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3. SEGUE. “L’Aip ritiene opportuno intervenire per rasserenare il dibattito nazionale sui temi della diffusione degli studi di genere e orientamento sessuale nelle scuole italiane e per chiarire l’inconsistenza scientifica del concetto di ‘ideologia del gender’. Esistono, al contrario, studi scientifici di genere, meglio noti come Gender Studies che, insieme ai Gay and Lesbian Studies, hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza di tematiche di grande rilievo per molti campi disciplinari (dalla medicina alla psicologia, all’economia, alla giurisprudenza, alle scienze sociali) e alla riduzione, a livello individuale e sociale, dei pregiudizi e delle discriminazioni basati sul genere e l’orientamento sessuale”. Con questo documento ufficiale “Sulla rilevanza scientifica degli studi di genere e orientamento sessuale e sulla loro diffusione nei contesti scolastici italiani” nel marzo scorso l’Associazione Italiana degli Psicologi ha preso posizione di fronte alle iniziative e alle mobilitazioni su scala locale e nazionale che tendono a etichettare gli interventi di educazione alle differenze di genere e di orientamento sessuale nelle scuole italiane, come pretesti per la divulgazione di una cosiddetta “teoria del gender”. Il documento continua affermando che i risultati empirici di questi studi “mostrano che il sessismo, l’omofobia, il pregiudizio e gli stereotipi di genere sono appresi sin dai primi anni di vita e sono trasmessi attraverso la socializzazione, le pratiche educative”; per questo inserire programmi di educazione sessuale e progetti riguardanti il genere e l’orientamento sessuale “non significa promuovere un’inesistente “ideologia del gender”, ma fare chiarezza sulle dimensioni costitutive della sessualità e dell’affettività, favorendo una cultura delle differenze e del rispetto della persona umana in tutte le sue dimensioni e mettendo in atto strategie preventive adeguate ed efficaci capaci di contrastare fenomeni come il bullismo omofobico, la discriminazione di genere, il cyberbullismo”.
Il nostro secondo incontro è con il dottor Nicola Corazzari, psicologo e psicoterapeuta che lavora negli ambiti della psicologia dello sviluppo, dell’educazione e scolastica e della psicologia della violenza, collaborando con Promeco e con il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti.

Partiamo dai concetti di identità sessuale biologica e identità di genere. Esiste una teoria o, ancora peggio, un’ideologia del gender che considera la persona umana “un’entità astratta, modellabile nel tempo in base al desiderio e alla libera scelta dell’orientamento sessuale”, come scritto nella mozione approvata dal Consiglio Regionale della Basilicata?
Credo che nella nostra cultura nascere maschio e nascere femmina comporti inizialmente un dato di fatto biologico: maschio e femmina sono diversi, come è diverso avere occhi azzurri o marroni, capelli biondi o castani, essere alti o bassi. Noi nasciamo che differiamo dagli altri. Su questa differenza c’è un carico culturale. Il fatto che si nasca maschio o femmina ha delle attribuzioni socio-culturali diverse, perciò sul sesso biologico c’è un elemento educativo, sociale e di cura e attenzione specifico. Lo vediamo per esempio quando una donna rimane incinta per la seconda volta: dopo aver avuto un maschio si può pensare “speriamo che sia femmina così è più tranquilla”, viceversa dopo aver avuto una femmina il padre può pensare “speriamo che sia maschio così porterà avanti il mio nome”. Essere maschi ed essere femmine non comporta solo una differenza oggettiva, ma su questa c’è una potentissima lettura socio-culturale che nel suo aspetto ‘sbagliato’ attribuisce alla mascolinità e alla femminilità caratteristiche statiche. Se femmina, ci si aspetta che giochi con le bambole e a una certa età si sposi con uomo e abbia dei figli, smettendo di lavorare per occuparsene: quindi in quanto ‘donna’ avrà delle caratteristiche specifiche che hanno a che fare con la cura, con ‘l’occuparsi di’. Se non è così, perché per esempio sceglie di non fare figli o le piacciono le donne, continuamente dovrà rinegoziare la propria identità rispetto all’identità sociale.
Il nostro mondo respira quest’aria secondo la quale essere maschio significa avere certe caratteristiche, essere femmina significa averne altre. Le donne hanno riflettuto su questo grazie al femminismo, mentre non c’è stato un maschilismo nel senso di riflessione del maschio sul sé sociale; perciò soprattutto nell’adolescenza, quando i ragazzi cominciano a scoprire e vivere cose di sé che non rientrano in quei binari di genere che hanno respirato, possono incontrare una società contro cui sbattono e in realtà hanno già loro internamente una società che li respinge.

E riguardo la teoria del gender?
La teoria gender non esiste, cioè non c’è nessuna ragione scientifica per cui essere maschi o essere femmine comporti per forza un movimento in una direzione. E, se vogliamo parlare dal punto di vista educativo, non ci sono teorie che ci dicano che se si educa un bambino alla parità di genere, non sottolineando l’appartenenza di genere, questo bambino crescerà peggio o meglio degli altri. Se di fronte a un gruppo di giocattoli un maschio prende una bambola, non c’è nessuna evidenza che se noi la sostituiamo con un carrarmato crescerà ‘maschio’, come non c’è nessuna dimostrazione che avendo scelto la bambola poi scopra di essere gay piuttosto che eterosessuale.
Secondo me c’è una fissazione sulla sessualità: è come se fossero tutti preoccupati del garantirsi che il rapporto sessuale avvenga in modo diciamo ‘tradizionale’. Ma il tema della sessualità arriva molto dopo in termini connessi al piacere e alla procreazione. Il bambino ha piacere di giocare sperimentando tanti ruoli diversi, perché da qui passa la costruzione dell’identità. C’è tutta una visione fobica dietro per cui è meglio che il maschio cresca giocando con i carrarmati, come se questo proteggesse dal fatto che un giorno quel bambino potesse scoprirsi omosessuale.

A questo proposito, si può dire che ci sia un punto del percorso evolutivo in cui avviene questa ‘scoperta’, o forse sarebbe meglio dire ‘presa di coscienza’? Lo chiedo perché le critiche ai progetti di educazione sessuale e riguardanti il genere e l’orientamento sessuale riguardano anche l’età degli studenti cui sono rivolti.
È una cosa che non capisco: perché bisogna andare a capire quando una persona comincia a pensare che è omosessuale o eterosessuale? Mi chiedo perché interessa? Interessa perché la sessualità preoccupa. Forse sarebbe più interessante capire quando il bambino scopre il piacere delle cose e tra i vari piaceri relazionali ci può essere anche il sentirsi attratto da una situazione piuttosto che da un’altra: io non credo che le persone siano per forza solo eterosessuali e che si possa definire una persona, uomo o donna, solo in base al suo orientamento sessuale. Andare a cercare un momento in cui ci si scopre omosessuali o eterosessuali penso sia un’esigenza un po’ fobica.

Prospettare la libertà di scegliere la propria identità e di cambiarla a seconda dei propri sentimenti significa abbandonare le persone “all’angoscia dell’indefinitezza”?
È esattamente il contrario: un bambino che cresce in un contesto che non ascolta e non legge le sue specificità, cresce come un bambino conforme e quindi irriconosciuto a sé stesso e al mondo in cui vive.

È possibile che le famiglie non vengano informate sui contenuti dei progetti di educazione sessuale e riguardanti il genere e l’orientamento sessuale?
No, tutte le famiglie che portano i propri figli in qualsiasi scuola di ogni ordine e grado vengono informate attraverso il Piano dell’offerta formativa di tutte le attività che vengono svolte.
La questione interessante, secondo me, è capire quali progetti vengano scelti, perché ci sono progetti più connotati politicamente, per me sempre pericolosi, e progetti più connotati dal punto di vista educativo: rispondenti a una società che cambia, con valori non ideologici, ma di riconoscimento e rispetto della diversità.

A suo parere come si costruisce una scuola inclusiva, in cui non ci sia più posto per il bullismo omofobico?
Abbiamo ancora molto da fare, ma nello stesso tempo le cose sono molto semplici: se c’è la volontà di aprirsi alle libertà si fa. L’educazione è tutto perché ci si contagia positivamente. Pensi al fatto che ancora pochi anni fa nessuno faceva la raccolta differenziata dei rifiuti e nessuno sapeva come fare, si è lavorato con i bambini nelle scuole e ora le cose sono molto cambiate, c’è un altro tipo di sensibilità.

3. CONTINUA [leggi la quarta parte]

Leggi la prima, la seconda parte

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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