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Oltre confine, in Africa, in Etiopia, la data italiana del 25 Aprile 1945 e la celebrazione della giornata di Festa Nazionale per la democrazia, la libertà e l’indipendenza contro il fascismo, la dittatura e la guerra, ha un sinonimo nel 5 Maggio 1941 e un contrario nel 19 Febbraio 1937.
Ciò che emerge dalla corrispondenza tra le giornate di
Festa per la Liberazione Nazionale – sia della Repubblica Italiana che della Repubblica Federale Democratica d’Etiopia e dalla discordante Giornata di Lutto Nazionale in memoria delle vittime dei massacri compiuti dal colonialismo italiano -, è che i cittadini della Repubblica Italiana e della città di Ferrara non hanno ancora fatto i conti con il proprio passato coloniale.
La nascita, l’affermazione, la sconfitta e le conseguenze politico-sociali imposte dal regime dittatoriale fascista continuano ad essere giustamente ricordate ma solo a metà con il risultato che le dominazioni in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia non sono mai entrate nel dibattito pubblico nazionale e il popolo italiano è rimasto l’unico a non fare i conti con il proprio passato coloniale, razzista e militarista.
Sarebbe come dire che il colonialismo e il razzismo italiano non si sono mai seduti sul lettino dello psicanalista autoconsiderandosi malati immaginari o tuttalpiù alunni indisciplinati volutamente assenti da ogni lezione di storia.
Un’accettazione più ampia nella nostra coscienza di un passato scomodo da digerire come invasori, colonizzatori e imperialisti, oltre che di fascisti, forse ci darebbe la volontà di guardare al presente e al futuro del nostro paese con occhi diversi e ci consentirebbe di comprendere che l’oppressione è un meccanismo perverso, biunivoco e onnivoro che non finisce quando la vittima se la scuote di dosso, ma quando la ripudia anche il carnefice.

I cittadini della Repubblica Italiana e di Ferrara non hanno mai fatto i conti con il proprio passato coloniale e non intendono farlo nemmeno ora che il resto dell’Occidente lo sta facendo per capire l’origine dei fatti che hanno scatenato le proteste del movimento Black Lives Matter, nemmeno ora che il Mare Mediterraneo si è trasformato in un mare di morte per migliaia di profughi civili e neanche adesso che Ferrara rischia di tornare ad essere una città-ghetto intollerante e razzista.
Tutti sembriamo esserci dimenticati che per 75 anni, dal 1885 al 1960, il nostro Paese ha dominato militarmente gli abitanti di quattro Stati africani: Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia oltre che Albania, Dodecaneso, Seseno e Anatolia.
Quella stagione, iniziata 115 anni, fa non è mai entrata davvero nella nostra conoscenza e nella nostra coscienza.
Il 23 ottobre 2006 un piccolo gruppo di deputati ha presentato alla camera una proposta di legge, non approvata, per istituire un “Giorno della memoria in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana”, in riferimento alle oltre 500mila vittime della dominazione.

Nel luglio del 2019 il Sottosegretario di Stato al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale del Movimento Cinque Stelle, Manlio Di Stefano, ha scritto su Facebook che “non abbiamo scheletri nell’armadio, non abbiamo una tradizione coloniale, non abbiamo sganciato bombe su nessuno e non abbiamo messo il cappio al collo di nessuna economia”. Forse nega che l’Italia sia stato un Paese coloniale perché non ha subìto un processo di Norimberga, nonostante sia stata accusata dall’ONU di aver commesso crimini di guerra su popolazioni civili.
Forse perché non ha letto le opere di Jean Paul Sarte o di Frantz Fanon. Forse perché il suo movimento politico e gli altri partiti politici italiani non hanno mai avuto come oppositori e antagonisti un Nelson Mandela o un Ghandi o non sono stati in grado di comprendere la statura morale di un Haile Selassiè o la dignità di un Omar el Mukhtar.
O forse perché l’Italia ha invece avuto Indro Montanelli e Ferrara Nello e Folco Quilici.

Palermo, nella notte del 6 marzo via Indro Montanelli è stata trasformata in via Destà.  Un’azione dei gruppi Fare Ala, Crvena e H.

Indro Montanelli, volontario nella guerra di Etiopia, così si esprimeva nel 1936: ”Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà”.
Successivamente, Montanelli divenne antifascista prima che la seconda guerra mondiale finisse e ciò gli costò la prigione e il rischio di essere fucilato. Ma questo non gli impedì, quasi alla fine della sua lunga vita, quando era diventato un’icona del giornalismo italiano e persino un martire dell’anti-berlusconismo, prima di negare poi di ricredersi in merito all’impiego dei gas nella guerra d’Etiopia.
Non soltanto per un vezzo autobiografico (era stato comandante del 20°battaglione eritreo nel 1935), quanto probabilmente in nome di quel fondo razzista da cui molti intellettuali italiani non sono mai stati immuni.
Montanelli parlava di un esercito italiano mite e cavalleresco, perché lui, avendo partecipato alla guerra in Etiopia, “se lo ricordava così” e di fronte alle inconfutabilità delle prove sull’impiego di gas nervini, persecuzioni, rappresaglie, massacri di civili e religiosi, Montanelli se la cavava sostenendo che, al solito, gli ordini di Mussolini non erano rispettati, e che quindi in Etiopia, in merito a una forma di salvifica negligenza o di ammirevole insubordinazione, non ci fu nessun sterminio.

Folco Quilici, nel sostenere pubblicamente il buonismo dei colonizzatori fascisti, non contava solo su di un vezzo ma anche su di una discendenza autobiografica, essendo figlio di Nello Quilici, giornalista e direttore del quotidiano ferrarese Corriere Padano che, poco prima di rimanere anche lui vittima dell’abbattimento dell’aereo pilotato da Italo Balbo in qualità di Governatore Generale della Libia sui cieli della Cirenaica nei pressi di Tobruk, nel suo saggio La difesa della razza, uscito nel settembre 1938 su Nuova Antologia, manifestò il suo sostegno alle leggi razziali.

Il primo a chiarire perfettamente come l’Italia non abbia mai fatto i conti fino in fondo con il colonialismo e il razzismo della sua storia recente è stato Angelo del Boca, cioè colui che in maniera sistematica ha condotto un’indagine storica dalla quale sono emersi i due poli entro cui circoscrivere un’analisi esaustiva: da un lato la mancata assunzione di responsabilità e non ammissione di colpevolezza; dall’altro l’affermazione di un concetto di razzismo innocuo mosso da esotismo esteriore.
Marie-France Courriol, in Più turista che fascista. Mémoire coloniale et figure du soldat dans le cinéma italien contemporain, (Martine Bovo Romoeuf/ Franco Manai), sostiene che la persistenza e il radicamento, a tutti i livelli della società italiana, del mito degli italiani brava gente, colonizzatori sì, ma non cattivi, vittime loro stessi più che aguzzini e carnefici, trova una patente dimostrazione in due film di successo, che a distanza di anni sono stati comunque tra i pochi – oltre a Tempo di Uccidere di Giuliano Montaldo (1989) tratto dall’omonimo romanzo di Ennio Flaiano (premio Strega nel 1947) – ad affrontare il tema del passato coloniale italiano: Mediterraneo, (1992) di Gabriele Salvatores e Le rose del deserto (2006) di Mario Monicelli.

In realtà esiste un film che parla del colonialismo italiano, ma non è stato prodotto nel nostro Paese.
Si tratta de Il leone del deserto (1981) che racconta la storia di Omar al-Mukhtar il guerrigliero libico che guidò la resistenza anticoloniale contro gli italiani negli anni Venti ed è considerato in Libia, nel Magreb e in gran parte del mondo arabo, un partigiano e un eroe nazionale.
In Italia il cult-film libico/statunitense è stato censurato per decenni, grazie anche al giudizio di Giulio Andreotti. in quanto “lesivo dell’onore dell’esercito italiano”. Solo nel 2009 è stato trasmesso dall’emittente satellitare Sky in occasione della prima visita ufficiale del leader libico Muammar Gheddafi in Italia, che si presentò all’aeroporto di Ciampino accompagnato dall’anziano figlio di al Mukhtar con appuntata al petto la fotografia storica che ne ritraeva l’arresto pochi giorni prima di essere condannato a morte e impiccato.

Omar al Mukthar, “il Leone del Deserto” (foto su licenza commons wikimedia)

“La foto di Al Muktar è come la croce che alcuni di voi portano: il simbolo di una tragedia”: così Gheddafi rispose ai giornalisti che lo interpellavano in merito alla foto. Forse per questo qualcuno si è ricordato che tra il 1929 e il 1930 il Maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani ebbero l’incarico da Benito Mussolini di ‘pacificare’ le due zone della colonia ancora non dominate: il Fezzan e la Cirenaica.
Tradotto: i due militari ebbero il via libera per sterminare brutalmente la resistenza armata libica spopolando intere regioni.
Come riporta Del Boca, per togliere sostegno alla ribellione anti italiana, centomila abitanti che abitavano nelle oasi dell’altopiano di Gebel el-Achdar furono deportati in massa dalla Cirenaica in tredici campi di concentramento allestiti nella zona sabbiosa e inospitale della Sirtica. In gran parte erano donne, anziani e bambini.
Le esecuzioni sommarie per chi si attardava lungo il tragitto forzato di mille chilometri, la mancanza di cibo e di acqua ne portò alla morte la metà e le vittime civili furono cinquantamila.

Questa non è stata la prima deportazione di massa attuata dal governo italiano in Libia. La prima avvenne nel 1912 quando migliaia di ribelli libici considerati pericolosi furono trasferiti in modo coatto in esilio in vari centri di detenzione nelle isole del nostro Paese: le Tremiti, Ustica, Ponza, Ventotene. Lì morirono in molti ammassati in luoghi malsani inadatti a ospitare grandi quantità di persone, un sovraffollamento simile ai centri di identificazione ed espulsione dei migranti di oggi.

Sulla realtà coloniale italiana esiste anche un film mai fatto, in seguito alla censura, denuncia, condanna e all’arresto dei suoi sceneggiatori. Nel febbraio 1953 il numero 04 della rivista Cinema Nuovo, diretta da Guido Aristarco, pubblicò una proposta di film del critico cinematografico Renzo Renzi sulla guerra in Grecia, alla quale prese parte.
Saccheggi, fucilazioni, ma soprattutto vita nei bordelli e conquiste di donne costrette a cedere per fame, ecco, per l’autore, la visione più vera di un conflitto assurdo, condotto con passaggi da operetta, nel quale alcuni soldati, mal guidati, diedero sfogo al tipico istinto maschile italiano: il gallismo, che portò ad indicare le nostre truppe come l’Armata s’agapò che in greco significa Armata ti amo.
Una sceneggiatura pacifista, autocritica, che aprì un dibattito intellettuale su come trasferire sugli schermi la guerra, fuori dalla retorica, ma che sette mesi dopo provocò arresti per vilipendio alle Forze Armate e la traduzione degli inquisiti al Carcere Militare della Fortezza di Peschiera, nell’ambito di un procedimento condotto nei confronti di due cittadini in borghese sulla base della lettura del codice militare del 1941.
Renzi, già sottotenente, e Aristarco, già sergente, entrambi in congedo non definitivo, appartenevano giuridicamente alle Forze Armate e pertanto potevano essere processati dalla giurisdizione militare per un reato previsto non solo dal codice penale ma anche da quello marziale. E nulla cambiava che l’Esercito vilipeso fosse quello di Mussolini e non quello della repubblica democratica perché, per la Procura Militare, la caduta del fascismo non aveva travolto la Patria, che “c’è ora e c’era allora, indipendentemente dalla forma di governo”.
Dopo un mese di detenzione, il processo durò dal 5 all’8 ottobre e la Corte inflisse a Renzi una pena di 7 mesi e 3 giorni di carcere e la rimozione dal grado, ad Aristarco di 6 mesi.
Trentanove anni dopo, nel 1992, Mediterraneo di Gabriele Salvatores, vinse il Premio Oscar quale miglior film straniero, ispirandosi alla sceneggiatura dell’Armata s’agapò di Renzo Renzi.

Da allora non sono pochi gli italiani che ricordano l’avventura della Campagna di Grecia, ma molti di meno sono quelli che hanno idea di cosa fecero gli italiani in Africa Orientale dopo la conquista del 1936 in termini di ‘emergenza erotica’, così definita dal momento che arrivarono decine di migliaia di uomini italiani, soli o liberi dalle spose o compagne rimaste in Italia, che occuparono stabilmente i bordelli locali, frequentando le prostitute indigene e rendendo il fenomeno di gravità tale da  essere considerati inappropriati per un regime che intendeva creare una società coloniale ‘razzialmente pura’.
Il tipo di unione mista più frequente era il cosiddetto madamato cioè la convivenza con una concubina africana in more uxorio. La separazione razziale auspicata dal regime era inoltre solo virtuale poiché la costruzione degli ipotetici quartieri per soli bianchi progettati dal piano regolatore fascista fu lentissima e soprattutto incapace di sostenere la crescente domanda. Non c’erano case per tutti e per questo moltissimi italiani, soprattutto i lavoratori, andarono a vivere nelle capanne pagando affitti agli indigeni e vivendo a stretto contatto.
Non a caso l’inno dei coloni italiani dell’epoca diventò Faccetta Nera, una canzone che rappresenta la sessualizzazione dell’impresa coloniale. “Allo sguardo europeo la donna colonizzata appariva come poco più che un animale e una donna dai costumi facili disponibile e sottomessa, molto diversa dalla donna europea”, spiega Emanuele Ertola in In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza). E continua: “(…) ma a un certo punto, dopo il 1935 il regime iniziò a guardare con sospetto Faccetta Nera perché considerava inaccettabile l’aumento considerevole dei figli italo-africani che a lungo andare avrebbero alterato l’ordine sociale e razziale che richiedeva netta separazione e tra dominatori e dominati”.

Ecco quindi che il regime fece circolare una nuova versione della canzone, con la stessa metrica e musica, ma parole diverse. Il titolo era ‘Faccetta bianca’ e il testo leggermente modificato faceva: «Non voglio più cantar faccetta nera / non voglio più sentir bella abissina / perché la donna nostra è più carina / e piena d’ogni pregio e qualità». E proseguiva con versi quali: «Faccetta nera per carità! / solo la bianca è la regina di beltà».
La canzone fu pubblicata la prima volta su un opuscolo per operai italiani in partenza per l’Africa Orientale Italiana a cura della confederazione fascista dei lavoratori dell’industria, intitolato Orgoglio di popolo nel clima dell’Impero, in cui si catechizzavano gli operai sui danni degli ‘incroci umani’ sia a livello sociale che biologico, per poi arrivare al punto: “le donne bisogna lasciarle stare”. E come? “Innanzi tutto, soffocare gli istinti bruti […] ascoltando la voce gagliarda della propria anima italiana, lasciandone libero il senso di superiorità e di orgoglio che duemila anni di storia e i fatti recentissimi alimentano”.
L’opuscolo cercava di fare ipocritamente appello al rispetto della moralità e della dignità delle donne nere spaventando i bianchi con lo spauracchio delle malattie veneree.

Nel 1937, un anno prima delle leggi contro gli ebrei, il governo italiano promulgò le leggi contro gli uomini e le donne africane per evitare il madamismo e gli incontri promiscui nelle colonie. Scrive Emanuele Ertola: “Il regime cercò anche di importare in Etiopia delle prostitute bianche italiane, oppure convincendo in maniera più o meno spontanea, moltissime impiegate del Ministero delle Colonie ad andare a vivere a lavorare nelle colonie in modo che si popolassero di giovani italiane nubili”.

Milano, statua di Indro Montanelli

Negli ultimi tempi i media, quando hanno parlato di colonialismo, lo hanno fatto per riportare la notizia della statua di Indro Montanelli a Milano che viene regolarmente imbrattata, perché il giornalista raccontò più volte senza pudore di aver comprato come moglie una 12enne durante la campagna d’invasione fascista in Etiopia nel 1936 e di aver consumato con lei numerosi rapporti sessuali.
In un’intervista rilasciata a Enzo Biagi per la Rai nel 1982 Montanelli racconta: “Aveva dodici anni… a dodici anni quelle lì [le africane, ndr.] erano già donne. L’avevo comprata dal padre a Saganeiti assieme a un cavallo e a un fucile, tutto a 500 lire. Era un animaletto docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi assieme alle mogli degli altri ascari…arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita”.

Una volta spente le polemiche, il colonialismo ritorna nel dimenticatoio e di quel periodo rimane solo qua e là qualche lontana eco nel nome dato alle nostre vie o alle nostre piazze, senza che nessuno sia in grado di ricordare a chi siano riferite e cosa rappresentino: è il caso, ad esempio, di Piazza dei Cinquecento a Roma dedicata ai soldati italiani caduti nella battaglia del 1887 a Dogali, in Eritrea. O lascia traccia in qualche modo di dire: “E’ stato un Ambaradan”, e non sappiamo che il riferimento è alla carneficina della cruenta battaglia del 1936 per la conquista dell’altopiano dell’Amba Aradam in Etiopia dove le forze italiane composte da soldati e camicie nere usarono proiettili e granate all’arsina e al fosgene ed effettuarono bombardamenti aerei con gas di iprite anche sulle popolazioni civili.
Qualche eco lontana giunge talvolta da Affile, dove sopravvive alla rabbia di molti l’ignobile mausoleo dedicato a Graziani, e qualche lontano ricordo potrebbe far riaffiorare le prese di posizione ostili alla restituzione dell’obelisco di Axum.
(continua)

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Franco Ferioli, l’inviato di Ferraraitalia nel tempo e nello spazio, è autore e curatore di Controinformazione, una nuova rubrica. C’è un’altra storia e un’altra geografia, i fatti e misfatti dell’Occidente che i media preferiscono tacere, che non conosciamo o che preferiamo dimenticare. CONTROINFORMAZIONE  ci racconta senza censure l’altra faccia della luna: per leggere tutti gli articoli della rubrica clicca [Qui]

In copertina: mappa della “Grande Italia”, i territori in rosso dovevano far parte del territorio italiano, in giallo i territori dell’Impero e le conquiste territoriali italiane nel 1942 (Wikimedia Commons)

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Franco Ferioli

Ai lettori di Ferraraitalia va subito detto che mi chiamo, mi chiamano e rispondo in vari modi selezionabili o interscambiabili a piacimento o per necessità: Franco Ferioli Mirandola. In virtù ad una vecchia pratica anagrafica in uso negli anni Sessanta, ho altri due nomi in più e in forza ad una usanza della mia terra ho in più anche un nomignolo e un soprannome. Ma tranquilli: anche in questi casi sono sempre io con qualche io in più: Enk Frenki Franco Paolo Duilio Ferioli Mirandola. Ecco fatto, mi sono presentato. Ciao a tutti, questo sono io, quindi quanti io ci sono in me? tanti quanti i mondi dell’autore che trova spazio in questo spazio? Se nelle ultime tre righe dovessi descrivere come mi sento a essere quello che sono quando vivo, viaggio, scrivo o leggo…direi così, sempre senza smettere di esagerare: “Io sono questo eterno assente da sé stesso che procede sempre accanto al suo proprio cammino…e che reclama il diritto all’orgogliosa esaltazione di sé stesso”.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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