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Sembra impossibile ma questo 2016 si avvia a terminare in un modo ancora più assurdo di com’era iniziato.
Escono articoli intitolati “andare ai concerti fa schifo”, abbiamo appena votato, c’è freddo e c’è stato persino il revival dei finti sequestri di persona.
A questo punto boh, mi chiedo cos’altro può capitare.
Poi però penso che c’è freddo, ho appena votato, di Lapo Elkann non me ne frega niente di niente e sotto sotto è da un anno buono che evito di andare ai concerti.
Le rare volte in cui quest’anno mi sono ritrovato a qualche concerto sono state frutto di una specie di amichevole deportazione.
Insomma, proprio come quei finti sequestri di persona.
Mi ritrovavo in macchina coi miei amici, bello pimpante a sparare cazzate e a ridere, poi scendevo dalla macchina, mi mettevo più o meno in prossimità del palco e appena attaccavano a suonare: zac!
Ecco che iniziava la rottura di palle, uno sbadiglio tira l’altro e ciao.
Una volta ho persino dormito per davvero.
E allora mi sono chiesto: ma perché mi rompo le palle?
Non lo so.
Sto ancora indagando.
Ho provato a esaminare attentamente la mia vita e il mio modo di vivere la musica e tutto ciò che la circonda.
Ho fatto degli schemini e delle liste che ripropongo qua sotto per cercare di chiarirmi ancora le idee alla luce del sole.
Come direbbe un medico: forse è una questione di dieta.
E allora ecco la mia dispensa di quest’anno:
– Doors
– Hendrix
– Blue Öyster Cult
– Black Sabbath
– Stooges
– Metallica
– Motörhead
– Ac/Dc
– Nirvana
– Alice Cooper
– Beach Boys
– Bathory
– Sex Pistols
– Suzanne Vega
– Flipper
– Beethoven
– Mozart
– Brahms
– Dvořák
– Chopin
– PiL
– Grieg
– Butthole Surfers
– Alfio Finetti
– Velvet Underground
– Paul McCartney a 360°
– Mahler
– Impact

Sono giorni che guardo e riguardo ‘sta lista e mi chiedo dove sbaglio.
Mi sembra una dieta abbastanza bilanciata, buona per tutte le stagioni ed evenienze sociali.
Ho anche messo musica nei locali parecchie volte quest’anno.
E quello è un compito che richiede flessibilità e un gusto piuttosto vario.
Insomma, sono uno che si adatta.
Posso fare colazione con Metal Machine Music e poi preparare la tavola per l’ora del te servendo anche dei cucumber sandwich presentabili fatti proprio da me con le mie mani, il tutto mentre ascoltiamo insieme i Kinks e conversiamo belli misurati confrontandoci sulla Brexit.
Poi magari la sera prima ci siamo bevuti della birra fumando ottocento sigarette con gli Slayer a buco ma non importa perché ogni momento nella vita ha delle proprie richieste, anzi: esigenze.
E la mia esigenza di adesso è capire cos’è successo al mio cervello.
Continuo a guardare quella lista e non riesco a darmi delle risposte.
Poi arrivo all’ultimo punto in elenco e mi si moltiplicano le domande.
Gli Impact, dio santo.
Eccola la chiave di tutto.
soloodio
Ho conosciuto gli Impact – o almeno, uno di loro – nel 2008.
Ai tempi suonavo in un gruppo che aveva una saldissima botta hardcore.
Quindi piano, prima facciamo due cenni storici sull’hardcore.
Per convenzione, con il termine “hardcore” (spessissimo abbreviato HC) si indica la seconda ondata punk (1980 circa), quella che invece di calare la velocità spingeva ancora di più, via, a tavoletta e risultato: pezzi che da 2 minuti abbondanti/3 diventavano di 1 minuto e mezzo/1 minuto tondo/anche meno di un minuto.
Ma mica perché erano pezzi corti.
I pezzi erano normali ma come disse una volta Johnny Ramone “li suoniamo così veloci che sembrano per forza più corti”.
E se i pezzi dei Ramones sembravano corti i pezzi dei gruppi HC sembravano dei germogli.
E infatti spesso la batteria nei gruppi HC sembrava proprio il suono del germogliatore che cade da sopra il frigo fracassandosi sul pavimento, con lo splash dell’acquetta a far da colpo di piatto, il tutto ripetuto per un minuto e mezzo.
Sempre per convenzione, l’HC nasce in California e fra i gruppi HC di solito si citano Germs, Black Flag, Circle Jerks, Bad Brains, Minor Threat ma anche gente come i Flipper, i Fear e i primi Redd Kross all’epoca ancora “Red Cross” e all’epoca ancora minorenni anzi, forse nemmeno freschi di pubertà.
Insomma, mentre i primi punk crescevano – o invecchiavano, a seconda dei punti di vista – tanti ragazzini crescevano come tanti bei funghetti non solo in California ma in tutti gli stati di tutti gli Stati Uniti e poi, in breve tempo, dappertutto.
Questa cosa avrebbe generato una rete di conoscenze fra più o meno tutti i gruppi di tutti gli Stati Uniti.
I ragazzi si scambiavano i contatti, si organizzavano i concerti, si davano delle dritte su come/dove registrare i propri dischi, come/dove venderli, si ospitavano a vicenda in caso di bisogno durante i tour e insomma, finirono per dar vita a quella che Steven Blush, autore del fondamentale American Hardcore, ha definito “una storia tribale”.
Tutto questo è successo anche in altre parti del mondo e pamparampampan: in Italia abbiamo avuto quella che a detta di tutti è stata una fra le più belle e peculiari versioni dell’hardcore.
Io all’epoca non ne sapevo niente ma poi ho conosciuto gli Impact e ho iniziato a colmare la mia lacuna veneta di ex veneto e ferrarese acquisito.
Perché gli Impact erano e sono di Ferrara e sono tuttora una delle migliori esportazioni di Ferrara nel mondo.
Tutte le volte che ascolto il loro “Solo Odio” da YouTube mentre sono in treno mi perdo a leggere i commenti degli altri utenti e – se posso dire maial – leggo commenti provenienti da ogni parte del mondo, maial.
Qualche tempo fa era addirittura emersa ‘sta storia di ‘sti giapponesi (non mi ricordo più quante band) talmente in fissa con l’hardcore italiano da arrivare a copiarlo pari pari con tanto di nomi e cantato in italiano che dire maccheronico è poco.
Cercateveli pure su Google e vi cadrà la faccia proprio com’è successo a me.
Ovviamente fra ‘sti fissati c’è pure il gruppo che ha una particolare fissa per gli Impact ma non mi ricordo come si chiama.
Questa cosa farà anche ridere ma la cosa che a detta di tutti rendeva così bello e universalmente apprezzato l’HC made in Italy era proprio la sua originalità.
E per spiegare questo punto lascio la parola direttamente a Gigo degli Impact direttamente dal loro libro Realtà Mutabili (Linea BN Edizioni, 2011).

Tutti i gruppi italiani cercavano di rifarsi a qualche gruppo straniero ma non erano tecnicamente in grado e ne usciva fuori qualcos’altro.
A volte geniale, perché il tentativo di far proprio il suono altrui veniva filtrato da una creatività tutta particolare e molto forte e, di conseguenza, non c’era un gruppo punk italiano che fosse uguale all’altro.
Ogni gruppo aveva una caratteristica tutta sua, con l’eccezione forse dei gruppi milanesi, escludendo i Wretched, che sembravano tutti fatti con lo stampino perché seguivano le mode (che a Milano arrivavano).
Questi attributi hanno fatto la peculiarità del punk-hc italiano all’estero e hanno permesso che venisse apprezzato e continui a esserlo tuttora.
Anche noi Impact ci sforzavamo al massimo, cercando di di suonare i brani dei gruppi che all’epoca ci piacevano di più, ma proprio non ce la facevamo e il risultato è stato una miscela di sonorità nuove.
Tutti i gruppi che ancora oggi vengono ricordati hanno avuto questa caratteristica.

Io e gli altri ragazzi del mio gruppo pseudo-HC invece le mode, anche se le odiavamo, ce le eravamo cuccate eccome.
Noi sapevamo tutto dei Black Flag e compagnia bella, avevamo praticamente tutto il catalogo SST scaricato da internet e quando ho conosciuto Janz – il chitarrista degli Impact – non solo ho imparato un sacco di cose ma ne ho capite ancora di più.
Perché cuccarsi il punk e l’hardcore dopo gli anni 2000 non è come cuccarselo nel ’78.
Quindi lascio la parola a Janz, sempre dal Grande Libro degli Impact:

I primi tempi il punk te lo potevi quasi solo immaginare, perché non esisteva internet, MTV ecc…
A volte era un miracolo persino riuscire a procurarsi un disco o una semplice rivista per avere qualche notizia sul punk, ma forse proprio per questo si era ancora in grado di creare qualcosa di nuovo e di apprezzare al massimo quel poco che passava il convento.
Sapevi che il punk esisteva ma il punk che allora vedevi in TV erano solo dei cazzoni tipo Plastic Bertrand o la Oxa.
Capivi che c’era qualcosa che non quadrava e allora provavi a fare punk come te lo immaginavi tu.
Te lo inventavi.

Gli Impact si formano più o meno nel 1980 dalle ceneri dei Clapham, gruppo “fantasma” in cui militava il celebre Aiace, l’uomo che trovò il nome “Impact” nel 1981, poco prima del loro primo concerto all’ippodromo.
Nel 1981 gli Impact sono Aiace alla voce, Janz alla chitarra, suo fratello Bistek al basso e Gigo alla batteria e sempre con questa formazione, nel 1982, registrano il loro primo demo.
Nel frattempo hanno già iniziato a girare fuori da Ferrara e, soprattutto, a suonare fuori da Ferrara.
Dal 1981 al 1986 circa, gli Impact suonano in giro per l’Italia ma anche in giro per l’Europa.
Nel mentre, fra le pause forzate dovute al servizio di leva e fra vari cambi nella formazione, nel 1983 gli Eu’s Arse di Udine propongono agli Impact uno split Impact/Eu’s Arse ed ecco quindi la prima uscita ufficiale.
Costo totale: 100.000 £ + il prezzo delle fotocopie per le copertine.
Nel 1984 si stabilizzano con la formazione che diventerà quella “classica” con Bistek alla voce, Janz alla chitarra, Diego al basso e Gigo alla batteria.
La formazione “classica” è quella che nel 1984 scenderà a Bari per registrare il loro primo album vero e proprio, un album che rimane uno dei grandi capolavori dell’HC italiano e non solo: “Solo Odio”.
“Solo Odio” è un disco perfetto, uno dei dischi più incazzosi di tutti i tempi, uno dei dischi strumentalmente più interessanti di quell’onda e di quel periodo e ok, lo dico: forse il mio disco italiano preferito.
Dura circa un quarto d’ora e alcuni potrebbero dire “ok-come-“Group Sex”-dei-Circle-Jerks” ma è proprio un altro quarto d’ora.
E’ un disco molto più scuro rispetto a un Group Sex, è un disco hardcore ma è già anche qualcos’altro, qualcosa che sembra una strana macchia densa e appiccicosa fra vari rami della musica “estrema” non solo di quell’epoca.
Sarà la mia percezione ma è un disco che alle mie orecchie suona piuttosto indatabile.
Ha una sua strana e contorta aureola di classicità, cosa piuttosto strana per un album che rispetta anche rigorosamente il canone hardcore.
Forse è per quello che in quest’ultimo anno mi ha fatto compagnia così spesso insieme a tanto rock classico e tanta musica classica.
E adesso mettetevi pure tutti in fila belli pronti per le pernacchie perché la sto per sparare grossa: per come la vedo io forse per “Solo Odio” vale quella stessa cosa che si dice spesso su Mahler.
Perché se è vero che “Mahler non rompe il linguaggio tonale, ma lo spinge fino ai limiti delle possibilità” allora è vero anche che un disco come “Solo Odio” non rompe il linguaggio dell’HC ma lo spinge ai limiti di possibilità, suoni, tematiche dei testi.
Sembra un grande blocco nero, un monolite di carbonio leggero da spostare ma pesante se ti cade addosso, perché ti cade addosso veloce, così veloce che non te ne accorgi e zac! che in quel quarto d’ora ci sei sotto e ci rimani sotto anche per un bel po’.
“Solo Odio” è uno dei pochi dischi che posso mettere su anche per cinque volte di fila perché oltre a non rompere tutte quelle belle cose come il linguaggio tonale, il canone HC e blah blah blah non rompe una cosa a mio avviso molto importante: le palle.
Magari i ragazzi degli Impact stessi e i numerosi fan degli Impact della prima ora mi potranno spernacchiare pure loro.
Ma dalla mia posizione di ragazzo che ha cercato di isolarsi per cercare un’altra verità, ecco, forse a questo punto ho capito perché quest’anno ho ascoltato solo quelle cose di quella lista di prima e ho capito anche perché ultimamente mi rompo le palle ai concerti.
Mi rompo le palle ai concerti perché noto che in questo periodo iperconnesso le mode arrivano anche troppo e per i gruppi – dal più piccolo e provinciale al più lanciato e metropolitano – è praticamente impossibile restarne fuori e cercare di coltivare quell’immaginazione di cui parlava Janz qualche riga fa.
E’ tutto misurato e cotto a puntino e di conseguenza molto poco viscerale.
Ma forse va bene così, i tempi cambiano e cambiano anche i modi di fruire le cose in ogni situazione.
Qualcuno ha parlato di post-verità e io francamente non so se sia il caso di infilarsi in un vespaio del genere.
In questo mondo ognuno paga per qualcosa e ogni situazione ha la propria moneta, dalle cose che compriamo al supermercato alle cagate per la casa nei negozi di cagate per la casa, dai dischi da mercatino ai dischi in edizione limitata serigrafati col sangue e numerati uno per uno con una caccola di diverse fogge e dimensioni applicate a mano negli inserti da ogni membro della band.
Paghiamo ogni volta con una moneta e una faccia diversa e forse chi è sempre stato abituato a pagare con le varie monete ma una sola stessa faccia per ogni occasione non ha più molto spazio o semplicemente se la vive male e si defila perché in quest’epoca di comunicazione sotto steroidi, magari steroidi bio ma pur sempre steroidi, dopo un po’ quel qualcuno che se la vive male si stanca e dopo aver scancherato per un anno intero decide di dirlo chiaro e tondo, con parole semplici: questa cosa mi fa più male che bene quindi ciao.
E decide di prendersi un po’ di tempo per coltivarsi in un modo che ritiene più proficuo e amorevole per la propria indole togliendo così il disturbo.
La buona notizia è che in questo 2017 prossimissimo qualcuno ha deciso che non è il caso di togliere il disturbo e quel qualcuno sono proprio gli Impact.
La notizia è uscita proprio in questi giorni, gli Impact si riuniscono, intanto per almeno due date in Grecia.
Non so chi ci sarà ma so che almeno una volta davanti al loro palco ci sarò io, carico come quando pulisco il fornello con “Solo Odio” a palla.

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Radio Strike


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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