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17 Dicembre 2018

We love you

Tempo di lettura: 3 minuti


We love you (The Rolling Stones, 1964)

Sembra una cosa un tempo inimmaginabile ma questa settimana – il 18 – Keith Richards, l’uomo che per me – e per tanti – è i Rolling Stones ne fa 75.
Non è un traguardo da poco per uno che è stato – parole sue – una specie di piccolo chimico ambulante per circa dieci anni.
Keith però è sempre stato furbo.
Come ha detto più volte: ha sempre evitato sostanze di bassa qualità.
Un po’ perché se lo poteva permettere e un po’ perché è sempre stato furbo.
A riprova di questa furbizia – commerciale e/o salutistica – c’è anche questa notizia uscita la settimana scorsa – vedi te – proprio nei giorni in cui si annunciava l’ennesimo tour americano di quelle coerentissime cariatidi che – coerentemente – anni fa, dichiaravano al mondo, sempre per bocca del buon Keith, la loro volontà di “stare sul palco fino alla fine, proprio come i bluesmen ci hanno ispirati agli inizi”.
Francamente non so se credere alle parole di quella vecchia boccaccia, sono anche fatti suoi.
Ma sicuramente c’è un fondo di verità, anche perché il vecchiaccio ha ammesso che si concede ancora – saltuariamente – “qualche birra e qualche bicchiere di vino buono”.
Quindi tutto regolare, gli Stones saranno di nuovo in giro, Keith continuerà a bere ma Keith ha 75 e in barba alle mitologie che purtroppo, a volte, l’hanno trasformato – solo per gli stupidi – in una barzelletta, Keith rimane un anziano signore che a 75 anni non può certo bere come quando ne aveva 20, 30, 50 o 60.
Il successo di Keith Richards – e di queste sue dichiarazioni, riprese con fare anche troppo sensazionalistico dai soliti pennivendoli – invita però a riflettere, proprio come “il successo di Tavernello”, così, per rimanere in tema.
Adesso attaccherei un pippone sul nostro mondo senza idoli che appiccica l’etichetta “idolo” addosso a ex ragazzini del liceo artistico bravi con la chitarra ma mi fermerò.
Anche perché il buon Keef si merita certamente l’etichetta “idolo” almeno quanto si merita l’etichetta “genio”.
Stiamo pur sempre parlando dell’uomo che ha portato il riff di chitarra a livelli stellari, roba eterna quanto Mozart.
Insomma: quei suoi riff, quei suoi pezzi e per me anche quelle sue seconde voci sui cantati di Jagger – che purtroppo però in live non fa più da un po’ – sono dei veri e propri biglietti da visita rappresentanti quel poco di buono generato dalla razza umana su questo pianeta ormai andato.
È quindi cosa buona e giusta che Keith Richards se ne stia su questo pianeta il più possibile, se lo merita lui e ce lo meritiamo noi anche se qualcuno non se lo meriterebbe proprio.
Lunghissima vita al vecchio allora, e lunghissima vita anche al “mito”.
Perché Il “mito” di Keith Richards – con questo outing su questa fantomatica “sobrietà” – per me si fortifica: Keef ha scelto di eternarsi su questo pianeta con un proprio peculiare approccio alla terza età e questa cosa, per come la vedo io, è bellissima perché lo stronzone è proprio intenzionato a restare qua ancora per un po’.
Auguri stronzone!

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Radio Strike


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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