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Il sentimento più diffuso nei primi commenti alle elezioni americane è stato un sentimento di incredulità. Tutti i commentatori sembravano a disagio di fronte all’evidente errore di previsione. In modo molto simile a quanto era accaduto per la Brexit pochi mesi fa le attese della grande maggioranza dei commentatori andavano nella direzione opposta. E’ su questo punto che vorrei fare una prima riflessione, mentre sulle implicazioni dell’evento nello scenario internazionale avremo certo modo di riflettere a lungo.
La sorpresa e il disorientamento di oggi segnano la persistenza e l’inadeguatezza con cui guardiamo la politica e i fatti sociali nel tempo globale. Certo tendiamo a ignorare i segni che contrastano con i nostri auspici, ma soprattutto siamo prigionieri di un’idea di politica che assume che gli individui si orientino sulla base di opzioni ideali e sulla base di appartenenze abbastanza stabili. Quelle categorie non funzionano più, sono da tempo venute meno corrispondenze strette tra strato sociale, gruppo etnico e tanto meno orientamenti e comportamenti di voto.
Ma un altro aspetto mi pare degno di nota. Questo voto testimonia la rilevanza degli elementi materiali che compongono la crisi della democrazia. Un’economia stagnante, l’aumento delle diseguaglianze, l’erosione del lavoro, la contrazione del ceto medio e la sua marginalizzazione verso condizioni di povertà appaiono sempre di più tra gli elementi cruciali di un disagio crescente. Aumenta in America il numero di persone che appartengono al ceto alto e diminuisce il numero dei cittadini americani che compongono il ceto medio. La stragrande maggioranza della popolazione vede compressa qualunque speranza di miglioramento: ha ormai la consapevolezza che il destino dei propri figli sarà più precario e incerto del proprio. Le promesse di inclusione che avevano caratterizzato i decenni precedenti e che avevano accompagnato la vittoria di Obama sono naufragate; resta la frustrazione e la rabbia e una domanda di “protezione” contro un mondo grande e minaccioso. La globalizzazione lascia emergere gli impliciti rischi di polarizzazione sociale. In questo clima sono maturati sentimenti di delusione, la voglia di “cambiamento” – lo stesso termine che aveva connotato l’ascesa di Obama – segna il declino odierno del partito democratico. Che, peraltro, di cambiamento ne ha agito poco. Se i presupposti inclusivi su cui la democrazia si era fondata vengono meno, crolla la fiducia e se la fiducia crolla, si cambia verso, si va nella direzione che appare più lontana da quella fino a quel punto vissuta.

Tutto ciò mette in luce in primo luogo le radici materiali della crisi della democrazia. Dovremmo ricordare, di fronte a un dibattito nazionale da troppo tempo inchiodato sulla questione delle regole della rappresentanza, che la democrazia non è solo un sistema politico, ma un ambiente di vita. Un ambiente che deve consentire una speranza di futuro: se la speranza è compressa non può che maturare una miscela di risentimento, rabbia, paura, frustrazione.
I populisti esulteranno, ma senza ragione, credo. I nodi materiali a cui facevo riferimento restano tutti lì drammaticamente aperti, così le domande di competenza, di attenzione, di uno sguardo di lungo periodo, che richiederebbe approcci meno divisivi, meno urlati e una maggiore capacità di mediazione. Siamo in grave difetto di analisi sui cambiamenti proposti dal mondo globale, il legame tra analisi e politica si è spezzato e la politica resta schiacciata su giochi tattici. Per tutti la riflessione sarà lunga, ma lo sdegno per i comportamenti di voto è oggi la reazione più sciocca e inutile e, certo, la più dannosa perché impedisce la comprensione.

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Maura Franchi

È laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Social Media Marketing e Web Storytelling, Marketing del Prodotto Tipico. Tra i temi di ricerca: le dinamiche della scelta, i mutamenti socio-culturali correlati alle reti sociali, i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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