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(Pubblicato il 10 gennaio 2014)

In un contesto sociale sempre più urbanizzato e sempre più mobile sembra essersi modificato radicalmente il legame delle persone con i luoghi e delle comunità con i territori che abitano; da un lato come ha notato Marshall McLuhan più aumenta la mobilità e in particolare la velocità della mobilità più viene distrutta la possibilità della comunità”; dall’altro gli spazi sono sempre più privatizzati e ridotti a merce, trasformati in mero panorama in alcuni casi, spesso de-classificati a contenitori di beni e di oggetti, ridotti a supporti per il traffico di merci ed informazioni o, peggio ancora, deprezzati e ridotti a discariche delle esternalità della produzione e del consumo. Si dimentica insomma che non possiamo che vivere in un ambiente e che la qualità della nostra vita dipende ampiamente dalla qualità dell’ecosistema in cui viviamo.

L’uomo del futuro che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’immaginario cinematografico scaturito dagli incubi visionari di Philip K.Dick rimane un monito e allo stesso tempo una sinistra possibilità. Oggi comunque nessuno può vivere nei circuiti digitali dove viaggia il capitale globale e dove scorrono le informazioni; nessuno può ancora vivere bene nei circuiti della logistica planetaria dove circolano le merci stipate nei container non meno delle persone inscatolate nei charter; non possiamo vivere a lungo e in salute in non luoghi e negli ambienti degradati; per fortuna gran parte di noi vive ancora in uno spazio fisico, in un territorio, in un posto che si può riconoscere come “casa”.

Malgrado si viva sommersi da prodotti materiali e servizi c’è ancora chi resta convinto che la qualità della vita e la salute dipendano anche dalla possibilità di respirare aria pulita, bere acqua pura, godere di buoni paesaggi, mangiare cibi naturali e salubri, coltivare buone relazioni personali, vivere in spazi a misura d’uomo, disporre di tempo libero, conoscere gli altri e conoscere se stessi. Il sistema socio-economico in cui viviamo non nega affatto queste possibilità: lo fa però attraverso la trasformazione dei bisogni in merci e servizi, attraverso il mercato, la privatizzazione e, in ultima istanza (e purtroppo) attraverso la distruzione dell’ambiente, delle culture, dei beni comuni e collettivi.
Emerge con tutta evidenza la miopia di un discorso collettivo tutto centrato sul PIL, sulla crescita, sul teatrino della politica totalmente succube dei poteri forti della finanza, dove la democrazia diventa una rappresentazione rituale e stereotipata, dove la sostenibilità viene ridotta a semplice argomentazione, quasi sempre priva di applicazioni concrete. A fronte di questo c’è l’opportunità per ogni cittadino di cambiare rotta, di uscire dalle conversazioni politicamente corrette, di guardarsi attorno, di pensare e di proporre qualcosa lavorando su ciò che è vicino e di cui ci si può prendere cura direttamente.
Cosa chiedere dunque, cosa suggerire? Cosa serve per costruire qualcosa di meglio a partire dal basso, dal territorio e dalle comunità? In che modo dare senso e contenuto alla massima “pensare globalmente agire localmente”?
Servono spazi ben organizzati dal punto di vista urbanistico, nei quali poter vivere a misura delle fragilità umane partendo dal presupposto che i bisogni essenziali delle persone vengono prima di quelli riconducibili alle merci; un territorio organizzato in modo tale che le fasce più deboli della popolazione, anziani, bambini, diversamente abili e ammalati, possano esercitare l’elementare diritto alla cittadinanza, alla mobilità pedonale, al gioco e alla sicurezza e, in tal modo, possano vivere la propria naturale socialità indipendentemente dall’esistenza di prodotti e servizi a pagamento. Il territorio non può essere regolato dalla logica della speculazione e della corruzione che rappresenta fin troppo spesso il volto visibile del mercato.
Servono luoghi di vita nei quali poter praticare e sviluppare la nostra capacità di contemplazione estetica. Luoghi che valorizzino il patrimonio ambientale e culturale, dove si presti grande cura alla qualità urbanistica ed architettonica, alla qualità dell’aria che si respira e dell’acqua che si beve. Non è più sostenibile la vita in territori abbruttiti dai quali si evade di tanto in tanto per godere a pagamento di spazi dedicati ad un benessere momentaneo.
Servono infrastrutture tecnologiche intelligenti, piattaforme diffuse che favoriscano l’apprendimento, che generino capacità, che diminuiscano gli sprechi e che non esproprino le persone dei loro talenti per sostituirli sempre con merci e servizi a pagamento. Le tecnologie abilitanti che si presentano in forma di reti ed autostrade digitali, sistemi di controllo intelligenti, sistemi di coproduzione energetica e quant’altro, rappresentano un modo per attivare il protagonismo e la responsabilità delle persone e un mezzo per rendere le comunità maggiormente protagoniste del proprio destino.
Serve un modo nuovo di guardare ai bisogni delle persone, capace di separare ciò che è essenziale in termini di promozione della libertà e delle capacità personali e dei gruppi da ciò che è indotto dalla coazione al consumo. Il bisogno è sia una carenza che una motivazione, una spinta all’azione: non è più sostenibile che il bisogno venga esclusivamente ridotto ad una funzione della produzione mentre questa dipende dai giochi di una finanza completamente sganciata dalla realtà della vita delle persone. Non è bene che i bisogni vengano definiti in via esclusiva da una casta di professionisti il cui unico scopo è salvaguardare ed ampliare la propria sfera di influenza con i relativi benefici economici.
Serve una conoscenza reale e diffusa del territorio, della cultura e dell’ambiente in cui si vive; spesso è qui infatti che sono presenti straordinari saperi, conoscenze e competenze che non possono essere ridotte al mero folklore o relegate al campo dell’obsoleto; esse costituiscono di per sé potenziali micro agenzie formative non formali che si collocano al di fuori dei circuiti (scolastici) ufficiali. In Italia la ricchezza di questo patrimonio è straordinaria: si tratta di importanti dimensioni di senso che possono acquisire una rilevante dimensione anche economica se si esce dagli stereotipi dei mercati di massa e si osservano con cura le opportunità dei mercati di nicchia. Queste agenzie non formali di apprendimento vanno riscoperte a valorizzate in modi innovativi che vadano oltre la logica del nobile e antico imparare a bottega.
Bisogna riconoscere e valorizzare, accanto all’economia formale, l‘economia informale, conviviale e familiare, che comunica e produce senso attraverso lo scambio di beni e servizi non contabilizzati. È il recupero dell’economia del dono, dell’informalità, della socievolezza che può dare più valore alla vita sociale senza nulla togliere all’importanza dell’economia ufficiale.
Serve una consapevolezza diffusa circa i danni alla salute che sono causati da uno stile di vita dissipativo, dall’alimentazione insalubre spinta dalla corsa al profitto, dal vivere in ambienti inquinati, pensati per le merci e non per gli uomini che, ridotti a consumatori, quelle dovrebbero semplicemente produrre e consumare. Le evidenze sono chiarissime pubblicamente dichiarate dalle agenzie sanitarie ma sempre disattese alla prova dei fatti.
Servono nuove storie, nuove narrazioni e nuovi miti capaci di sostenere un cambiamento di enorme portata che ci investe nel profondo. Bisogna infatti riconoscere che sono le strutture narrative ben più dei numeri e delle statistiche che ci consentono di comprendere il mondo come ben sanno tutti i manipolatori della pubblica opinione, i professionisti dei media e i pubblicitari.
Soprattutto servono persone capaci di motivare ed entusiasmare, di portare modi alternativi di vedere le cose dentro processi decisionali che sono attualmente abbandonati agli interessi della speculazione ed ai meccanismi apparentemente impersonali della burocrazia e della finanza.
Su tutte queste tematiche esiste un ampio dibattito che fatica però a tradursi in pratica; da un lato la comunicazione è soffocata e traviata dalla retorica mainstream; dall’altro troppi attori interessati si sono impadroniti della forma ma non della sostanza di queste argomentazioni: capitale sociale, resilienza, crescita sostenibile, sviluppo di comunità, innovazione sociale, programmazione partecipata, integrazione di politiche locali, governance locale sono le etichette che ad ondate successive si abbattono sui territori, solitamente senza alcuna consapevolezza dei fini e dei valori che veicolano e dei vincoli che pongono se correttamente applicate; purtroppo basta girare ed osservare lo scempio degli ultimi 20 anni per capire come all’aumentare della retorica della sostenibilità sia aumentato anche e in misura decisamente maggiore il danno prodotto.
Impossibile uscirne?
NO, se si riconosce l’impotenza di un pensiero basato sull’unico feticcio della crescita ad ogni costo e sull’idolatria del mercato e del profitto per il profitto;
NO, se si sanno cogliere e valorizzare i semi di cambiamento che già esistono, assumendo consapevolmente un ruolo di cittadini più attivi attenti a quello che abbiamo intorno e vicino.
Intanto, facciamo un sforzo per uscire dai miti dissipativi ed iniziamo ad inventare, costruire e raccontare storie buone e diverse.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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Francesco Monini
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