protettiva dalle vaschette. Così, leggendo le note sulla confezione del riso, si scopre che anche questo, in pochi istanti, può essere cotto facendolo girare pigramente in un elettrodomestico, per non parlare, poi, del caffè. La fretta impèra sulla folla e indebolisce decennio dopo decennio le abitudini, qual è la pratica culinaria, che invece aggrega in Italia intorno ai fornelli.

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Un’antica chiesa nei pressi del centro commerciale

Anche avere il tempo di bere un caffè sembra essere un lusso nella piovosa patria della finanza, settore trainante dell’economia britannica: infatti, gli infiniti Starbucks e Costa – “made in Italy”, non a caso – alimentano un immenso viavai di clienti in cerca di un’enorme (solo, però, per noi “stranieri”) tazza da asporto di un qualche caffè aromatizzato, truccato oltre che nell’aspetto, pure nel sapore. Gli inglesi metropoliti, a ben vedere, in effetti preferiscono non fermarsi nei locali, né a bere né a mangiare, non hanno tempo per queste cose, soprattutto per pranzo. Amano consumare una baguette français, in barba a cent’anni di guerra e a una sempiterna ostilità, mentre tornano al lavoro, accompagnandola a un altro Frappuccino o a una bottiglia di Coca Cola: l’acqua non è tenuta in considerazione.
Il turno lavorativo giunge presto al termine, alle 17 in media. Presto solo per gli orari che seguiamo noi europei, poiché alle 18 è ora di sedersi a tavola, magari in fretta, per poter fare poco dopo un salto a teatro. Lo sfarzo, la bravura e l’eleganza mostrati da artisti e scenografi del balletto contrasteranno presto con il comportamento degli spettatori, anche agli occhi dell’osservatore più assonnato: birre, popcorn e patatine sono fedeli stuzzichini da assaporare comodamente avvolti in una tuta da ginnastica. Difatti la metropoli non possiede luoghi di ritrovo culturale e dai medesimi autoctoni è ritenuta una delle più disinteressate del Paese alla creatività: al di là di alcune compagnie stabili di recitazione che sopravvivono con i rispettivi palchi, un museo nel centro puntiforme primo-novecentesco, e qualche sporadica manifestazione di laboratorio artigianale dell’argento verso la periferia, non c’è altro. Giusto l’ennesima chicca universitaria, la galleria d’arte gestita dal The Barber Institute of Fine Arts di direzione italiana, la quale ospita temporaneamente collezioni pubbliche o private di levatura mondiale: ultimamente in mostra, da Veronese a Magritte, da Hiroshige a Botero, da Tiziano a Ingres.

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Birmingham

Il teatro è nel cuore di Birmingham, come pure il centro commerciale più vasto d’Europa. In effetti, il Bullring è una struttura che non passa inosservata. All’interno, scartati i ristoranti, noi europei facciamo poco shopping: tra magliette cortissime ed eccentrici pantaloni, la scelta ricade sui soliti brand di massa, noti a chicchessia, come H&M o Zara. A pochi passi dal Bullring, si impone con altrettanta – se non superiore – affluenza di consumatori, Primark, gigantesca catena di abbigliamento, che offre montagne disordinate di abiti a prezzi degni della migliore offerta. I tre piani di pareti e pavimenti bianchi illuminati da luci ugualmente fredde – che sfiancano i poco avvezzi allo shopping sfrenato – i flussi interminabili e vorticosi alle casse rapide creano un’impellente esigenza di aria fresca. Per dimenticare la vista dei maglioni dai colori improponibili e le maxi-tute da giraffa o da Hello Kitty, tendenza serale dei giovani estroversi, ci si fa strada tra i venditori ambulanti lungo la via principale del Centro, dove spicca un Casinò, auspicando che non capiti anche alle varie Milano, Roma, Torino, di pullulare di tali “attrazioni”. Gli ambulanti immersi nella folla sono i più variegati: chi offre riviste tutt’altro che ispiranti, chi molto ispirato recita passi della Bibbia, chi a gran voce vende a prezzi stracciati mazzi di crisantemi e rose insieme. C’è chi noterà che il venditore abbia fatto un errore simile a quello della «donzelletta che vien dalla campagna» di Leopardi, ad abbinare fiori di stagioni diverse e dai significati simbolici contrastanti, eppure gli inglesi abbinano i fiori quanto le ciliegie con gli alberi di Natale: lo testimonia in modo lampante la festosa parata fuori luogo e fuori misura che si è tenuta a metà novembre… con più di un mese di anticipo all’insegna del Kitsch, che banalizza ciò che tocca per renderlo subito merce comprensibile e appetibile.
A proposito di Leopardi, qui a Birmingham è quasi più noto di Dante dopo la recente traduzione dello Zibaldone in inglese da parte del Centro di studi di italianistica dell’Università: chissà che in libreria non ne abbiano già una copia. Ma dove trovare una libreria? All’appello c’è poca scelta, ce n’è una sola, “ma tanto là hanno qualsiasi libro, al massimo si ordina”, parola di coinquilino studente. E se si cercasse una libreria senza aria condizionata anche d’inverno, senza un bar all’interno, senza tutti quei piani uno sull’altro? Una libreria minuta e accogliente, dove potere parlare con la libraia che ne conosce i ripiani per filo e per segno? Niente da fare nel centro di Birmingham che, nella mentalità di un europeo, conserva una scarsa genealogia storica.
Nel periodo natalizio, seguendo il mercatino deutsch di Natale, definito “di tradizione” nonché il più esteso d’Europa, si va in direzione della nuova biblioteca comunale – mastodontica – anch’essa la più grande del continente e di recentissima apertura. I conservatori hanno lanciato ovvie polemiche sulla sopravvivenza delle biblioteche più piccole e decentrate, che stanno andando in crisi, ma risultano interessanti anche le polemiche riguardanti la funzionalità del nuovo complesso, il quale, pur di attrarre più visitatori, offre svariati servizi corollari, più o meno pertinenti.

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Birmingham

Birmingham è, quindi, una città megalomane? Una città che attira a tutti i costi solo perché offre le attrattive, gli incanti più grandi d’Europa? Il centro, di stampo industriale, è stipato di contrasti: è nato e ha continuato a svilupparsi velocemente, sebbene senza le cure necessarie, oltre le superfici di asfalto e di cemento; oggi si alternano fabbricati grigi, impersonali e decadenti, a sgargianti edifici di nuova costruzione: che sia la strada a caccia della rivalsa per competere in grandezza con il continente, laddove non si può con la storia? D’altronde, gli inglesi stanno dimostrando ferocemente di non volerne sapere di una Comunità Europea effettiva, unita sia nell’amministrazione sia nella moneta, un’entità che respiri collettivamente senza troppe differenze.

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Ajla Vasiljevic


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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