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Certamente meno devastanti dei tanti conflitti militari che si sono consumati e si stanno consumando tuttora nel mondo, le guerre diplomatiche con a oggetto principale i mercati internazionali possono avere risvolti altrettanto determinanti sul futuro delle popolazioni. Un’aspra contesa commerciale è recentemente avvenuta fra le due superpotenze di Stati Uniti ed Unione Europea ed ha avuto come campo di battaglia figurato quello del commercio del frutto tropicale più consumato al mondo: la banana.
La motivazione potrebbe sembrar ridicola, ma l’ironia viene meno se si considera il giro d’affari che è in grado di muovere il mercato in questione: dal 1996 al 2011 la principale multinazionale statunitense produttrice di banane in America Latina ed esportatrice nei Paesi europei ha dovuto sborsare in media 200 milioni di euro annui in dazi sull’importazione imposti dall’Ue per far arrivare sulle tavole del continente in media 57 milioni di tonnellate di banane all’anno.

D’altra parte il “libero commercio” tanto auspicato da Adam Smith nel suo celebre “Wealth of Nations” è da sempre stato un ideale formalmente perseguito ma spesso rinnegato a livello pratico dalle due potenze continentali che sin dal secondo dopoguerra hanno vissuto fasi alterne fra grandi aperture reciproche e ricadute nel protezionismo. Se le cose sarebbero dovute andare meglio con l’istituzione del Gatt (General Agreement on Trades and Tariffs) avvenuta nel 1960, è anche vero che l’Europa ha, oltre alla salvaguardia dei diritti umani, fra i suoi scopi principali la libera circolazione di merci e lavoratori all’interno dei propri confini, mentre per il commercio estero ha tradizionalmente adottato una politica protezionistica, in particolare per la propria agricoltura. Perfino la mitica “Land of Freedom” non ha sempre concesso il libero mercato: il caso più eclatante di barriere protezionistiche erette dagli Usa si ebbe quando, nel 1971, il presidente Nixon, dopo aver sganciato il dollaro dalla convertibilità in oro, per porre freno al grave deficit di bilancio di cui lo Stato Federale soffriva, impose non solo una forte svalutazione competitiva, causando disordini monetari in tutto il mondo, ma organizzò anche un grande sistema di dazi sulle importazioni e di detassazione sulle produzioni interne.

Tornando alle banane, tuttavia, la situazione sembra essere più complessa rispetto alla semplice volontà di porsi in maniera più competitiva sui mercati internazionali. Nel 1996, infatti, gli Stati Uniti hanno addirittura chiamato in causa il Wto (World Trade Organization), arbitro delle dispute internazionali riguardanti il commercio, denunciando la disparità di trattamento che l’Unione Europea riservava loro rispetto ai più avvantaggiati paesi Acp nel commercio del frutto tropicale.
La sigla Acp sta ad indicare quei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, che furono fino all’inizio del secolo scorso colonie del Vecchio Continente e che ancora soffrono di sottosviluppo economico. Fra i diversi piani per lo sviluppo di tali aree vi è anche l’iniziativa del 1975 dell’allora Comunità Europea di offrir loro condizioni favorevoli per quanto riguarda l’esportazione in Europa di prodotti locali tramite l’azzeramento o la minimizzazione dei dazi, rendendo così meno costoso per gli Acp commerciare diverse merci, fra cui le banane oggetto della contesa, nell’Unione rispetto a quanto non sia per gli Stati Uniti e il resto del mondo.

Nel 2009 le due potenze sono giunte ad un “accordo di pace” sulla diatriba: l’Unione Europea avrebbe progressivamente ridotto le proprie tariffe sulle importazioni delle banane da 176 euro a 114 euro a tonnellata ottenendo in cambio dagli Usa la rinuncia alla causa intentata contro l’Ue presso il Wto. Difficile in quest’occasione definire chi si trovi nella veste del vincitore e chi in quella dello vinto: per i consumatori europei probabilmente non cambierà molto, almeno fino ad ora non si sono viste rilevanti variazioni al ribasso del conteso frutto tropicale; probabilmente la situazione migliorerà per le multinazionali americane, prima fra tutte la Chiquita, che riescono così ad accedere al mercato pagando meno tasse pur mantenendo gli stessi prezzi ottenendone un guadagno maggiore. La speranza è che questo maggior margine possa essere distribuito ai lavoratori nelle grandi coltivazioni dell’America Latina, dove hanno sede operativa le suddette multinazionali. Coloro che più hanno di che preoccuparsi sono invece i coltivatori e i proprietari delle piccole-medie imprese agricole presenti negli Acp: questa semiliberalizzazione del mercato con gli Usa altro non fa che costringerle a competere con una protezione decisamente inferiore al passato contro un avversario ben più grande di loro. Se per il momento, come detto, il mercato è rimasto stabile, vi è il concreto rischio che gli esportatori americani decidano di avviare una guerra di prezzi contro gli Acp. Si tratterebbe di una situazione di breve periodo vantaggiosa per i consumatori, ma tutt’altro che auspicabile per gli Acp i quali, non avendo una produttività ed un’efficienza paragonabile alle multinazionali statunitensi, uscirebbero indiscutibilmente sconfitti da una simile competizione. Se ciò avvenisse, potrebbe portare ad effetti perversi sul lungo periodo sia per gli Acp che per l’Unione Europea: i primi sarebbero probabilmente costretti ad uscire dal mercato, con un gravissimo danno alla loro economia, la cui esportazione agricola è ancora traino della crescita, i secondi potrebbero trovarsi a pagare banane a peso d’oro, visto che gli Stati Uniti verrebbero così a dominare un mercato privo di concorrenti.

Il fatto che l’Unione Europea commerciasse a condizioni favorevoli con gli Acp, anche se dal punto di vista giuridico si possa configurare come una discriminazione nei confronti di alcuni rivenditori, altro non era che uno squilibrio creato con uno scopo etico: avvicinarsi quanto più possibile a saldare un debito insaldabile facilitando lo sviluppo di Paesi in cui il colonialismo ha lasciato ferite non ancora rimarginate e forse non rimarginabili.
Che sia giusto o no l’accordo a cui sono pervenute Ue e Usa è un quesito difficilmente risolvibile e che si presta a infinite discussioni. La speranza è che per il futuro possa prevalere il buonsenso soprattutto da parte delle multinazionali: il riequilibrio delle condizioni contrattuali attuato in loro favore non deve portare ad una guerra di prezzi. Notoriamente, purtroppo, l’etica non è esattamente ciò per cui le multinazionali si sono distinte nel tempo, sarebbe dunque necessario, almeno in questo caso, un intervento del Wto non negli interessi esclusivi delle uguali condizioni di mercato a tutti i costi, ma negli interessi delle persone e dei popoli che da quel mercato, la cui storia avversa ne ha condizionato la competitività fino ad oggi, ricavano una delle pochissime fonti di reddito. Una soluzione etica è l’unica strada percorribile se si vuole evitare che la guerra delle banane, che dovrebbe essere finita, a breve cominci a mietere vittime.

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Fulvio Gandini


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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