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Il giornale satirico, il supermercato, lo stadio, il teatro, il caffè, l’aeroporto, la stazione della metro, il treno, la festa in piazza, il festival di musica, la chiesa. Sono i luoghi in cui si è abbattuta la furia omicida del terrorismo al grido di “Allah è grande” da oltre un anno a questa parte, ormai in mezzo mondo. Senza contare la quotidiana carneficina che continua a compiersi in Medioriente, di cui anche l’informazione pare sempre più stanca di tenere una puntuale contabilità.
Uno tsunami del terrore. Una globalizzazione che, invece di portare benessere, sta seminando a piene mani morte e paura, e nella quale i piani di analisi si sovrappongono in maniera inestricabile, mentre si rincorrono confuse e disorientate le voci di esperti e commentatori nel tentativo di capire chi sono e perché lo fanno.
E’ oggettivamente difficile comprendere in un unico filo logico l’omosessuale islamico di Orlando, i rampolli universitari dell’alta borghesia autori della mattanza nel ristorante di Dacca, il trentunenne camionista che ha compiuto la strage di Nizza, i tagliagole che hanno sgozzato Jacques Hamel, parroco della chiesa di Saint-Etienne-du-Rouvray in Normandia (in una Francia particolarmente martoriata), la nascita dell’Isis, tuttora avvolta da non pochi dubbi come scrive Massimo Campanini (Il Mulino 2/2016), e il conflitto islamico tra sciiti e sunniti.
C’è tuttavia un piano della riflessione che stenta a farsi largo, mentre farci i conti a viso aperto potrebbe aiutare a capire meglio.
Massimo Cacciari (L’Espresso 28 luglio) scrive di un “disordine globale in cui stiamo vivendo”, di drammi che sono “tante ondate che si vanno abbattendo su ogni nostra antica terra ferma” e della necessità di “decifrare le grandi faglie telluriche che stanno rovinando l’una sull’altra”.
“E da dove iniziare – si chiede – se non da noi stessi?”.
Qui è il punto: il contesto nel quale sta montando questa ondata di morte. Contesto nel quale altrettanto si sovrappongono piani diversi: Islam, immigrazione, scenario geopolitico, intelligence, capacità di risposta e prevenzione, modelli d’integrazione…
Contesto però significa anche la condizione in cui si trova l’Occidente, l’Europa. Capire questo forse non dà le risposte che la politica deve dare subito, ma dà maggiormente l’idea della sfida epocale.
Diversi stanno dicendo che il terreno sul quale si sta portando questo attacco è un Occidente che ha continuato a credere che la propria cultura fosse “un’infrangibile rete – scrive ancora Cacciari – gettata sull’intero pianeta”. Nella cieca presunzione di sovrapporre umano e naturale, l’ultima formula occidentale, la globalizzazione, invece dell’approdo definitivo verso un mondo di ricchezza e benessere, sta creando e dilatando a dismisura differenze e inequità.
Così l’appuntamento con il nuovo volto del terrore è affrontato da una civiltà assediata da moltitudini di diseredati e disperati (la proletarizzazione globale) che, per nulla rassegnati, avvertono, come tutti, che la disuguaglianza è un’ingiustizia.
E all’interno dei singoli contesti nazionali, per la presenza crescente di immigrati (con tassi di natalità differenti dagli indigeni), per politiche sociali ed economiche che stanno erodendo i sistemi di welfare e penalizzando gli strati più deboli della popolazione, si finisce per annullare ogni legame di solidarietà, minando così il patto su cui sono state costruite le democrazie, specie europee, dopo il suicidio di due guerre mondiali.
Altri, poi, fanno notare che se è vero che va riducendosi la disuguaglianza globale perché ogni giorno migliaia di famiglie cinesi o indiane stanno passando dalla povertà a un relativo benessere, il prezzo è pagato dallo scivolamento progressivo verso il basso della classe media, in quanto all’interno degli stati occidentali si assiste parallelamente a una concentrazione della ricchezza in una cerchia sempre più ristretta di ricchi sfondati. Anche quando qualcuno alza il dito per porre un problema di riequilibrio, per esempio delle pensioni, è addirittura il diritto con tanto di toga a dire che non si può fare.

E’ maledettamente complicato – scrive Raffaele Marmo su QN (25 luglio scorso) – spiegare a un operaio specializzato italiano che la perdita di reddito, tutele, status sociale e welfare, avviene nel nome del diritto di altri alle stesse cose.
Così la temperatura sociale cresce, le società si incamminano verso un tutti contro tutti e alla colossale pressione portata dal fiume del proletariato esterno si somma il surriscaldamento della proletarizzazione interna.
Non ci vuole un esperto, a questo punto, per vedere un vero e proprio rischio per le stesse democrazie.
Da un altro punto di vista Silvio Ferrari (Il Regno 10/2016) pone il problema di reimpostare il concetto di libertà religiosa in un’Europa in declino.
Partendo dallo stesso concetto della fine del sogno europeo di supporre i propri principi e modelli come universali, si arriva a dire che non ci può essere neppure una nozione universale di religione.
Il consiglio è rinunciare alla speciale tutela del diritto di libertà religiosa, comprendendolo all’interno delle libertà di parola, associazione, stampa, evitando il problema di definizione giuridica di religione.
Ulteriore segno che l’Europa deve accettare di non avere più il monopolio dell’universalismo e che sarebbe meglio accettare di dialogare e interagire con altre visioni nate da esperienze diverse.
La conclusione cui diversi arrivano è che questa miscela esplosiva è già all’opera e che non solo è bene ripensare politiche economiche, ma anche la visione stessa che l’Occidente ha di sé. Uscire cioè da una concezione tolemaica per approdare compiutamente a una copernicana, innanzitutto culturale.
Altrimenti, fanno notare, se all’attacco attuale si risponde solo resistendo, prima o poi ci si trova in stato di assedio.
E allora i vari Brexit, Le Pen, Salvini, Trump, vanno ascoltati come campanelli d’allarme, per le leadership rimaste finora al comando per lo più assecondando una globalizzazione che amplifica le differenze e ormai guardate in modo crescente con senso di fastidio, senza neppure più differenze tra destra e sinistra, da un elettorato sempre più lontano dalla politica e dalle urne.

A distanza di anni suona profetico l’inizio del film “L’odio” di Mathieu Kassovitz del 1995: “E’ come la storia di quell’uomo che precipita da un palazzo di 50 piani. Mentre cade da un piano all’altro dice: fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. Il problema non è la caduta, è l’arrivo”.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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