Skip to main content

Giorno: 17 Luglio 2016

È iniziata alla grande la rassegna Autori a Corte ideata da Vincenzo Iannuzzo e Federico Felloni

da: organizzatori

È iniziata alla grande la rassegna AUTORI A CORTE ideata da Vincenzo Iannuzzo e Federico Felloni che dopo la presentazione del nuovo libro del mago Casanova ha proposto mercoledì 13 luglio nella bellissima cornice del Giardino delle Duchesse tre novità letterarie abbinando la scrittura alla musica. La serata è iniziata con il libro edito da “La Carmelina” di Lucio Scardino e Simonetta Savino, “I Magrini: quattro Artisti Ferraresi tra Otto e Novecento”, presentato insieme agli autori dalla presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea Anna Quarzi. A seguire Togliatti Blocks. Frammenti di una sconfitta di Daniele Vecchi. La presentazione, moderata dal direttore di Marco Zavagli, direttore di estense.com è stata introdotta da una esibizione musicale dello stesso autore, Daniele Vecchi (molti lo ricorderanno nelle file degli Strike), e del cantante della band “Vallanzasca “, Davide Romagnoni. È stata poi la volta del nuovo libro di Gianluca Morozzi e del cantautore Leonardo Veronesi che ha presentato brani del nuovo l’album “Non hai tenuto conto degli Zombie”, accompagnato dalla chitarra di Valentino Fuschini.
E mentre Morozzi parlava del suo libro ‘L’uomo Liscio’, chiacchierando con il moderatore e giornalista de La Nuova Ferrara Samuele Govoni, alternandosi a Veronesi, uno zombie imperversava tra il pubblico e sul palcoscenico creando momenti di grande ilarità. Leonardo Veronesi fin dall’inizio del suo tour sta cercando di presentare i suoi brani in modo teatrale e con formazioni sempre diverse a seconda dei vari contesti. E ci sta riuscendo benissimo perché in ogni occasione pubblica si creano momenti di spettacolo molto coinvolgenti abbinati a buona musica. Il filo conduttore tra il libro e l’album è L’IMPREVISTO . Il protagonista de “L’uomo liscio” Larry Lancia è un noto fumettista amante delle donne, ha una fidanzata che tradisce spesso e volentieri, un’amante irraggiungibile ma che è anche il suo grande amore, e innumerevoli fan che lo inseguono cercando di passare qualche notte con lui e che lui cerca di accontentare. Ma il suo mondo è sconvolto quando una mattina, in seguito a febbri terribili, si sveglia e scopre che il suo organo riproduttivo non c’è più. Un imprevisto devastante che lo obbliga a vedere la sua vita da un’altra ottica e proprio per questo ripercorrere episodi passati quando era ancora un uomo cosiddetto “normale”. Nell’album di Veronesi l’imprevisto sono appunto gli zombie che capitano all’improvviso e sovvertono ogni logica e ogni ordine naturale. Zombie come metafora di un certo tipo di essere umano ne morto ne vivo. Lo zombie dipende dai vivi ma i vivi che li hanno creati rischiano di essere distrutti dagli zombie stessi. Una continua lotta di resistenza umana per non essere zombie e non avere a che fare con gli zombie che possono rappresentare tantissimi significati. Morozzi ci ha promesso il seguito anche perché il libro si conclude con uno status aperto in cui Larry Lancia programma un futuro che aspettiamo con curiosità visto che lo scrittore intende scrivere una trilogia. Veronesi intanto continua a portare i suoi zombie tra la gente e far sentire i suoi testi originali e mai banali dove si parla di un quotidiano filtrato dalla grande sensibilità del cantautore doc. Una serata in cui la cultura e il divertimento si sono coniugati al meglio. Buona musica e belle parole in attesa della prossima presentazione in questa rassegna di grande spessore.

7° Premio Internazionale per la Sceneggiatura Mattador al ferrarese Marco Ori la menzione speciale per la sceneggiatura

da: organizzatori

VENEZIA, 17 LUGLIO 2016 – Premiati oggi i vincitori della Settima edizione del Premio Internazionale per la Sceneggiatura MATTADOR dedicato a Matteo Caenazzo, Concorso di scrittura per il cinema rivolto a giovani sceneggiatori dai 16 ai 30 anni. La Giuria 2016 composta da Ivan Cotroneo (scrittore, sceneggiatore e regista, presidente di giuria), Armando Fumagalli (direttore del Master in International Screenwriting and Production dell’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano), Alessandro Rossetto (regista e documentarista), Simonetta Amenta (produttrice di Eurofilm) e Stefano Bessoni (regista, illustratore e docente di animazione stop-motion), ha assegnato i premi dopo un’attenta valutazione di una rosa di elaborati selezionati dai lettori tra i 117 pervenuti quest’anno all’Associazione triestina.

“Sono molto contento di avere partecipato ai lavori di Giuria per il Premio Mattador – dichiara Ivan Cotroneo presidente della Giuria – i premi come questo, che permettono di segnalare il talento dei giovani autori e di aiutarli a portare avanti progetti di scrittura e messa in scena sono per me particolarmente meritevoli. Sono questi i ragazzi e le ragazze che faranno, anzi stanno per fare, il cinema di domani, ed è un onore e un piacere potere segnalare il loro lavoro”.

Luca Arseni, 25 anni, di Roma, assieme a Giuseppe Brigante, 26 anni, di Avellino, con Il Piano del Coyote sono i vincitori della migliore sceneggiatura per lungometraggio del 7° Premio Internazionale Mattador, per l’originalità dimostrata nel trattare un tema molto frequentato nel cinema: alla soglia dei trent’anni Ascanio, Camilla e Francesco decidono di comprare casa insieme. Dovranno accontentarsi di una nuda proprietà che li spingerà a sorprendenti soluzioni, ma nelle loro vite tutto cambierà. Marcello Pedretti, 26 anni, di Bologna, con Ascolta i tuoi occhi è il vincitore del Premio CORTO86 alla migliore sceneggiatura per cortometraggio, per la capacità di sintesi in un racconto di poche battute che vede protagonisti Giada, una giovane truccatrice, e Red, una rockstar che la ragazza sta truccando. Comincia una conversazione banale che prenderà inattesi sviluppi.
Serena Pia Perla, 29 anni, di San Giovanni Rotondo (Foggia), assieme a Giulio Rizzo, 22 anni, di Genova, con Bingo e Luca Mastrogiovanni, 24 anni, di Campobasso, con Cono d’ombra sono i vincitori della Borsa di formazione Mattador al miglior soggetto. Bingo racconta l’ultimo giorno di lavoro di Eleonora in una sala giochi di Roma. Attraverso le esperienze della protagonista viene svelato un mondo popolato di figure bizzarre. Cono d’ombra tratteggia con sensibilità un rapporto padre e figlio delicato e doloroso: Rino, un anziano vedovo, è consapevole che Livio, il figlio disabile, non potrà contare sulla sua presenza per sempre e cercherà di farlo uscire da un cono d’ombra rassicurante ma pericoloso, nel tentativo di insegnargli a cavarsela senza di lui.
Camilla Sicignano, 23 anni, di Monza, con Don’t Stop Creating è la vincitrice della Borsa di formazione Dolly alla migliore storia raccontata per immagini, dotata di buon gusto grafico e con una spiccata propensione al taglio cinematografico. Infine, Marco Ori, 28 anni, di Copparo (Ferrara), con la sceneggiatura Il grande buio ha ricevuto la menzione speciale della Giuria per la storia di Bruno, un giornalista fallito, a cui viene offerta una possibilità di riscatto che lo porterà in un viaggio verso Venezia, con altri due uomini, che cambierà il loro modo di intendere la vita, la morte, l’amicizia.

Nomine e Premiazione sono avvenute nella suggestiva cornice delle Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia che ha ospitato la Cerimonia conclusiva, suggellando la Settima edizione del Premio Mattador dedicato a Matteo Caenazzo, giovane talento triestino, studente di cinema all’Università Ca’ Foscari di Venezia, scomparso prematuramente il 28 giugno 2009. La sua motivata determinazione e la sua contagiosa energia hanno posto il seme da cui si è sviluppata l’attività dell’Associazione Culturale MATTADOR, ideatrice del Concorso.

A tutti i vincitori è stato consegnato il Premio d’Artista 2016 ispirato al percorso artistico di Matteo. Per la Settima edizione si tratta di una fotoincisione e acquatinta tirata in più esemplari dall’opera intitolata Aerei, realizzata con la tecnica dell’inchiostro su carta piegata da Massimo Bartolini, artista toscano che ha partecipato ad importanti mostre personali e collettive, tra le altre, PS1 New York, SMAK Gent, Biennale Venezia, Biennale Shangai, Manifesta 4 Francoforte, Documenta 13 Kassel, MOCA Los Angeles.

Il Premio MATTADOR si propone di far emergere e valorizzare nuovi giovani talenti che scelgono di intraprendere un percorso professionale ed artistico nell’ambito della scrittura cinematografica. I vincitori sono premiati con somme in denaro, 5.000 euro alla migliore sceneggiatura e 1.500 euro al miglior soggetto, ma in particolare con qualificati percorsi formativi, i MATTADOR WORKSHOP: la Borsa di formazione Mattador sullo sviluppo dei soggetti, a cura degli sceneggiatori Vinicio Canton, Maurizio Careddu, Laura Cotta Ramosino e Dante Palladino, la Borsa di formazione DOLLY sullo sviluppo delle storie illustrate, a cura del concept designer Daniele Auber, e il Progetto CORTO86, con la realizzazione del film tratto dalla sceneggiatura vincitrice, di cui l’autore può firmare anche la regia.

Tolti per troppe cure. Esposto sul futuro perito

da: Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus

Il perito incaricato della perizia sui bambini di Gorizia è stato segnalato all’Ordine per possibili gravi violazione del codice deontologico

La dottoressa Marica Malagutti, psicoterapeuta e perito del Tribunale di Ferrara, ha inviato oggi un esposto all’Ordine dei Medici-chirurghi e degli Odontoiatri della Provincia di Roma su uno psichiatra di Roma. Caso vuole che questo stesso psichiatra sia stato incaricato dal Tribunale di periziare la famiglia e i bambini di Gorizia tolti per troppe cure, e difesi dall’avvocato Francesco Miraglia del foro di Roma.

L’esposto si riferisce a una vicenda che ha ottenuto un notevole risalto mediatico locale e nazionale in cui una giovane promessa della danza di Ferrara rischiava di venir rinchiusa coattivamente in casa famiglia a seguito della perizia di questo psichiatra.

Nel suo esposto la dottoressa scrive:
“Nelle conclusioni della Sua perizia, il dottor S. aveva avanzato delle proposte in totale contrasto con la volontà della minore, proposte che fortunatamente il tribunale ha rigettato con decreto del 19 dicembre 2015. Ad ulteriore dimostrazione delle errate conclusioni del Consulente Tecnico d’Ufficio, dopo che il giudice ha deciso di ascoltare la ragazza e di accettare la sua volontà di rimanere con la madre e di seguire le sue aspirazioni professionali, la ragazza oggi, come da ultimo decreto del Tribunale di Roma, ha “superato brillantemente l’anno scolastico” e si è “inserita nella scuola di danza”. Alla luce di tali evidenze positive, ritengo ora necessario inoltrare le mie riflessioni in merito alla CTU del dottor S.
Infatti, a seguito della lettura dell’ampia documentazione a me consegnata, in quanto Psicoterapeuta, Psicologa Forense ed Esperta di Diritti Umani intendo far presente all’Ordine dei Medici di Roma a cui il dott. S. appartiene che ho dovuto fare alcune considerazioni che mi hanno non solo sorpreso, ma anche sconvolto in quanto perito, psicoterapeuta e anche come persona.”

La madre della ballerina si era rivolta alla dottoressa Malagutti che già all’epoca aveva ritenuto molto grave il comportamento del perito, ma che aveva “reputato opportuno attendere in attesa degli sviluppi della vicenda”. Oggi, in occasione del decreto del Tribunale, la decisione di informare l’Ordine.

Secondo la dr.ssa Malagutti, un fatto è particolarmente sconvolgente nella relazione peritale: si legge a pagina 43:
“Nessuno dei tre attori della vicenda osservata è mai stato ricoverato in un servizio psichiatrico né abbiamo certificazioni ed esami che ci mostrino ed evidenzino uno stato di psicopatologia dell’uno o dell’altro. D’altro canto la situazione è fortemente patologica e si trascina da circa dodici anni, ci è quindi necessario definire cosa intendiamo per patologia al di fuori o meglio, oltre la nosografia psichiatrica”.
Il perito non riesce classificare [la ragazza] e sua madre, all’interno di una patologia e a questo punto occorrerebbe inventarne una ad hoc?”

Il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani Onlus esprime preoccupazione per la nomina di questo consulente per il caso di Gorizia:
“Nel caso di Ferrara, quando i giudici hanno dato ascolto alla voce della bambina, hanno potuto verificare come la valutazione del perito si scontrasse palesemente con la realtà dei fatti: e si sono ripresi il loro ruolo istituzionale di “Perito dei Periti”, ribaltando la sentenza iniziale.
Se vogliamo risolvere pienamente il problema degli allontanamenti facili dalle famiglie, è indispensabile riconoscere e comprendere l’incompatibilità tra le discipline psicologiche e psichiatriche e la giurisprudenza: contrariamente alle scienze mediche, nelle quali i margini d’incertezza sono assai più ridotti e dove esistono delle verità comunque accettate e riconosciute, sia pure in modo transitorio e sempre modificabile, nella psichiatria e nella psicologia le diagnosi sono caratterizzate da un altissimo grado di arbitrarietà e soggettività, e le certezze sono pressoché inesistenti.
La vicenda dei bambini di Gorizia tolti a causa della segnalazione di uno psichiatra che li riteneva colpevoli di cure eccessive è molto delicata. Ci chiediamo se sia opportuno che venga affidata una consulenza tanto spinosa ad un professionista appartenente ad una disciplina altamente discrezionale, soprattutto se sotto indagine per presunte violazioni del codice deontologico.”

cattani

“Anche il made in Italy va in tilt senza la qualità del lavoro”

(Pubblicato il 29 novembre 2013)

2/CONTINUA – Torniamo più propriamente ai temi del lavoro dal quale la nostra chiacchierata con Luigi Cattani era partita.
Lei sostiene che l’avere introdotto maggiore flessibilità contrattuale non ha giovato all’occupazione e non ha arginato la crisi produttiva.
“Sono i fatti a dimostrarlo. La stagione della flessibilità è stata inaugurata nel ’97 dal governo Prodi con il famoso pacchetto Treu. E la crisi strutturale, guarda caso, coincide proprio con quella fase e dura ormai da 15 anni. Senza volere forzare l’analisi si può tranquillamente dire che quei provvedimenti e quelli di segno analogo che sono seguiti non hanno avuto la capacità di contenere gli effetti devastanti della stagnazione prima e della recessione poi”.
Fra i provvedimenti successivi c’è stata la controversa modifica all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, introdotta dal governo Monti sotto la spinta del ministro Fornero. Quali le conseguenze?
“Il provvedimento è stato accompagnato dalla fortissima pressione di Confindustria. L’articolo 18 codifica il principio che il lavoratore non può essere licenziato indiscriminatamente, senza un confronto fra le parti. La modifica ha portato a un imbarbarimento nelle relazioni e nei rapporti di lavoro, inclusi quelli nel comparto pubblico. Ciò è stato possibile all’interno di un quadro generale di destrutturazione dei rapporti sociali di questo Paese”.
E l’effetto più immediato?
“Il fatto che il lavoratore ha perso di importanza e non è più percepito come fulcro del processo produttivo”.
Ciò cosa comporta?
“Faccio un esempio clamoroso. Il made in Italy è una bella etichetta, ma l’apparenza non basta. Coerentemente con la logica della marginalità del lavoratore molti imprenditori del comparto hanno delocalizzato o terziarizzato la produzione affidandola a manodopera non all’altezza. L’esito è stato drammatico e ha compromesso la competitività e il posizionamento di un settore che rappresentava un nostro indiscusso fiore all’occhiello”.
E quindi come si esce dalla crisi?
“Risposta molto impegnativa. Diciamo che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere. Confindustria andando oltre il mantra della flessibilità e recuperando il proprio ruolo di guida e di stimolo alle imprese, chiamate a investire e innovare. Il sindacato facendo il sindacato, affrancandosi dal ruolo subalterno cui la mancanza di una strategia generale sul mondo del lavoro lo ha relegato in questi anni e garantendo la tutela dei lavoratori in un’ottica di espansione dei diritti individuali e collettivi. Gli enti locali ridando impulso alla spesa pubblica attraverso interventi di riqualificazione della città che mirino alla soddisfazione dei bisogni dei cittadini e che sono possibili anche in questa drammatica congiuntura, che condiziona pesantemente le scelte ma che talvolta diventa anche alibi per l’inerzia. E infine il governo, impegnandosi a recuperare risorse, quelle che oggi per esempio mancano persino per assicurare la cassa integrazione in deroga…”
Questi sono gli ingredienti. E la ricetta?
“Deve essere chiaro a tutti che il rinnovamento delle imprese, condizione imprescindibile per recuperare competitività a livello internazionale, richiede investimenti sul processo e sul prodotto. L’olio di gomito dei lavoratori non basta”.

2 – FINE

Leggi prima parte

INTERNAZIONALE
Il futuro mondo del lavoro è digitale, ma l’Italia non è ancora pronta

(Pubblicato il 3 ottobre 2015)

Le nuove tecnologie e soprattutto la rete sono un bene o un male per il futuro mercato del lavoro? A che punto è la digitalizzazione in Italia e in Europa, in un mondo sempre più connesso? Quale futuro per quelle professioni destinate a scomparire a causa di internet?
Queste le tematiche principali dell’evento “Mercato digitale” nell’ambito del Festival di Internazionale 2015 moderato dal giornalista de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri, abile a gestire gli interventi di quattro ospiti esperti del settore.

Il ricercatore e giornalista Nicolò Cavalli è andato dritto al nocciolo della tematica affermando che “se si stima che l’investimento per acquistare un robot in sostituzione di un addetto alla friggitrice di un fast food sia intorno a 25 mila dollari, e se si considera anche che nei prossimi anni il costo e la manutenzione di questo robot saranno destinati a diminuire, è facile intuire che l’essere umano verrà soppiantato dal robot stesso”. Oggi bisogna quindi fare i conti con il cosiddetto ‘capitale digitale’ poiché “si pensi al numero di nuovi software in costante crescita – ha continuato Cavalli – servizi che costano relativamente poco e con una percentuale di riproducibilità elevatissima. In ottica futura l’aumento dei software è destinato anche a moltiplicare il numero di lavoratori impiegati nell’utilizzo dei software stessi; ciò in Italia ancora non si vede ma non c’è da stupirsi, dato che i finanziamenti alle aziende innovative sono in perenne diminuzione”.
Un’Italia che in questo settore si dimostra particolarmente arretrata quindi, anche se Cavalli specifica che “qua qualche cambiamento sta avvenendo anche se lentamente e sottovoce. Ciò che manca soprattutto al nostro Paese è un modello educativo culturale sull’innovazione. Si continua a sentir parlare della possibilità di insediare nel sud Italia una nuova Silicon Valley, ma se le premesse sono queste…”

I protagonisti dell'evento
I protagonisti dell’evento

Dino Pesole, giornalista de ‘Il Sole 24 Ore’, ha rincarato la dose sui temi di educazione e mancanza di finanziamenti in Italia, affermando che “nel dibattito pubblico italiano persiste una drammatica assenza delle tematiche riguardanti l’innovazione; a differenza di noi, Germania e Francia hanno saputo investire sul loro futuro digitale anche durante gli anni della crisi. L’Italia al contrario è un Paese ancora estremamente arretrato e non in linea con i tempi imposti dall’Agenda digitale, dal digital divide altissimo (solo il 60% della popolazione frequenta la rete a differenza del 72% della media europea, così come solo il 20% dei siti internet hanno un proprio store nella rete a differenza del 40% europeo), incapace di trovare finanziamenti ma anzi perennemente impegnato nell’istituire tagli alla spesa pubblica”.
Per Pesole il problema principale è riconducibile soprattutto a precise scelte politiche, poiché “un Paese che brinda per l’aumento del Pil di soli due punti percentuali è un paese che non ha capito che se dietro questa micro-crescita non c’è un investimento sull’innovazione non c’è neppure un investimento sul futuro”.

Il membro della commissione europea Lucillia Sioli ha invece precisato come “le politiche europee non rappresentano un freno allo sviluppo innovativo quanto piuttosto una risorsa da utilizzare, come per esempio i fondi per la banda larga. Sono sempre stati invece i governi italiani – ha continuato – a faticare nel disegnare modelli di investimento sull’innovazione adeguati. Quello dell’Italia è un male cronico, una nazione indietro su ogni fronte”.
Agganciandosi ai precedenti interventi relativi alla mancanza di educazione digitale, la Sioli ha anche lanciato un monito degno di considerazione: “É fondamentale che aumentino le competenze digitali, poiché nel mercato del lavoro futuro queste carenze avranno un effetto disastroso. Ecco perché sarebbe veramente fondamentale un avvicinamento delle università al mondo del lavoro, in modo tale che i luoghi accademici abbiano maggiore consapevolezza di quello che accade all’esterno delle sue mura e possa preparare corsi maggiormente adeguati a formare i futuri lavoratori”.

Ha preso infine la parola Derrick de Kerckhove dell’Università di Napoli, il quale ha convintamente affermato che “stiamo vivendo un grandissimo periodo di transizione destinato a provocare numerosi cambiamenti. Innanzitutto grazie alla rete stiamo andando sempre più verso una ‘trasparenza irresistibile’, collegata al fatto che stiamo diventando prigionieri della rete stessa. Viviamo in un mondo sempre più visibile e con sempre più problemi”.
Secondo de Kerckhove questa transizione “è sì un rischio ma anche un potenziale investimento: stiamo passando dagli Ugc (User generated content) agli Uge (User generated employment), una transizione che ha portato fenomeni nuovi come la sharing economy e il crowdfounding, strumenti ancora neonati ma dall’enorme prospettiva di diffusione futura. Importantissima anche la questione dei ‘big data’ – ha continuato – che ci aprono un mondo di possibilità, così come le stampanti 3d”.
Spazio infine per un’ultima (e ancora una volta pessimista) considerazione sull’Italia, a detta di de Kerckhove “da sempre brava nel rimembrare il passato, pessima nel gestire il presente e ancora peggio il futuro. Se questo Paese non sarà in grado di staccarsi dalle proprie origini ed innovarsi, non bisognerà stupirsi se le persone continueranno ad andarsene”.

Impresa e responsabilità sociale.
Quando c’era l’Olivetti

(Pubblicato il 21 maggio 2015)

La notizia compariva qualche giorno fa in un breve articolo su un sito specializzato [vedi], con un titolo che oltretutto andava decodificato per poter comprendere il senso di quanto veniva raccontato. Il succo è che, come in un gioco di echi, l’Olivetti muore di fatto un’altra volta. La Telecom, padrona del marchio, ha infatti annunciato, con l’abusata e vieta scusa di volerlo rilanciare, che degli attuali 500 dipendenti ne rimarranno solo 200, mentre gli altri verranno impiegati in altre aziende del gruppo o prepensionati. Per dare un senso di prospettiva ricordo che a livello mondiale l’Olivetti dava lavoro nel 1989 a circa 57.000 persone, di cui la metà in Italia, scese a 30.000 nel 1995, quando ormai la crisi dell’azienda aveva raggiunto, a fronte delle scelte della proprietà e della miopia della politica, il punto di non ritorno. Quei 200 superstiti quindi e prevedibilmente ancora per poco sono quanto rimane oggi di un’azienda che ha rappresentato per decenni un’eccellenza italiana, non solo dal punto di vista della capacità di innovare, che l’ha portata ad essere alla fine degli anni ‘80 il leader indiscusso dell’industria informatica europea, ma anche per i modelli avanzati di organizzazione del lavoro e di rapporto fra le strutture produttive ed i territori in cui erano insediati i suoi stabilimenti. Da questo punto di vista l’Olivetti ha rappresentato per alcuni decenni l’immagine duale della Fiat: quanto più a Torino prevalevano logiche repressive e di sfruttamento, così ad Ivrea, ad appena 40 km di distanza, l’azienda realizzava servizi sociali d’avanguardia in fabbrica e sul territorio e sosteneva modifiche importanti all’organizzazione del lavoro operaio, pagando salari più elevati e superando già a partire dagli anni ’70 la catena di montaggio [vedi].
Intendiamoci l’Olivetti di cui parlo ed in cui ho iniziato a lavorare nel 1982, giovane ingegnere elettronico partito dalla natia Ferrara carico di ideali e di speranze, non era già più da un pezzo quella di Adriano, morto nell’ormai lontano 1960 e non era nemmeno più quella delle macchine per scrivere e da calcolo meccaniche, oggetti quasi magici che ne avevano fatto la fortuna nel mondo. Era invece un azienda che, dopo una lunga crisi (di idee, di capitali, di gestione) durata almeno fino alla metà degli anni ’70, aveva imboccato con decisione la strada dell’innovazione, che inglobava già nei suoi prodotti le più recenti evoluzioni dell’elettronica e della nascente industria informatica e che rappresentava nel panorama italiano, nonostante le scellerate dismissioni di alcuni settori di ricerca avanzata avvenute durante il lungo periodo di gestione incerta e poco lungimirante successivo alla morte di Adriano, la punta di diamante della ricerca e dello sviluppo nell’informatica professionale.
Se nel breve volgere del primo quinquennio degli anni ’90 quella grande realtà industriale si è di fatto progressivamente dissolta lo si deve a scelte sbagliate da parte di una proprietà, che è sempre stata maggiormente attratta dalla rendita finanziaria piuttosto che dallo sviluppo industriale, e dall’incredibile miopia ed arretratezza della politica, occorre dirlo sia di destra che di sinistra, nonché per certi versi anche del sindacato nazionale, che al massimo vedeva nella crisi dell’azienda un mero problema di salvaguardia dell’occupazione, senza cogliere fino in fondo l’importanza di avere in Italia un’industria informatica all’avanguardia, proprio nel momento in cui l’esplosione di internet stava cambiando tutto.
Un documento del 1996, redatto dalla Rsu, quando ormai era chiaro che tutte le residue risorse dell’azienda erano ormai interamente riversate nel mercato nascente della telefonia mobile (Ominitel), schematicamente sviluppava in un documento inviato alla politica il seguente ragionamento:
Senza titolo-1
Le scelte che seguirono, era entrato nel frattempo in carica il primo governo Prodi con Bersani all’Industria, assecondarono invece completamente la scelta della proprietà di abbandonare l’informatica a favore dell’investimento nelle TLC, che peraltro, come qualcuno aveva previsto, l’azienda non fu in grado di sostenere fino in fondo, al punto che dovette cedere nel 1999 la nuova divisione Tlc (cioè Omnitel e Infostrada) alla tedesca Mannesmann, poi a sua volta acquisita da Vodafone qualche anno dopo. C’è da dire che, almeno, sul piano dell’occupazione, nonostante i tagli ingentissimi di personale e grazie alla concessione di ammortizzatori sociali ad hoc, tutti i lavoratori trovarono una collocazione nelle società di Tlc del gruppo, in alcuni uffici della Pubblica Amministrazione oppure godettero di scivoli particolarmente vantaggiosi (fino a 7 anni) verso la pensione. Se può interessare a qualcuno, il giovane ingegnere di belle speranze di cui sopra, un po’ meno giovane, trovò una sistemazione nell’appena costituita Infostrada dove imparò un nuovo mestiere.
La fine ingloriosa dell’Olivetti è in sostanza una delle tante storie italiane di questo ultimo trentennio, fatta di ubriacatura finanziaria, passi più lunghi della gamba, assenza di politiche industriali e di scelte politiche in grado di immaginare gli interessi del Paese nel medio periodo.

Oggi di quell’esperienza, come visto, non rimane praticamente nulla, così come ancor meno, tolti i notevoli fabbricati industriali, le scuole e le sedi di mense e centri sanitari progettati dai migliori architetti dell’epoca, rimane della fase precedente, quella di Adriano, che aveva dimostrato, anche negli anni feroci del dopoguerra, come fosse possibile un diverso modo di fare impresa e di concepire la fabbrica come una vera e propria comunità. Molto si è discusso attorno a quel modello, che grazie all’iniziativa del suo ideatore aveva coinvolto nella gestione dell’azienda e nella pianificazione del suo futuro numerosi ed importanti figure di artisti e di intellettuali. Molti a sinistra di quell’esperienza criticavano l’aspetto paternalistico, che in qualche misura era presente, e lo stemperamento del conflitto sociale all’interno di un contesto aziendale “buono” ma fortemente delimitato, mentre semmai per chi lavorava nell’indotto la musica era ben altra.
Alcune cose hanno continuato a funzionare anche negli successivi: la rete di servizi sociali e sanitari per i dipendenti, dall’asilo nido di fabbrica alle visite mediche specialistiche completamente gratuiti, la fitta rete di trasporti, anch’essi gratuiti, che collegava le fabbriche con tutti i paesi del circondario. La biblioteca composta da svariate decine di migliaia di volumi annessa alla mensa – per me fu una vera sorpresa, aperta durante l’ora dei pasti in modo che chi voleva poteva prendere a prestito i libri, e le tante iniziative culturali sul territorio.

Al giorno d’oggi qualcosa che in qualche modo assomiglia a quel tipo di esperienza lo ritroviamo, non a caso, nelle maggiori aziende tecnologiche americane (Google, Microsoft, Amazon, Facebook, ecc.) all’interno delle quali esistono grandi spazi di flessibilità “buona” (cioè vantaggiosa per il lavoratore) e servizi di ogni tipo di qualità elevatissima. Qualcosa di analogo si ritrova, sia pur tenendo conto delle differenze culturali in gioco, anche in alcune grandi aziende asiatiche. La cosa che hanno in comune tutte queste aziende, oltre a dover attrarre le migliori professionalità presenti sul mercato e di operare in settori di tecnologia avanzata, ha a che fare con la loro struttura economica: si tratta infatti di grandi “macchine per fare soldi” che esibiscono fatturati e, soprattutto, margini elevatissimi. Anche l’Olivetti dei tempi di Adriano era più o meno nelle medesime condizioni: un’azienda in cui entravano materie prime di basso costo, come ad esempio il banale lamierino di ferro, ed uscivano macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche ineguagliate. I ricarichi sui prezzi finali erano perciò molto elevati, così come di conseguenza lo erano i profitti. Questo ovviamente nulla toglie alle bontà delle intuizioni di Adriano né alla sua scelta altamente meritoria di ridistribuire sotto forma di servizi quote ingenti di un profitto che molti altri avrebbero invece semplicemente tenuto per sé, ma indica a mio parere una regola di carattere generale importante. Imprese impegnate a competere al centesimo sui prezzi e sui costi con i concorrenti o in condizioni economiche precarie ben difficilmente possono decidere di destinare risorse significative al miglioramento della qualità della vita dei propri dipendenti, oltre a quanto previsto da leggi e contratti di lavoro, anche al di là delle intenzioni della proprietà e del management. Solo in una struttura industriale moderna, che operi in settori innovativi caratterizzati da margini e tassi di sviluppo elevati, è possibile immaginare di poter trovare aziende “alla Olivetti”.

IL DOSSIER SETTIMANALE
Imprese possibili, aziende responsabili

Viviamo in una realtà altamente complessa, popolata da differenti forme e popolazioni organizzative, che nel loro insieme numericamente sterminato, costituiscono buona parte dell’ambiente sociale nel quale viviamo: tra di esse è venuta assumendo grande centralità ed importanza l’azienda. In termini sociologici possiamo pensare alla forma azienda come all’insieme di persone e di mezzi coordinati obbligatoriamente per raggiungere i fini economici di un’impresa, ovvero di un’attività organizzata a proprio rischio per produrre o scambiare beni o servizi.
L’ecologia di queste specie organizzative, ovvero il rapporto che questi organismi intrattengono tra di loro e con il loro ambiente, ci mostra sistemi di relazione molto complessi, resi intricati dalla compresenza di soggetti economici e giuridici diversi, dalla diversità dei fini e dei tipi di attività economica, dalle dimensioni estremamente variabili e dalle origini geografiche e dalle culture di origine.

Così, ogni giorno, entriamo in contatto con prodotti e servizi generati dalle grandi aziende industriali automatizzate che agiscono su scala globale, acquistiamo beni dalle piccole aziende ancorate al livello locale, interagiamo in qualità di consumatori con aziende a proprietà familiare o personale, con imprese cooperative non profit e con grandi società per azioni quotate in borsa.
Nel capitalismo attuale il peso delle grandi aziende profit è un fattore preminente della trasformazione automatica e tecnicamente irresponsabile della società in nome della crescita illimitata. La tensione secolare tra capitale e lavoro si è risolta negli ultimi decenni a deciso vantaggio del primo con la drammatica finanziarizzazione dell’economia e l’aziendalizzazione di interi strati della società.
Nelle sue forme estreme, con il pensiero neoliberista dominante, il fine economico dell’impresa è stato ridotto a quello esclusivo di massimizzare il profitto degli azionisti negando con ciò ogni altro riferimento a forme di responsabilità sociale e ambientale, viste come forme di indebita intromissione negli efficienti meccanismi aziendali. Fermo restando il rispetto di leggi e norme vigenti, peraltro ampiamente orientabili attraverso politiche di lobbying, le ricadute negative dell’attività di impresa semplicemente sono esternalità di cui l’impresa non è responsabile.
Opposti a questo pensiero mainstream esistono però approcci differenti che mettono in risalto il ruolo sociale dell’azienda, la sua capacità di produrre valore che vada al di la del mero aspetto economico. Proprio in Italia l’esperienza di Adriano Olivetti ha rappresentato una formidabile esperienza capace di coniugare in modo esemplare comunità ed economia, società e finanza, gerarchia e partecipazione, equità e profitto, cultura ed efficienza.

Oggi, mentre la tecnologia attraverso l’automazione e la digitalizzazione sta potenzialmente liberando l’uomo dall’obbligo del lavoro, consentendo di produrre sempre di più con sempre meno manodopera, bisogna ripensare al ruolo e al fine della forma azienda in un modo nuovo. Soprattutto bisogna pensare a un ambiente di vita dove il lavoro stesso assume nuovi connotati che si delineano come molto diversi rispetto a quelli della vecchia società industriale. Servono ora nuove imprese socialmente e ambientalmente responsabili capaci di contribuire direttamente ed indirettamente alla creazione di capitale sociale e non solo finanziario. Ma perché queste possano prosperare servono anche consumatori responsabili, impegnati nel premiarle attraverso i loro comportamenti d’acquisto

Imprese possibili, aziende responsabili – vedi il sommario