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Giorno: 27 Dicembre 2013

rifiuti

Rifiuti, un business da 300 miliardi di euro con contorno di inquinamento e malattie

di Mario Sunseri

Trattando di rifiuti si deve tenere ben presente la prospettiva da cui si fanno le osservazioni ed esprimono i giudizi; ciò che succede in Africa è profondamente diverso da quanto succede in Italia e nelle nazioni industrializzate. Nel mondo si producono circa 4 miliardi di tonnellate annue di rifiuti, di cui circa la metà rifiuti domestici, l’industria dei rifiuti ha un fatturato di 420 miliardi di dollari (circa 300 miliardi di euro) e occupa 20 milioni di lavoratori: un impresa colossale. Altri 20 milioni di persone lavorano non ufficialmente nel raccogliere, separare manualmente, riciclare. Solo il 18% è riciclato, un 12% incenerito. Il resto finisce in discariche o in mucchi all’aria aperta. Ma le statistiche globali non restituiscono la realtà nella sua complessità: scomponiamo quindi l’analisi in tre gruppi di nazioni.
In un primo gruppo: la metà della popolazione mondiale non ha accesso al servizio di raccolta rifiuti; il 70% è gettato in discariche spesso non gestite; milioni dei più poveri vivono sopra o attorno a questi siti, recuperando piccole quantità di materiali da rivendere per riciclaggio. In Asia, Africa, America Latina, le città crescono rapidamente, le popolazioni urbane si arricchiscono, consumano di più e gettano più rifiuti, e le autorità locali non riescono a tenere il passo con la domanda di servizi locali, acqua, fognature, servizi sanitari, rifiuti e fornitura di energia. Nel mondo ogni settimana due milioni di persone si spostano in città. Si prevede che Lagos, 12 milioni di abitanti, raggiungerà nel 2100 gli 88 milioni. Questo stato di cose richiede di affrontare numerose emergenze, prima di tutte la salute. I rifiuti non trattati, formati per il 60% da materiale organico, includono carcasse di animali, rifiuti ospedalieri, industriali e pericolosi, trasmettono la malaria (le zanzare vi si riproducono), colera, tifo, malattie respiratorie, infezioni da contatto. Spesso ci si dimentica di un altro grave rischio: l’80% delle emissioni di diossina nelle nazioni in via di sviluppo viene dal bruciare i rifiuti all’aria aperta. C’è poi da ridurre l’impatto sui cambiamenti climatici: le discariche, in maggior grado quelle non gestite, sono a scala globale la terza sorgente di emissioni antropogeniche di metano. Il deposito di particelle carboniose incombuste, emesse dagli incendi in discarica, contribuisce a circa il 30% dello scioglimento dei ghiacci. Investimenti ingenti sono necessari in queste Nazioni per realizzare e mettere in opera i sistemi di raccolta e gli impianti di trattamento basilari; la Banca Mondiale stima che solo per attivare i sistemi di raccolta siano necessari 40 miliardi di dollari, mentre nel 2015, quando il volume dei rifiuti raddoppierà questa cifra raggiungerà 120 miliardi di dollari. Poi vi è il gruppo di nazioni, quali Brasile, Turchia, Europa dell’Est, il nord Africa, Sudafrica, in cui alcuni investimenti sono stati fatti, il 60-80% dei rifiuti è trattato e impianti di riciclaggio, discarica e trattamento sono operanti. Hanno le risorse per creare moderni sistemi di gestione rifiuti ma spesso non vi sono ancora le condizioni politiche per attuare le normative, far adottare sistemi di responsabilità del produttore, tassazioni, incentivi e promuovere il riciclaggio. Queste nazioni sono di fronte ad una curva di spesa in rapida crescita: un cittadino Serbo spende per i propri rifiuti circa 30 euro annui, cifra che salirà a 100 euro annui nel prossimo decennio, quando molte nazioni correranno per mettersi in pari con le normative europee. E’ in queste nazioni, con un sistema legislativo e fiscale in regola, che si aprono interessanti opportunità d’investimento a lungo termine. Mentre nelle nazioni povere – un cittadino di Giacarta spende 6 euro annui per la bolletta dei rifiuti – l’unico modo per recuperare gli investimenti è attraverso finanziamenti dai programmi di aiuto internazionale, perché le tasse locali o il valore dei materiali riciclati non potranno garantire un ritorno.

1 – CONTINUA

Sintesi dell’articolo pubblicato nel magazine Equilibri 79 (rivista pubblicata dal COOU, Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati)  “Gestione dei rifiuti urbani e pericolosi: il Pianeta è divisa in tre mondi diversi” scritto da David Newman, il Presidente dell’Associazione ATIA ISWA Italia, Mario Sunseri, membro del Consiglio Direttivo e direttore di www.rifiutilab.it e Simonetta Tunesi, membro del Comitato Tecnico.

tunnel

Cifre da brivido e mancanza di ‘governance’, l’economia ferrarese è seduta nel tunnel

Dei “Nuovi scenari dell’economia ferrarese e della città che cambia” si è parlato nei giorni scorsi in occasione della presentazione dell’annuario 2014 del Cds. Si è trattato di una prima occasione di analisi del ricco e stimolante materiale raccolto dal Centro ricerche documentazione e studi di Ferrara.
Gli interventi si sono soffermati su tre letture, relative alle più significative cifre locali raccolte dalla statistica, ai tratti urbanistici della città, e a qualche idea per il “che fare”, dopo una panoramica sulle grandezze macroeconomiche di ieri e del breve.
Ecco, di seguito, le cifre evidenziate per l’area ferrarese:
provincia di Ferrara: tasso di disoccupazione 11,1%, il più alto nel nord Italia nel 2012; salito all’11,8% nel 2013;
persi 8.000 posti di lavoro nel 2007/10 e fino a 10.000 ad oggi (di cui 5.000 fino a 44 anni) e nel triennio circa 4.000 giovani a casa dal lavoro;
in 5 anni di crisi ci sono stati 45 milioni di ore autorizzate di Cig;
indici di dotazione infrastrutturale, circa la metà di quelli della regione;
Ferrara la più indebolita rispetto alle altre provincie della regione;
Per secondo è stato sviluppato il discorso sulla città di Ferrara che cambia, evidenziando i nuovi strumenti urbanistici e i regolamenti relativi per poter cogliere i primi segnali di ripresa e favorire il cambiamento urbano.
Infine, terza relazione, il contesto socio-economico e, soprattutto, una proposta articolata in sette punti e che sintetizziamo.
1. attrazione di investimenti esterni con un nuovo marketing territoriale
2. estensione del sistema “duale” tedesco negli istituti tecnici e professionali
3. favorire la “transizione” scuola-lavoro
4. riduzione del debito pubblico
5. individuazione e diffusione di “buone pratiche
6. più risorse per i veri poveri e potenziamento del terzo settore
7. monitoraggio e customer satisfaction nella Pubblica amministrazione e con specifico riferimento al Comune di Ferrara

Credo sia sufficiente questo riassunto per capire che ci troviamo di fronte:
ad una città tutta concentrata su se stessa, anche se con alcune “chance”;
ad una provincia abbandonata e con territori indistinti e slegati dai contesti di crescita;
ad una gioventù “bruciata” e forse senza futuro;
a potenzialità inespresse, con stakeholders ed istituzioni non adeguate a esercitare governance e restie ad attivare strumenti, misure e risorse capaci di far cambiar passo al nostro territorio.
Quello che serve è: rompere la visione murata della città, mettere in rete i punti forti, a corona, dei territori che si collegano al capoluogo, anche con i luoghi di confine e fare sistema di distretti, dalla costa al centese, al rurale/ agroalimentare, da nuove aree attrezzate di nuova generazione al life natura/ambiente/turismi.
Al riguardo, da un po’, si sta sviluppando l’idea di costruire, con strumenti e fondi strutturali una sorta di nuovi “Patti territoriali” e “Contratti d’area”, ma si riscontrano tuttora resistenze, quasi a voler rimanere ancora nell’angolo tra via Emilia e dorsale centrale veneta, una vecchia storia ancora irrisolta.
Se poi perdiamo pezzi di territorio e di storia, se il Castello porterà un museo, se gran parte degli attori mancano ad appuntamenti come questo, un osservatorio importante ed indipendente, allora il tunnel ferrarese sarà sempre più lungo, ancora nel buio.
La luce forse arriverà, ma col rischio che sia troppo tardi: allora non avremo perso solo in cifre, si sarà dissolto una tessuto sociale.
Penso che non lo meritiamo.

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La Guantanamo d’Italia

Tanti anni fa andai in Somalia, come inviato de “il Giorno”, per intervistare Siad Barre, il dittatore che non molto tempo dopo sarebbe rimasto vittima di un attentato; aveva inventato il “socialismo scientifico” e lo slogan “Africa for africans”: era un personaggio interessante Siad Barre, aveva fatto la scuola militare a Modena, dove aveva assorbito i primi rudimenti di una socialdemocrazia, come si può dire?, capitalista, di cui Modena è stata grande e non sempre intelligente progettista riuscendo soltanto in modo formale a coniugare il capitalismo con una vera politica sociale, equazione mai riuscita ad alcuno, perché chi ha tentato la soluzione ha finito col vendersi al capitale (ogni riferimento a Giuliano Ferrara, a Bondi e amici è puramente casuale). Anche Barre s’inchinò al capitale (italiano), da qui l’amicizia con Craxi e la sua filosofia de “la barca va”. Finì a schifo, com’era prevedibile: in occasione di quel mio viaggio incontrai persone molto intriganti, soprattutto i vecchi, sopravissuti al colonialismo italiano e testimoni delle atrocità compiute in Africa dai nostri celebrati “esportatori di civiltà latina”. Noi italiani in quella plaga ne abbiamo fatte di tutti i colori, come le scudisciate in faccia al nero che per strada non salutava, pur non conoscendolo, il bianco italiano. Scrissi i miei articoli sfatando (o cercando di sfatare) il mito dell’italiano buono, caritatevole, tollerante. Scrissi che gli italiani sono un popolo razzista, ignorante, violento, genericamente fascista. Quelle testimonianze fornite dai vecchi somali, confortate dalle affermazioni di un anziano colono del nord d’Italia, sono finite in uno dei bellissimi libri di storia di Angelo Del Boca, il più importante storico del colonialismo italiano. Sono passati, dicevo, molti anni da quel mio viaggio e le mie convinzioni di allora vengono confortate ogni giorno da quel che avviene in questo nostro villaggio della nuova vita: il razzismo non è morto, come la violenza quando può essere esercitata in situazioni di sopraffazione, quando si agisce con la convinzione di essere dalla parte del potere. Quello che è avvenuto a Lampedusa, l’isola dei morti viventi, la Guantanamo italiana, è lì purtroppo a dimostrarlo, sono passati 68 anni dalla caduta del fascismo, ma il manganello nero è sempre pronto a colpire, noi italiani siamo inesorabilmente, inguaribilmente fascisti, il resto – mi pare – è bolsa retorica.