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Da MOSCA – Svet in russo significa luce, e Sveta luce è, luce è stata, luce sarà.
La guardiana del mio palazzo, anziana dai capelli corti bianchi come la neve, o babushka (la nonnina, in senso affettivo) come la chiamerebbero qui, ha le mani ruvide, grinze e affaticate ma lunghe, eleganti e affusolate. Deve essere stata molto bella, da giovane.
Con lei fatico a parlare, la lingua è una barriera quasi insormontabile. Le poche parole di russo che ho imparato non mi permettono certo di avere una conversazione decente e di capire correttamente quello che vorrei sapere e chiedere. Ma la mia curiosità non ha limite. Accorsa in mio aiuto la mia amica Olga, che mi traduce tutto in inglese o francese, riesco finalmente ad avere gli elementi chiave di un ritratto che volevo fare da tempo.
Sveta ha visto la guerra, ha sofferto la fame, ha vissuto in povertà quasi tutta la vita. Durante il periodo sovietico ha raggiunto un benessere minimo, fatto di mobili marroni, di tappeti polverosi, di fiori finti e di pareti anonime ma anche di pane sicuro, di kacha molle al sapore di cereali, di patate lessate sempre dello stesso sapore, colore e odore, di carote bollite.
Era felice, allora, quando il suo Vladimir era ancora accanto a lei, quando i figli crescevano nell’allegria. Poi uno di loro, Valery, è partito per gli Stati Uniti, ed è diventato professore in una prestigiosa università americana dal nome per lei impronunciabile. E’ arrivato il successo accademico e con esso qualche soldo in più, ma la lontananza, per lei, non aveva prezzo.
Poi un giorno anche Vladimir l’ha lasciata, scivolato nel nero di una miniera. Lei si è ritrovata in cerca di lavoro. Sola. Si ricorda il pranzo in fabbrica, le giovani amiche che le sedevamo accanto e le raccontavano di fidanzati innamorati e di viaggi lontani. Si ricorda il buio e la paura.
Ma Sveta era luce e nel gabbiotto del palazzo di questa via elegante da ricchi ci si era trovata bene, immersa nell’odore di cavolo bollito che proveniva dal primo piano, nel vocio dei bambini che correvano per le scale, nel cinguettio di un canarino di una coppia anglo-finlandese, persa a guardare la televisione mentre sorseggiava un tè caldo e sgranocchiava un dolcetto.
E poi leggeva leggeva e ancora leggeva, ora poteva farlo. Anche se la vista calava ogni giorno, si perdeva nei romanzi d’amore, quelli che un tempo non si potevano leggere, immersa in quelle storie romantiche che aveva sempre sognato.
Sveta era bella, un tempo, mi mostra una foto dei suoi vent’anni a San Pietroburgo, sorridente e felice, con un vestito fiorito e un colorito roseo. E’ la settimana prima di sposarsi, ha i capelli intrecciati, biondi, avvolti sul suo capo come una corona. Una piccola Cenerentola aggraziata.
Sveta è bella, anche oggi, con i suoi capelli corti, bianchi come il latte, come la neve, come il candore della sua bontà, mentre mi sorride e mi porge un biscotto che ha sicuramente preparato domenica pomeriggio. Mi ricorda la mia nonna materna, Sveta, forse per questo le voglio bene.
Ancora un dobre utra un dasvidaniya e ogni volta che la incrocio sono felice.
Una storia come tante, forse, ma questa è sotto i miei occhi, ogni mattina, ogni sera, ogni giorno, una storia che mi accompagnerà non solo finché sarò qui ma sempre, anche quando un giorno sarò rientrata nel mio bel Paese.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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