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DUBLINO – Atterri a Dublino in un piovoso, surprise surprise, pomeriggio di dicembre. Alberi di natale e jingle bells. Esci dal megascalo e trovi ad aspettarti il pullmino verde del “Paddy tour” con l’immancabile lepricorno stampato sul fianco. Emozioni garantite: cliff of moher, hill of Tara, greggi di pecore, suonatori di violini e spettacolino fuori programma di Irish dance. Irish coffee e Standing ovation finale. Tutto molto bello ma anche tutto già immaginato. Torni a casa con un maglione di Aran ed un berretto in tweed. Una miriade di Like, sorrisi e commenti sui social networks. Foto ricordo e souvenirs. Di certo abbastanza global.
Ma c’è un altra Irlanda che incomincia sul “rapido” che da Huston Station ti porta a sud, nella regione del Munster, nella città di Cork. Terribilmente local. Te ne accorgi appena scendi a Kent Station, manca il negozietto dei souvenir e niente farmacia. Do not panick, in compenso troverai il primo pub non appena fuori dalla stazione. L’anonimato di Dublino lascia spazio a ritmi di paese, sei finalmente in Irlanda. Ai locali piace chiamarla anche The real capital, sia per la rivalità con Dublino che per essere stato un centro anti-trattato, l’accordo con il quale l’Inghilterra nel 1921 dava di fatto l’indipendenza all’Irlanda ma manteneva possesso dell’Ulster. Michael Collins, figliol prodigo; pagherà con la vita la firma del trattato proprio nelle campagne di Cork, assassinato in un imboscata l’anno successivo nei pressi di Bandon.
Cork, The rebel city, per la sua convivenza, storicamente mai pacifica con I sudditi di sua maestà è un importante ex polo commerciale, industriale e manifatturiero. l’economia si risolleva durante gli anni ruggenti della Celtic tiger. Call center ed aziende americane spuntano con i funghi. Il mistero della trinità viene momentaneamente sostituito da quello della triangolazione fiscale. Le periferie crescono a dismisura inglobando i villaggi limitrofi. Per rifare il centro il comune si rivolge ad archistar. Molta voglia di global. Ma nonostante tutto irrimediabilmente local. Nella Rebel City esci e ti sembra di fare una vasca in piazza. Stessi ritmi. In mezz’ora hai fatto il giro del centro e non sai più dove andare. Per fortuna c’è sempre un pub dietro l’angolo. Non ci sono zone franche per I turisti, la polvere non e nascosta sotto il tappetto. E forse proprio questo e’ il suo bello.

Il centro cittadino si sviluppa alla fine di un fiordo, secondo porto naturale più esteso al mondo dopo quello di Sidney, attorno ai due maggiori rami del fiume Lee che subito prima di aprirsi la corsa verso il mare si dirama in svariati corsi d’acqua, molti dei quali oggi ricoperti da strade e viali. Passeggi e incontri sempre il fiume. La campagna e il mare sono ancora lontani ma sulle sponde un innumerevole numero di gabbiani, aironi, altri pennuti che la mia ignoranza in ornitologia mi impedisce di identificare. Forse cormorani. Con un po’ di fortuna potresti vedere la foca che abita il fiume (qui aggiungo prova fotografica in quanto non pochi si chiederanno quante pints ho bevuto prima di avere avuto visione di suddetto mammifero…).

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Una foca nel fiume Lee

Continui a camminare per il centro, verso il mare non perdi mai di vista i resti imponenti del vecchio porto, ai lati le zone collinari dei quartieri popolari e della nobiltà che fu. La parte nord, “the north side”, è sicuramente la più interessante con le aree signorili di Sunday’s well e St. Lukes, quartieri residenziali caratterizzati da enormi palazzi dell’800 e di inizio ’900 dove spesso il cocciuto proprietario si ostina ancora a voler abitare, resistendo alla tentazione di trasferirsi nell’anonima periferia. Evitando di conseguenza di trasformare “the family mansion” in un alveare di insalubri monolocali per diseredati come già avvenuto in molte altre aree della città. Questione di tempo. Nel mezzo le aree popolari di Shandon e Blackpool. Cottage con il muschio sui tetti e negozietti improponibili inglobati dalla città. In cinque minuti passi dai campi da cricket e giardini botanici del Mardike ai compro tutto / svendo tutto di Shandon street. Signore distinte a passeggio col cagnolino e personaggi – molto poco rassicuranti – in tuta e catene d’oro al collo. Tutto nello stesso luogo, spazio condiviso di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

Torni verso il centro ed e d’obbligo un passaggio all’Englih Market, il mercato coperto. Generazioni di macellai, garzoni, banchi del pesce, fruttivendoli. Urla, frenesia, who’s next? how can I help you sir? A volte non devi comperare nulla ma ci passi lo stesso, tanto per guardare. Un vero gioiello e ti chiedi come e possibile che non si riesca a rilanciare anche quello di Ferrara. Ma ancora niente sciccherie o trappoloni per turisti. Everybody’s welcome, certo. Ma il mercato e lì per gli abitanti di Cork. semplicemente per fare la spesa.
Vicoli e buskers agli angoli delle strade. Giorno e notte. Tempo permettendo. Di norma studenti, chitarra, buona voce e buon repertorio. Tutto normale. fenomeni accreditati se ne vedono pochi, saranno tutti in giro per festival internazionali. Una città generosa, che in passato e riuscita ad inglobare vichinghi danesi, ugonotti in fuga da Parigi, ebrei in cerca di fortuna dalla Lituania e che oggi accoglie migliaia di giovani e non da tutto il mondo, Europa, Asia, Africa, America. Forse per la sua natura di città di mare, dove per le vie del centro e normale sentire parlare italiano, francese, spagnolo, lingue slave ed accenti est europei.
Cala la sera e le strade si svuotano. Se ne vanno a casa anche gli strilloni dell’eveningh echo (il giornale cittadino). Cork ama i suoi strilloni, al punto da erigergli una piccola statua nel viale principale, St.Patrick street.

irlanda strillone
Il monumento allo strillone

Qualche ora di calma. E riparte la baraonda. Per stomaci forti. I pub si riempiono, alcuni dei quali decisamente meravigliosi. I più belli forse Sin E, Mutton Lane, The Oval. Ma qui francamente c’è l’imbarazzo della scelta. Concerti dal vivo e socialità. Chiacchiere con perfetti sconosciuti fino a notte fonda. E una birra rimane una birra. Ogni volta che provi a chiedergli un glass (la nostra “piccola”) il barista si farà ripetere la richiesta, penserà che forse sei malato (a glass? what wrong with you boy?) o di avere capito male e ti servira lo stesso una pint. Che di norma diviene la prima di una serie, nonostante le buone intenzioni. Il menu è inesistente, probabilmente nascosto da qualche parte c’è un listino prezzi ma personalmente non sono mai riuscito a vederlo.

Non di rado si assiste a scazzottate memorabili. Meglio ricordarsi che si è in Irlanda e mantenere un certo low profile è d’obbligo, tarallucci e vino non sono inclusi nei menù a queste latitudini.
Arrivano le 2 di notte e si chiude bottega. Tutti si riversano in strada, tutti alla stessa ora. File davanti alle friggitorie, pandemonio, scene surreali che cercherai per anni di dimenticare. Invano. lotta per trovare un taxi che ti porti a casa.
La mattina il sole (pioggia permettendo) si leva su Cork. Esci ed in giro non c’è quasi nessuno. Un ultimo ubriaco sta ancora cercando di trascinarsi a casa dopo una notte passata chissà dove. Tra qualche ora ricomincerà il tram tram frenetico di una città che appartiene ancora ai suoi abitanti.

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Vittorio Sandri

Vittorio Sandri, nato e cresciuto a Ferrara, si e’ diplomato al Liceo Ariosto della città estense, al quale ha fatto seguito un percorso di studi in scienze politiche iniziato presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna e proseguito a Parigi presso l’Institut d’Etudes Politiques (Sciences Po) con l’ottenimento del Diplôme du programme international e terminato con il successivo conseguimento della Maîtrise en science politique all’ Université Paris Nanterre. L’autore ha trascorso lunghi perriodi in Europa tra Spagna, Francia e Inghilterra. Tutt’ora vive e lavora all’estero anche se considera la citta della metafisica, immutabile nella sua bellezza, un porto senza mare nel quale e’ sempre possibile fare ritorno.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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