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2. SEGUE – Il tema del bullismo omofobico è poco indagato. Nelle ricerche, non solo italiane, questa assenza pesa ancora di più se si pensa che rappresenta una componente rilevante del fenomeno. E’ necessario fare riferimento a una ricerca condotta prima del 2010: l’indagine Schoolmates, condotta nel biennio 2006-2008 da Arcigay grazie ad un cofinanziamento della Commissione Europea, che ha trattato di percezione del bullismo di stampo omofobico in ambiente scolastico in quattro Paesi, l’Italia, la Spagna, l’Austria e la Polonia.
Qui più di un intervistato su tre dichiara di sentire spesso o continuamente a scuola termini offensivi nei confronti dell’omosessualità rivolti a studenti maschi. In Italia il clima è relativamente peggiore. I protagonisti sono soprattutto gli studenti maschi (95,0% nel campione europeo e 96,5% in quello italiano), anche se non va sottovalutato il ruolo, meno visibile a livello sociale, delle studentesse (56,2% e 62,2%). Per quanto riguarda invece i tempi e i luoghi, sono soprattutto quelli ‘interstiziali’ rispetto alla lezione vera e propria i contesti in cui e durante i quali questo fenomeno si sviluppa con maggior frequenza. In Italia solo il 25,8% degli intervistati dichiara di aver sentito insulti durante le lezioni in classe (33,8% in Europa), dato che sale al 60,5% tra una lezione e l’altra o durante l’intervallo (80,4% in Europa); inoltre, a fronte del 49,8% che le ha sentite in classe, l’89,1% le ha invece percepite nei corridoi, nei giardini o negli spazi comuni.

Ma cosa si intende per bullismo omofobico e quali sono le sue specificità? Si parla di ‘bullismo’ quando siamo di fronte a una relazione di abuso di potere in cui avvengono dei comportamenti di prepotenza in modo ripetuto e continuato nel tempo, tra ragazzi non di pari forza, dove chi subisce non è in grado di difendersi da solo. Il bullismo omofobico riguarda le prepotenze e gli abusi che si fondano sull’omofobia, rivolti a persone percepite come omosessuali o atipiche rispetto al ruolo di genere. I bersagli perciò possono essere molteplici: non solo adolescenti che apertamente si definiscono gay o lesbiche, ma anche adolescenti che ‘sembrano’ omosessuali sulla base di una percezione stereotipica o che frequentano amici apertamente omosessuali; adolescenti con fratelli, sorelle o genitori omosessuali o che hanno idee e opinioni favorevoli alla tutela dei diritti omosessuali.

Alberto Urro
Alberto Urro di Promeco

A Ferrara dal 1995 a occuparsi di prevenzione e contrasto del bullismo c’è Promeco, centro istituito da Comune, Azienda sanitaria locale, Ufficio scolastico provinciale e Provincia di Ferrara per occuparsi di prevenzione del disagio giovanile: attualmente il servizio opera in 34 istituti medi e superiori in città e in provincia. Abbiamo parlato di bullismo omofobico e ‘teoria del gender’ con uno dei suoi operatori: l’educatore e counsellor Alberto Urro.

Qual è la situazione a Ferrara? Per esempio, il caso dell’aggressione di inizio settembre in corso Porta Reno può essere classificata come caso di bullismo omofobico?
Un atto di prevaricazione singola che ha anche uno sfondo omofobico non può essere definito un atto di bullismo, che si distingue per la reiterazione dei comportamenti. Noi abbiamo una cultura che è abbastanza ‘bulla’, non solo sul versante della sessualità, ma sulla diversità in senso più ampio. Tendenzialmente stiamo regredendo rispetto al passato, probabilmente perché la diversità la stiamo toccando con mano, a volte la stiamo subendo dal punto di vista culturale perché non abbiamo gli strumenti per poterla masticare. Quindi c’è una chiusura, una retroazione perché è più facile avere paura della diversità piuttosto che iniziare a pensare che siamo in una società che si si sta muovendo rapidamente e sta cambiando. C’è un retroterra di cultura che sta arretrando: forse stiamo pensando agli affreschi quando in questa casa manca il tetto.
Per quanto riguarda l’atto odioso di Porta Reno, noi come Promeco non ci muoviamo solitamente sulla cronaca: manteniamo un costante monitoraggio sulle azioni che facciamo con lo scopo di migliorare la qualità delle relazioni come antidoto principale a questi fatti. A Ferrara abbiamo intercettato situazioni di bullismo omofobico nelle scuole, ma per quanto riguarda il nostro osservatorio non è qualcosa con cui dobbiamo avere quotidianamente a che fare.

Come si è intervenuti nei casi che avete individuato?
Intercettare situazioni di prevaricazione non è semplice, in genere c’è qualcuno che dice qualcosa a qualcun altro e quel qualcuno non è quasi mai la vittima, ma un esterno che osserva atti che si ripetono nel tempo. Noi interveniamo sempre in maniera molto delicata, prima di tutto cerchiamo di capire se siamo di fronte a una vicenda percepita come bullismo, ma non è effettivamente così, oppure se c’è effettivamente qualcosa di vero, oppure ancora se quanto riferito è solo la punta di un iceberg, con prepotenze che durano da anni. Nel momento in cui accertiamo episodi di prevaricazione abbiamo diverse strade. Se ci sono livelli di prevaricazione molto elevati, che mettono in pericolo l’incolumità non solo psichica, ma anche fisica della vittima, una di queste strade è quella legale, segnalando la cosa a chi di dovere. Un’altra strada è agire sul contesto relazionale, potenziando l’ambito dei ‘fattori protettivi’ e cominciando così a smontare le dinamiche di potere su cui agisce il bullo. Poi si arriva al sostegno diretto alla vittima e alla riparazione, anche con il bullo stesso che in genere è anch’esso portatore di difficoltà e disagio. Infine, ma non meno importante, c’è la fase del monitoraggio del cambiamento.

Parliamo ora dei documenti contro quei progetti di educazione all’affettività e alla sessualità che introdurrebbero a scuola la cosiddetta ‘teoria del gender’…
Dentro le scuole come Promeco non ci siamo mai occupati in maniera specifica di queste problematiche, ammesso che siano problematiche: abbiamo sempre cercato di sostenere e supportare gli istituti nel rispetto di una dinamica educativa preesistente. A volte mi è capitato di affrontare delle situazioni di imbarazzo riguardo a tematiche che avevano a che fare con l’affettività e con la commistione di aspetti legati all’affettività oppure alla sessualità. Ma noi non entriamo ‘a gamba tesa’ su questi aspetti che hanno a che fare con i valori cardine di ogni famiglia, il nostro è un lavoro di sostegno alla crescita.
Per quanto riguarda il discorso del gender, devo dirle che, leggendo il materiale che mi ha inviato (la mozione contro l’introduzione della teoria del gender votata a fine luglio in Basilicata, ndr), mi sembrano cose che vanno un po’ sopra le teste dei ragazzi. Non ho mai trovato in nessun ragazzo e nessun collega mi ha mai riportato un interesse per l’identità di genere in questi termini, un po’ troppo mediatici e strumentali.

Quindi a suo parere nelle scuole non viene introdotta una teoria del gender che afferma “che le differenze biologiche fra maschio e femmina hanno poca importanza”, e che vorrebbe “come imposizione dall’alto” che tutti noi “compresi i bambini” non dicessimo più “io sono maschio” o “io sono femmina”, ma “io sono come mi sento”, come si scrive nel documento approvato dalla Regione Basilicata.
Assolutamente, anzi. Però vanno distinti bene i due filoni: noi siamo per valorizzare la differenza nelle relazioni e il fatto che ogni persona ha il diritto di manifestare la propria differenza senza che questo diventi un tema ghettizzante. Ma non andiamo a incidere sulle scelte valoriali e culturali che guidano le scelte delle famiglie.
A volte si utilizzano strumenti e si parte da determinati contenuti per arrivare a trattarne altri: questo però e un classico del mondo degli adulti, non di quello dei bambini o degli adolescenti. Questa manipolazione strategica che ha l’adulto forse è presente anche in questo documento. Se questa teoria gender vuole portare avanti un’istanza di maggior riconoscimento dei diritti di coloro che hanno una modalità diversa di stare nelle relazioni con i propri simili, maschio o femmina che siano, questa parte la riconosco. Non credo molto al “ti insegno a essere altro”, molto meglio “ti insegno a riconoscere l’altro”. Io credo perciò che noi dobbiamo lavorare perché le persone crescano in una cultura capace di accogliere la differenza.

Una dichiarazione, a mio parere grave, che compare nella mozione è che questi “programmi di indottrinamento” verrebbero introdotti nelle scuole con un “inganno voluto dalla disinformazione sul tema” perché le famiglie “non hanno neanche idea di cosa sia questa “teoria del gender” e di cosa si vuole insegnare”. È così?
Assolutamente no. Esistono principi di trasparenza e di deontologia che ci impongono la condivisione come metodologia e sistema di approccio. Perciò nelle scuole, essendo minori, persone plasmabili da un certo punto di vista, prima di partire con dei progetti dobbiamo avere una condivisione profonda con le famiglie, ci deve essere fiducia da parte loro. I nostri interventi vengono sempre svolti a 360°, lavorando con gli studenti, con i docenti e con le famiglie, proprio per questo c’è una progettazione condivisa. Come servizio pubblico lavoriamo con protocolli, con programmazioni e rendicontazioni che ci danno la possibilità di capire cosa andiamo a fare, come lo facciamo e ad ogni passaggio vengono verificate e valutate le cose che stiamo facendo.
Che ci siano istanze tradizionaliste che pensano che la famiglia fatta da uomo e donna è l’unica famiglia possibile, secondo me, è comunque da tenere in considerazione perché fa parte della nostra storia culturale. Dopodiché siamo in una società dove, per una serie di altre questioni più complicate, la famiglia è diventata anche altro. Quello che il nostro lavoro ci permette di dire è che i figli di famiglie tradizionali hanno identiche problematiche rispetto a quelli di famiglie con caratteristiche diverse: questo è un dato di fatto. Quindi la famiglia tradizionale dove ci sono una mamma e un papà non è la panacea.

“Infine – si sostiene nella mozione – questo tipo di insegnamento oggettivamente confonde e ferisce la crescita e l’innocenza dei bambini”. Esiste questo tipo di rischio?
I bambini e i ragazzi hanno bisogno di maschile e di femminile, ma il maschile e il femminile non sono per forza dentro un maschio e una femmina. Inoltre i compiti evolutivi non sono strettamente legati solamente all’educazione, c’è una multifattorialità, come dimostra il classico esempio dei gemelli che, anche se educati in modo identico, hanno un approccio alla vita diverso. L’unicità insita in ciascuno di noi cambia il modo di vedere e sentire cose identiche.
Dobbiamo usare strumenti dinamici perché è dinamica la crescita dei ragazzi. È importante rispettare gli aspetti evolutivi, perché in ogni aspetto evolutivo ci sono capacità diverse di apprendere le cose. Per esempio non me la sentirei di parlare di una tematica di questo genere con bambini di quarta elementare, ma lo farei con ragazzi più grandi; con i bambini però si può già parlare di diversità in generale.
Il buon approccio educativo è quello che cerca di fare in modo che le persone crescano in un ambiente tendenzialmente non giudicante, che dà la possibilità a tutti di esprimere con libertà i propri dubbi, le proprie necessità. Ecco, un aspetto che va valorizzato è che adesso ci sono famiglie che danno un accesso alla discussione rispetto a certe cose, mentre una volta non se ne poteva parlare con i genitori. Ed è proprio il non potersi confrontare con un adulto di qualità sui propri dubbi a poter creare problemi.

Prima di lasciarci, Urro sottolinea: “Dal punto di vista della cultura dobbiamo fare di più. Dobbiamo capire quale cultura vogliamo creare: una cultura di apertura o di chiusura? Siamo in grado di pensare la nostra società come una società ‘multi’? Secondo me in questo momento no e quindi dobbiamo lavorare per fare in modo che la diversità non venga vissuta come un pericolo, rispettando la singolarità e l’originalità di ogni persona, senza entrare nel mondo valoriale di ciascuno, che è la zona più a rischio di divisioni”.

2. CONTINUA [leggi la terza puntata]

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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