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Nel dicembre del 1999 due violenti uragani devastarono il nord della Francia. Furono eventi atmosferici straordinari e lasciarono alle loro spalle un regalo indesiderato di morte e distruzione. Una delle due fu particolarmente memorabile e i francesi quando ne parlano, non l’hanno battezzata con un nome proprio, ma usano semplicemente le maiuscole, quella è semplicemente, La Tempesta. I danni provocati dal suo passaggio furono enormi, fra i tanti, la distruzione di una quantità considerevole di alberature storiche e monumentali. Il parco della reggia di Versailles fu devastato, circa 10.000 alberi furono sradicati dalla violenza del vento, ma se guardiamo questo disastro da un altro punto di vista, si può dire che mise fine a una lunga discussione che animava il dibattito sulla sua gestione. Mi rendo conto che fare una considerazione del genere è come definire un terremoto come un nuovo piano regolatore, ma ci sono dei casi in cui l’eccesso di discussione, porta inevitabilmente ad una immobilità che può essere controproducente. Il governo francese, anche in tempi di crisi, stanzia fondi pubblici per la conservazione e il mantenimento del suo patrimonio di giardini storici che a noi italiani può sembrare fantascienza, di conseguenza il dibattito sulla gestione dei grandi parchi, anche se non diventa argomento da Bar Sport, è comunque al centro dell’attenzione pubblica e della stampa, anche per i non addetti ai lavori.
Nel caso di Versailles, il dibattito sulla sua gestione scatena sempre delle grandissime polemiche e all’avvicinarsi del cambio di secolo erano relative ad un fatto specifico: mantenere le grandi siepi che delimitavano la grande prospettiva centrale del parco o sostituirle con una nuova piantagione?
In Francia non c’è un problema di manutenzione del Verde, i nuovi impianti, soprattutto nei giardini di grande richiamo turistico, sono curati come principini, quindi la discussione riguardava i possibili cambiamenti dell’immagine storicizzata del parco. Sostituire le grandissime siepi che fiancheggiavano il “Grand Canal”, significava perdere per più di un decennio l’immagine ormai stabilizzata del parco e dare in pasto alle migliaia di turisti una cartolina diversa. La Tempesta ha messo fine alla discussione e verificare come il parco abbia cambiato la sua immagine, prima e dopo la catastrofe, è molto semplice, basta fare un giro su internet e curiosare nelle foto delle vacanze messe in rete.
È bene ricordare che nei grandi giardini formali creati da Le Nôtre nel 1600, ai tempi del Re Sole, queste lunghissime siepi potate erano una delle caratteristiche di questi luoghi, in cui la Natura, per diventare bella e degna di chiamarsi Giardino, doveva perdere ogni spontaneità ed essere regolata e dominata dalle mani e dalla ragione dell’uomo. Attraverso potature continue le piante assumevano forme geometriche e artificiali, per esempio alcune specie di alberi e arbusti di buon carattere, come i carpini e il bosso, perdevano il loro aspetto per diventare ricami, sculture e quinte di una scenografia teatrale complessa. Decenni di potature però indeboliscono le piante e in passato la loro sostituzione, per esempio nei labirinti, era considerata una prassi nella gestione della forma del parco, oggi invece, ovunque si tende a monumentalizzare le piante e a considerare il giardino storico o le cosiddette alberature storiche, come qualcosa di intoccabile. Questa vicenda mi ha sempre fatto riflettere, i giardinieri dei giardini formali, curavano le loro piante seguendo l’estetica dell’epoca, ma erano perfettamente consapevoli di maneggiare materia viva, una materia che nel tempo si ammala, cresce, invecchia, muore e rinasce, noi con la nostra cultura, sempre alla ricerca di una naturalità perduta, trattiamo i giardini come oggetti, li vogliamo eterni, come una cosa già morta.

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Giovanna Mattioli

È un architetto ferrarese che ama i giardini in tutte le loro forme e materiali: li progetta, li racconta, li insegna, e soprattutto, ne coltiva uno da vent’anni. Coltiva anche altre passioni: la sua famiglia, la cucina, i gatti, l’origami e tutto quello che si può fare con la carta. Da un anno condivide, con Chiara Sgarbi e Roberto Manuzzi, l’avventurosa fondazione dell’associazione culturale “Rose Sélavy”.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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