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di Maria Paola Forlani

…Se i saggi ti chiedono perché quest’incanto sia effuso invano sulla terra e il cielo, dì loro cara, che se gli occhi furono creati per vedere, allora la bellezza trova in se stessa la propria ragion d’essere. ( R. W. Emerson)

Sono oltre trenta opere – in larga maggioranza realizzate su tela – tutte provenienti dalla Sala bolognese della Pinacoteca Capitolina, all’interno dei Musei Capitolini di Roma. Un patrimonio di indicibile valore, che ha segnato una svolta fondamentale nella ricerca pittorica italiana ed europea, compone una mostra d’eccezione: quella che la Fondazione della Cassa di Risparmio in Bologna,Genus Bononiae, Musei nella Città e l’Assessorato Culturale e Sport di Roma-Sovrintendenza Capitolina ai beni Culturali presentano a Palazzo Fava con il Patrocinio del Pontificio consiglio della Cultura, nell’occasione dell’Anno Santo Straordinario, “Guido Reni e i Carracci. Un atteso ritorno. Capolavori Bolognesi dai musei Capitolini” (aperta fino al 13 marzo 2016, catalogo Bonomia University Press).
La circostanza – di fatto irripetibile – della disponibilità di un nucleo di dipinti bolognesi dei Musei Capitolini è offerta da un intervento di restauro della sala che normalmente li ospita. Grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna si potrà procedere al ripristino del pavimento ligneo dell’ambiente espositivo e a interventi finalizzati a una migliore fruizione delle opere da parte del pubblico.

Una delle sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni. Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini
Una delle sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni. Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini

L’eccezionale prestito dell’intero nucleo dei dipinti della Sala bolognese, che per la durata dei lavori di restauro sarebbero stati sottratti al pubblico dei Musei Capitolini, consente di esporre a Bologna, negli ambienti carracceschi di Palazzo Fava, una selezione di quadri della scuola felsinea acquisiti dal cardinale Giulio Sacchetti: “un atteso ritorno”.
Prospero Fontana, Guido Reni, Annibale e Ludovico Carracci, Giovan Andrea Sirani, Alessandro Tiarini, Domenichino, Denys Calvaert, Sisto Badalocchio, Francesco Albani sono solo alcuni degli autori dei capolavori esposti a Palazzo Fava. Maestri protagonisti di una stagione particolare – la fine del XVI e la prima metà del XVII secolo – che vide consolidarsi legami storici, politici, artistici tra Bologna e Roma, con la fioritura della scuola del capoluogo emiliano che nell’Urbe trovò il favore di mecenati e committenti di assoluto livello.
Il folto gruppo dei dipinti bolognesi della Pinacoteca Capitolina, fondata alla metà del Settecento da papa Benedetto XIV Lambertini – originario della città emiliana – deriva principalmente, come già detto, dall’acquisizione della collezione del cardinale Guido Sacchetti, presente a Bologna nel triennio 1637-1640 in qualità di Legato pontificio e di quella dei Pio di Savoia. Opere mai ritornate tutte insieme nella città dove erano state realizzate. Si rende così possibile, in questa circostanza, la possibilità di ammirare e di apprezzare a Bologna capolavori dei maestri emiliani visibili esclusivamente in riva al Tevere, tra cui alcuni mirabili esempi della produzione estrema di Guido Reni.
Decisamente unico e irripetibile e anche l’abbinamento fra le opere esposte e gli affreschi di Annibale, Agostino e Ludovico Carracci, e della loro Accademia, che corrono lungo le pareti di Palazzo Fava luogo simbolo per Bologna. La mostra curata da Sergio Guarino, curatore storico della Pinacoteca Capitolina, con la collaborazione di grandi studiosi – come Andrea Emiliani, Patrizia Masini, Angelo Mazza e Claudio Strinati – è il primo frutto di un vasto progetto di ricerca in cui convergono sia le vicende di un accorto mecenatismo sia gli sviluppi del dibattito pittorico bolognese dei primi decenni del secolo XVII.

Sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni. Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini
Sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni.
Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini

Il più antico dei capolavori è un bozzetto di Prospero Fontana, la “Disputa di Santa Caterina d’Alessandria”, e da esso prende avvio l’itinerario di visita. Di Annibale, il più estroso, il più libero, il più dotato pittoricamente dei Carracci, sono esposte due versioni di “San Francesco in adorazione del crocefisso”.
Il primo, restaurato per accompagnare papa Francesco a Rio de Janeiro, è uno degli esempi più alti della nuova formulazione dell’iconografia del santo all’indomani della Controriforma, quando la codificazione dottrinale portò a una generale riflessione sulle raffigurazioni religiose del canonico “Discorso sopra le immagini sacre e profane” (1582) del cardinale Gabriele Paleotti, vescovo di Bologna. La pulitura del dipinto del 2013 consente di leggere l’ardita scala cromatica, mettendo in luce brani di modulazione pittorica assai vivi nel teschio in primo piano e il breve e delicato accenno paesistico di gusto veneziano.
Il secondo San Francesco, si presenta con le braccia aperte verso il crocifisso, di grande forza espressiva avvolto da un paesaggio assai vibrante nel plastico comporsi chiaroscurale. Di Ludovico, che a differenza dei cugini non lasciò Bologna, sono qui esposte la grande “Allegoria della Providenza” e la “Santa Cecilia”: “Si può lasciare alla fantasia dei musicologi il pensare se [Cecilia] starà ‘toccando’ un Cavazzoni o un Merulo, o qualche più semplice canto” così scriveva Francesco Arcangeli, che del piccolo quadro aveva colto l’atmosfera di poesia “venata di pensieri quotidiani”, nel catalogo della mostra bolognese del 1956 dedicata ai Carracci. Segue un “Ritratto di giovane” e un tondo, “Madonna con il Bambino”, pochissimo visto, per il fatto che sostava negli uffici della Soprintendenza.

Sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni. Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini
Sale di Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni.
Foto Paolo Righi/Meridiana Immagini

Ma è nella sala dedicata a Guido Reni che la mostra acquista il suo accento più coinvolgente e di scoperta verso i dipinti degli ultimi anni, quelli della “seconda maniera” del maestro bolognese. Non è più il “divino” Guido, ma un Guido umanissimo. L’artista indugia verso il mistero di figure femminili – “Fanciulla con corona”,
“Cleopatra”, “Lucrezia”, “Donna con vaso” – incompiute, enigmatiche, rarefatte.
Il “San Girolamo” presenta un vivido naturalismo, che con gli occhi fissi su una semplice croce di legno si batte il petto con un sasso: i tradizionali attributi, con l’aggiunta dell’accenno al manto rosso della dignità cardinalizia (che in realtà il santo non ebbe mai), fanno da contorno all’intenso volto, reso ancora più ascetico dagli occhi profondamente scavati. Le rughe accentuate, la chioma spettinata, la bocca aperta in preghiera, la stessa ondulazione della barba sono tutti segni di una pittura che vuole indagare i meandri del pentimento interiore e della conversione del cuore.

Con “Anima Beata” Guido trasfigura il proprio testamento spirituale.
L’opera rappresenta in piedi sul globo, un giovane alato che innalza lo sguardo verso il cielo, dove alcuni puttini affiancano la luce divina che si irradia verso il basso, le braccia sono spalancate, in un canonico gesto di preghiera e di fiducioso abbandono: il corpo perfetto nudo, è solo in parte coperto da un drappo rosa che dal braccio destro gira dietro la figura per chiudersi pudicamente davanti a lei.
In questo suo ultimo quadro Guido Reni riassume la poetica di un’intera carriera, senza rinnegare se stesso ma nello stesso tempo senza nessun nostalgico compiacimento. La circostanza della morte avvenuta a non molta distanza della conclusione della tela può creare eccessive suggestioni sul tema del presentimento della fine, ma è indubbio che l’“Anima beata” sia davvero una sintesi della forte religiosità personale dell’artista e di una idea finale di una pittura ristretta all’essenziale, di un’arte vera e autentica in quanto “svelata”, privata dall’obbligo del racconto e della descrizione.

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Redazione di Periscopio

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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