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di Francesco Minimo

Una nevicata così se la ricordava solo da bambina. Quanti anni poteva avere? Poteva avere cinque anni? Forse invece non l’aveva mai vista in vita sua una nevicata così, solo che una nevicata così la portava indietro, a quando era molto piccola, o anche prima, prima che le cose avessero un nome. Mentre lo aspettava – e questa non era una novità perché buona parte della sua giornata la passava ad aspettarlo – non poteva staccare gli occhi dalla grande finestra. Dietro quel muro bianco in confuso movimento non si vedeva niente.
Una settimana dopo era già tutto finito, concluso, archiviato. Aveva anche smesso di piangere, e aveva dovuto insistere, quasi arrabbiarsi con sua sorella: SI’ CAZZO, sono sicura, voglio solo stare un po’ sola, è permesso? E sua sorella: Ma guarda Nora che non mi costa nulla rimanere, a casa mia è tutto sistemato, ci facciamo qualcosa per cena.
Le aveva risposto male: NO, DICO DAVVERO, VA VIA!, scusami, prometto che domattina ti chiamo.
C’è ancora un po’ di neve in città, sul prato dei giardinetti e in piccoli mucchi sporchi e ghiacciati sui bordi delle strade, la temperatura è scesa di dieci gradi. Nora è sola, cammina per le stanze, ha compiuto 56 anni a ottobre, non è neppure vecchia. Mentre si muove per la casa, le viene in mente che dovrebbe occupare meglio quel tempo, pensare a qualcosa di utile ma non riesce a smettere di camminare, non riesce a fermarsi su un pensiero, ecco, l’ha trovato un pensiero, è un ricordo recente. Nella camera da letto del figlio, è lei che parla: Allora ti prendono? Lui ride, Va piano mamma, è solo un provino, vado a Milano con il mister e per tre giorni mi alleno con la Primavera, mi vedono giocare, mi fanno tutti i test medici, alla fine mi diranno qualcosa. Lei aveva sentito un tremito, una piccola paura che le si allargava dentro, ma era una cosa che il figlio non doveva vedere. Così ricordava una per una le sue parole: Fammi capire bene, vuol dire che potresti andare a stare a Milano? E io, e il liceo, la maturità? No, caro mio: Mi oppongo vostro onore! Così si erano messi a ridere tutti e due.

A Milano, al provino del Milan, non aveva fatto in tempo ad andarci. Per poco però, sarebbero bastati due giorni in più. Così era se n’era andato da “non calciatore”, o almeno da “non ancora calciatore”. Ma sarebbe stato un calciatore o un fisico teorico? O un ingegnere come suo nonno? Oppure? Lui poteva diventare veramente tutto, perché lui era bello, lui era intelligente, lui era giovane, lui era buono. Così ragionano le mamme dei loro figli, così Nora ragionava fra sé. Le venne una voglia improvvisa di spaccare qualcosa, a mani nude, un vetro, un oggetto, un vaso da fiori. Era ancora molto incazzata, con Dio naturalmente, esattamente come Giobbe, fanculo, molto di più di Giobbe. Poi le vennero, lei li chiamava così, i pensieri paralleli. Lei non li chiamava ma loro arrivavano lo stesso. Se non avesse preso la bicicletta? Con quella nevicata poi. E se non fosse uscito per niente? Che bisogno c’era di uscire, col freddo, la neve, il buio? Se invece si fossero messi a fare la loro gara di solitari? Vinceva più lui che lei, gli venivano quasi sempre, lo zoppo, la piramide, Napoleone, e senza imbrogliare. Anche quando era un bambino piccolo e sbagliava i verbi e inventava le parole, vinceva lui, senza trucco e senza inganno. Scartò quei pensieri, non erano solo inutili, le facevano proprio male. Si concentrò sull’unico pensiero, sull’unica cosa che importava, il tormento di quell’ultima settimana. Dov’era ora il suo Luca?

Passò un anno, un anno intero, non le sembrava giusto e possibile ma passò ugualmente, e si era ancora in inverno, ancora faceva buio alle cinque, fuori ancora nevicava fitto. Non era cambiato molto o poco in quella casa. Nora adesso aveva 57 anni, ma vestiva allo stesso modo, si incantava davanti alla grande finestra, cercava di guardare attraverso il bianco confuso della neve, camminava per le stanze, pensava quello stesso pensiero.
Non era vero che non era cambiato niente. Da alcuni giorni e alcune notti Nora aveva una nuova idea. Una cosa per passare il tempo? Forse poteva chiamarlo così, un passatempo, un passatempo innocente, e se era una cretinata chissenefrega, e se era una follia chissenefotte. Quell’idea gliela aveva messa in testa suo fratello, senza volere, anzi volendo la cosa contraria, perché suo fratello Luca – si chiamava Luca anche lui come suo figlio ma il suo Luca era diverso – era una persona positiva, talmente impegnato nella sua azienda. Le telefonava tutte le settimane. Tutti i lunedì alle diciannove e trenta, e non saltava una settimana. Al telefono Nora sentiva la voce grossa del fratello maggiore che compiva il suo dovere e le diceva cosa doveva fare. Glielo ripeteva da un anno, Nora devi uscire, devi vivere! Ma sì, pensava Nora, era un discorso molto ragionevole, anche se ci sarebbe stato da discutere. Invece rimaneva zitta, sapeva che l’amore per la sorellina Nora si traduceva in lui solo in quell’imperativo categorico che aveva guidato tutta la sua vita. Così Nora ascoltava il fratello, si sottoponeva docilmente alle periodiche telefonate, ma non si piegava. Nonostante quel mantra settimanale, lei si limitava a sopravvivere, rimaneva preferibilmente sola, più o .meno chiusa in casa, mangiando quasi niente, smettendo ogni occupazione e interesse.

Suo fratello non era abituato ai rifiuti. Come tutti gli uomini potenti non poteva sopportare l’impotenza. Non fosse stata la povera Nora, la sorella che aveva perso l’unico figlio, si sarebbe di sicuro alterato, avrebbe gridato e sgridato, sbattuto il pugno sulla scrivania. Con Nora sembrava una battaglia persa. Ma qualche giorno prima, l’ultima telefonata non gli era riuscita né paterna né affettuosa, si era invece conclusa con una vera e propria filippica. Ascoltami bene Nora, Luca è morto e di lui quaggiù non è rimasto niente, niente di niente. Anche questa volta Nora lo aveva ascoltato, in silenzio, non ce l’aveva con la furia impotente del fratello. Ma anche questa volta non era d’accordo con lui.
Eppure lui le aveva detto qualcosa di nuovo, una piccola parola aveva messo in moto una enorme macina nel suo cervello, era come se si fosse spalancata una porta. Nora spense il cellulare e provò a guardare oltre quella porta, a inquadrare una cosa di cui non vedeva ancora bene i contorni, proprio come ci capita davanti a una fotografia che riconosciamo ma di cui non distinguiamo bene le figure fuori fuoco. Doveva pensarci, pensò, doveva lavorarci su.

E Nora ci lavorò, di giorno e di notte soprattutto, perché la notte i pensieri scivolano meglio gli uni sugli altri, liberi dal guinzaglio stretto del nostro io. Dopo appena due giorni Nora aveva raggiunto il primo risultato. Sembrava, alle prime, una semplice riflessione, un pensiero celibe come tanti, ma l’intuizione trovò presto conferme, così Nora la promosse al rango di una tenue certezza, infine sentì come il sapore di una vittoria, la prima dopo tanti mesi. Di fronte a lei, dentro di lei, vedeva e toccava una verità a prova di ogni confutazione. Come aveva detto suo fratello Luca? Non è rimasto niente di niente, aveva detto. Ma come era possibile? Sentiva che per nessuna ragione al mondo il suo Luca, morto a 17 anni in bicicletta per colpa di un camionista disattento, avrebbe potuto andarsene, liquefarsi, sparire del tutto. Fosse stata pure la regola aurea dell’Aldilà, l’avessero anche costretto con gli schiaffi o i forconi, o l’avesse voluto lui stesso, per stanchezza o voglia di oblio, in tutti i casi possibili, immaginabili e inimmaginabili, il suo Luca non poteva lasciarla sola, senza di lui, senza niente di lui. Luca, questo pensava ora Nora, doveva essere lì, da qualche parte ma non troppo lontano. Almeno un pezzetto di Luca, un piccolo resto, un frammento, una scheggia, una semplice ombra. Dopo tanto tempo, Nora provava qualcosa di molto vicino alla felicità. Non era un pensiero razionale? Chissenefrega, chissenesbatte, chissenefotte, Nora si congratulò con se stessa. Strinse forte le mascelle, adesso cominciava la parte più difficile.

Ma dove? Iniziava la caccia, le venne da ridere, era la sua caccia al tesoro. Rimase qualche minuto indecisa. Si guardò intorno, cercava un segno, un’ispirazione come la chiamava sua nonna. Ma dove? Nella camera da letto di Luca – era rimasta come quel giorno, lei non aveva toccato niente – o nella libreria, infilato tra un volume e l’altro, o nelle pieghe del divano, dietro la tela del quadro dello sconosciuto antenato, o in dispensa tra le bottiglie di conserva e i vasi di marmellata di marasche. Luca a sette anni ne aveva svuotato uno tutto intero, armato solo di un cucchiaino. Oppure in garage, sotto la sella della sua moto, nel cassetto dove stavano tutti gli attrezzi del mondo, o nel ripostiglio dove non guardava mai nessuno. Oppure. Potrebbe. Forse. Magari. E se fosse nella grande cassa in soffitta, dove dormivano i suoi giochi di bambino. Bisognava entrare nella testa di Luca: “quella cosa” l’aveva lasciata dietro di sé prima di andarsene, certo, potrebbe essere, ma forse lui “quella cosa” era tornato indietro dopo, era tornato apposta per riportarla, per darla a lei, per lasciarla a lei. Nora cercava, pensava e cercava, con gli occhi, col naso, le orecchie. Cercava di giorno, ma di notte soprattutto, a luce spenta, perché nel buio non c’è nulla che ti distrae ed è più facile scoprire i tesori nascosti.

Quella domenica mattina c’era un bel sole, quel sole d’inverno che non scalda il corpo ma l’anima sì, le venne in mente la canzone di Jannacci, “c’era un bel sole che bruciava gli orti, c’era un bel sol e asciugava i morti”. Cercò la canzone su Youtube e la mise a tutto volume. Quando un’ora più tardi, come tutte le domeniche mattine, arrivò sua sorella la trovo così, in piedi, vestita con il suo vestito a fiori rossi e gialli. In camera da pranzo Nora ballava da sola mentre andava la musica. Era un ballo lento, leggero, pieno di grazia. Sua sorella si fermò a guardarla sulla soglia della stanza e vide Nora a sedici anni appena compiuti, come l’aveva amata e come l’aveva invidiata. Ma in questa mattina di sole Nora è proprio strana, e non è proprio vero che balla, sembra come dondolarsi, si culla, si abbraccia. Nella mano destra stringe una cosa segreta, una cosa raccolta chissadove. Non è una cosa grande, né una gran cosa, deve essere un oggetto minuscolo per stare tutto intero nella piccola mano di Nora. La sorella non ha mai visto in vita sua una scena del genere. Ma ecco, non c’è da preoccuparsi, ora Nora la sta guardando, mentre balla le sorride.

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Redazione di Periscopio


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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