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Intervista a “Pepita”, volontario dell’associazione “Dharmic clown”

di Eleonora Rossi

Sono “ambasciatori del sorriso”. Ma loro preferiscono essere chiamati più semplicemente Pepita, Banana, Piuma, Caramella, Piritillo, BonBon, Trombetta, Tritolo. Insieme formano l’associazione “Dharmic clown”, un gruppo di volontari che, attraverso l’antica e nobile arte della clownerie, mette in pratica l’arte del sorriso e la “clownterapia” in strutture ospedaliere, case di cura, orfanotrofi, asili e scuole, ricoveri per anziani e disabili, case di accoglienza, e in ogni altro luogo ove è importante donare momenti di allegria. Con abiti buffi e gag, ma anche con parole e gesti di conforto, i clown colorano le giornate dei bambini ospedalizzati, scombinano la routine di un ricovero di anziani, oppure rallegrano le lezioni scolastiche, “liberando” gli alunni dai banchi e dai libri. I bambini li accolgono e li abbracciano come fossero supereroi. E in fondo, un po’ lo sono davvero.

Li abbiamo visti all’opera nelle scuole, e toccato con mano la bellezza e il significato profondo dei loro interventi. Come ricordo i clown lasciano sempre un “fiore della bontà”, da annaffiare ogni giorno con una buona azione. “Sono un Clown e faccio collezione di attimi”, così ha intitolato Titti Giordano un interessante articolo dedicato ai clown nelle corsie d’ospedale: “Il loro compito è sdrammatizzare la permanenza in ospedale, capovolgere le emozioni negative, come paura, rabbia, tristezza e gestirle, cambiarle in positivo, verso il sorriso, la gioia, il riso (…). Una risata può avere lo stesso effetto di un antidolorifico: entrambi agiscono sul sistema nervoso anestetizzandolo e convincendo il paziente che il dolore non ci sia”.

Il naso rosso è la maschera più piccola del mondo: nel momento in cui si infila la pallina sul naso, l’immaginazione può galoppare in libertà e inventare mondi paralleli. Dietro quel naso rosso – gli abiti stravaganti e i buffi cappelli di questo straordinario gruppo di clown non professionisti – si celano splendide personalità, che all’anagrafe corrispondono ad altrettanti nomi e cognomi (in rigoroso ordine alfabetico): Franco Borghetti, Giovanni Cinelli, Mauro Contini, Corinna Di Gregorio, Claudio Giannini, Marino Marchi, Luigi Visentin, Roberto Zoldan (assdharmiclown.blogspot.it). E che sorpresa riconoscere, dietro “Piritillo”, Giovanni/Gianni Cinelli: proprio lui, l’attore di Zelig, il barman dell’Arcimboldi, uno dei “Boiler” – insieme a Federico Basso e Davide Paniate – i tre spassosi “giornalisti alla conferenza stampa”. “Piritillo è uno dei nostri maestri o istruttori di clownerie”, ci racconta “Pepita” (Franco Borghetti), referente dell’associazione.

A Ferrara il clown Pepita lo conoscono un po’ tutti, per la sua simpatia, per la magia di riuscire a comparire nei momenti difficili e a trasformarli in un regalo. Ma Franco si distingue anche per il suo garbo e la capacità di ascolto. E questo i bambini (e non solo) lo apprezzano davvero. Conversiamo con Pepita per conoscere meglio lui e i suoi amici dal naso rosso.

Puoi raccontarci come è cominciata questa avventura? A chi vi siete ispirati?
L’associazione a Ferrara è nata nel 2005, ci siamo sicuramente ispirati al famoso film “Patch Adams”, ma ognuno ha seguito un suo percorso personale. Io, ad esempio, da bambino avevo due sogni: diventare maestro elementare e fare il clown. Il secondo desiderio si è realizzato.

Che cosa significa essere clown?
Il poeta si esprime con le parole, il clown con i gesti; il poeta parla, il clown “è”. Essere clown fa rivivere il bambino che c’è dentro ognuno di noi, quello che ha voglia di giocare e scherzare, ma è al tempo stesso una forma alta di spiritualità e di responsabilità. “Il clowning profondo credo sempre evochi la consapevolezza del contrasto e dell’unità dei nostri aspetti opposti – ha osservato Deon van Zyl, professore di psicologia dell’università di Pretoria – . Il clowning ci permette di abbracciare entrambi gli aspetti ed essere ‘elevati’ a una più ‘alta’ prospettiva”. Poi c’è la gioia di intrattenere, di vedere i bambini sorridere. Un’arte che ho appreso da mio padre, che faceva il burattinaio.

Come si diventa “ambasciatori del sorriso”?
La forte motivazione è il punto di partenza. In Italia ci sono diversi corsi di formazione e tantissime pubblicazioni al riguardo. Io ho incontrato alcuni clown che mi hanno affascinato con le loro esperienze e sono diventati i miei insegnanti. In particolare un amico clown di Forlì mi raccontò che una volta, in occasione delle festività, si travestì da Babbo Natale per regalare caramelle ai bambini in centro. Ne aveva acquistate molte, così decise di distribuirle anche nel vicino ospedale. Arrivò tra le corsie, portando emozioni tra i ricoverati meno gravi, poi si trovò in un reparto in cui le porte delle stanze erano chiuse. Bussò e una voce gli chiese chi era; lui rispose semplicemente: “Babbo Natale!”. Di fronte all’incredulità dell’infermiera che chiedeva ancora: “CHI?!?”, confermò senza scomporsi: “Babbo Natale”. L’infermiera consultò il primario, che non si oppose all’insolita “visita” e osservò che cosa succedeva mentre l’uomo vestito di rosso si recava nella stanza di un’anziana gravemente ammalata. La signora, seppure stremata, trovò la forza di sollevarsi sul letto e di sorridere, sussurrando, come una bambina: “C’è Babbo Natale…”. Fu una scena commovente. L’indomani l’anziana signora purtroppo venne a mancare, ma l’infermiera raccontò che “si era addormentata serena, perché aveva visto Babbo Natale”. Il primario chiamò il mio amico clown e gli disse: “Non so chi sia lei, ma sappia che può tornare qui in ospedale quando vuole…”. Esperienze come questa mi hanno toccato il cuore e mi hanno spinto a diventare clown.

Come hai scelto il nome “Pepita”?
Durante un corso di clownerie, la mia insegnante Ulrike ci chiese di scegliere, pescando in una montagna di travestimenti, quello che ci piaceva di più. Io amo i colori e scelsi una tuta di ciniglia sgargiante: quando la indossai mi accorsi che dietro c’era la scritta “Pepita”. Fu un segno. Ma i nomi non arrivano mai a caso e mi accorsi in seguito del significato bellissimo di quel nome: il cuore è come una pepita d’oro. I nostri cuori vanno ‘ripuliti’ dal fango, come si fa setacciando le pepite nel fiume. Ogni persona ha delle qualità e dei talenti, a volte sono nascosti o soffocati: sta a noi farli risplendere. Come oro. Un messaggio molto importante anche per i bambini, che hanno sempre un forte bisogno di credere nelle proprie capacità.

Quali esperienze proponete nelle scuole?
Proponiamo storie interattive che cercano di riportare l’attenzione sull’essenza dei cinque “Valori Umani”: Verità, Retta Azione, Pace, Amore e Non violenza. Ogni storia è illustrata, messa su lucidi e proiettata in modo che gli studenti possano interpretare le parti o discuterla in modo partecipato, seguendo il principio: “Chi ascolta dimentica, chi vede capisce, chi fa impara”. La discussione favorisce la comunicazione e la creatività attraverso la lettura, la drammatizzazione e la riflessione spontanea su contenuti che in seguito gli insegnanti potranno approfondire in classe. A seconda delle diverse età, dalla scuole primaria alle superiori, proponiamo storie dedicate al rispetto, alla fiducia, al “per-dono”, alla gentilezza e alla generosità. L’intercalare di “gag clownesche” allieta le due ore di incontro regalando sorrisi e battute.

Come è possibile sostenere l’associazione?
I volontari dell’associazione “Dharmic Clown” non accettano compenso per il loro servizio. I fondi con cui provvedono all’attività e alla vita dell’associazione derivano dai contributi volontari degli associati e da eventuali donazioni di terzi. Le somme eccedenti l’attività associativa vengono devolute a istituzioni ospedaliere, in particolare alla Biblioteca Blu, promossa dall’Associazione Circi per i bambini e i ragazzi dei reparti pediatrici dell’Ospedale S. Anna di Cona. Nei luoghi dove è più forte il disagio, come le corsie d’ospedale, il compito di portare il sorriso è un impegno non facile, una vera e propria “missione”.

Quali sono le difficoltà che si incontrano? Quali le soddisfazioni?
Di fronte alla sofferenza è fondamentale non lasciarsi coinvolgere, non identificarsi troppo con la situazione. Noi non possiamo togliere il dolore, ma alleggerirlo sì. Quando incontro un bambino ammalato e i suoi genitori, sono messo anch’io alla prova, ma tengo sempre presente che sono un clown e il mio compito è portare un sorriso.

Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Il mio sogno sarebbe passare il testimone ai giovani, donare la mia esperienza di clown affinché le nuove generazioni continuino “la missione del sorriso”. I ragazzi hanno bisogno di esempi, e di coerenza. Ora stiamo lavorando ad un progetto nelle scuole superiori di Ferrara realizzando laboratori e di clownerie (palloncini, gag, spettacoli di magia, narrazione di storie, canzoni,…) che gli studenti proporranno nel tirocinio nelle scuole d’infanzia. Un altro mio sogno sarebbe portate il sorriso negli istituti penitenziari, ma è ancora assai complicato realizzare questo desiderio.

Che cosa hai imparato in questi anni?
Ho imparato che alla fine sono io che porto a casa qualcosa da queste esperienze. Sensazioni impagabili. Spesso dopo un incontro intenso vissuto con i bambini in ospedale, soprattutto nei reparti oncologici, io e il mio partner di clownerie, “Banana”, ci guardiamo negli occhi. E non abbiamo bisogno di dirci nulla, tanta è l’emozione per quello che abbiamo vissuto.

Puoi raccontarci un episodio di questi anni?
Una decina di anni fa io e Banana, durante una delle nostre visite in ospedale, incontrammo un bambino di 6 anni, ricoverato in oncologia – ora è guarito, sta bene! – ma allora era in uno stato di profonda sofferenza. Non parlava più. Ricordo che la madre era affranta, non voleva farci entrare nella stanza del piccolo. Con una certa titubanza entrammo, per cercare di portare un pochino di spensieratezza. Gli regalammo la pallina rossa da mettere sul naso. La settimana successiva la madre uscì in corsia a cercarci: il suo bambino voleva che tornassimo a trovarlo. Aveva ripreso a parlare.

E a questo punto chi scrive non può che esprimere la sua riconoscenza a Pepita e a tutti i clown volontari, perché, come è scritto nel motto dell’associazione, “ciò che si conquista con un sorriso…rimane per sempre”. Grazie per il dono di una pallina rossa, come una goccia d’amore. Nel silenzio bianco di un ospedale, nulla paga più dell’immagine di quel piccino dal naso rosso. E sotto quella ciliegia accesa, la luce di un indescrivibile sorriso.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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