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Giorno: 21 Ottobre 2016

Maya: il linguaggio della bellezza

di Maria Paola Forlani

Al Palazzo della Gran Guardia di Verona, dall’8 ottobre al 5 marzo 2017, è aperta una interessantissima mostra dedicata ai Maya, ricca di reperti e opere dell’arte e dell’artigianato dell’antica civiltà amerinda.

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Si è aperta nelle sale di Palazzo della Gran Guardia a Verona la mostra Maya. Il linguaggio della bellezza, fino al 5 marzo 2017.
A 18 anni di distanza dalla mostra del 1998 sui Maya di Venezia, è tornato in Italia il racconto della storia di un popolo che non cessa di affascinare per le sue conoscenze matematiche, per i suoi raffinatissimi sistemi calendariali e per le sue realizzazioni artistiche.
L’esposizione – risultato della particolare attenzione per le tematiche specificamente artistiche di questa civiltà – presenta sculture, stele monumentali, elementi architettonici, figure in terracotta, maschere in giada, strumenti musicali e incensieri, che danno la possibilità, al visitatore, di esplorare gli aspetti artistici di una delle civiltà più affascinanti della storia, attraverso il tema della bellezza.
La mostra di Verona affronta per la prima volta il tema della cultura di questo antico popolo attraverso le parole e i testi degli stessi Maya, utilizzando – come mai è avvenuto in passato – la più grande rivoluzione antropologica dell’ultimo secolo: la decifrazione della loro scrittura.
Parallelamente, l’esposizione offre uno sguardo nuovo, innovativo e sorprendentemente attuale sull’arte maya a partire dall’individuazione dei maestri, delle scuole e degli stili: finalmente si ha la possibilità di rapportarsi alle opere attraverso una lettura storico-artistica e non solo archeologica.
Sculture dalle forme umane e animali, oggetti d’uso comune, maschere, urne funerarie e altri reperti di pregio raccontano il mondo Maya nelle quattro sezioni tematiche della mostra: Il corpo come tela, Il corpo rivestito, La controparte animale e I corpi delle divinità.
Fregi e architravi che ricostruiscono antichi ambienti, frammenti di testi, mappe e simboli di potere ripercorrono duemila anni di storia lungo un articolato percorso espositivo che racconta la cultura Maya attraverso la decorazione dei corpi (i Maya erano molto attenti alla bellezza e per questo ornavano il corpo con interventi temporanei o permanenti come pitture corporali, elaborate pettinature, tatuaggi e decorazioni dentali); gli abiti e gli ornamenti utilizzati per indicare lo stato sociale; il loro rapporto con gli animali simbolo delle forze naturali, dei livelli del cosmo e degli eventi dei miti cosmogonici; le diverse divinità ed entità sacre adorate da questo popolo, i sacerdoti che le rappresentavano e i paraphernalia dei rituali per la prima volta si presenta l’arte maya a partire da rigorose e specifiche analisi storico-artistiche che sviluppano la tematica delle attribuzioni e arrivano a individuare i grandi artisti della pittura e della scultura.
A prima vista l’arte maya sembra essenzialmente naturalista e con una marcata preferenza per l’uso di figure umane, animali e vegetali. Tuttavia, osservando più attentamente le raffigurazioni su terracotta, scultura e pittura murale, è sorprendente l’enorme diversità di immagini nelle quali un personaggio assume le caratteristiche e le qualità di un altro o di altri, siano essi uno o diversi essere soprannaturali, uno o più animali o uno o varie piante o alberi. Tale personificazione o interpretazione di esseri fantastici, è il risultato di una visione complessa del mondo sviluppata dai Maya nel corso di interi secoli di scambi di idee, non solo fra i diversi popoli maya, ma anche fra altre regioni del Mesoamerica, come il centro del Messico, Oaxaca e la Costa del Golfo, inclusi popoli allora scomparsi, come gli Olmechi, da cui ereditarono alcune delle idee fondamentali per elaborare tale visione del mondo.

Prima sezione: Il corpo come tela
Elemento comune a tutte le società, attuali e del passato, risultano essere gli interventi sul corpo umano. Soprattutto nel mondo maya, in cui la bellezza aveva un ruolo preminente, la popolazione era solita realizzare quotidianamente acconciature per capelli e pitture su viso e corpo, riservandone invece di specifiche e particolari in occasione delle festività, al fine di modificare l’aspetto fisico per ragioni estetiche.
Alcune di queste pratiche, come le cicatrici e i tatuaggi, hanno cambiato per tutta la vita l’aspetto delle persone che li avevano ed erano infatti considerati espressioni visibili di identità culturale e di appartenenza sociale. Tra le modifiche permanenti hanno acquisito particolare importanza la scarificazione del viso, la decorazione dei denti e la modifica artificiale della forma della testa, lo strabismo intenzionale e la foratura per poter portare ornamenti applicati su orecchie, naso e labbra.
Seconda sezione: Il corpo rivestito
L’abbigliamento rappresenta un vero e proprio linguaggio, con un suo vocabolario e una grammatica e benchè sembri manifestarsi nell’effimero e nel superficiale – va invece a toccare elementi essenziali e basilari. Per i Maya l’abito è indicativo dello statu sociale dell’individuo. La maggior parte della popolazione impegnata in lavori agricoli presenta un abbigliamento semplice: le donne con la tradizionale blusa chiamata “hulpil” e la gonna o la tunica, mentre gli uomini con il perizoma legato intorno alla vita e talvolta un lungo mantello.
La classe nobile indossava costumi elaborati con accessori come cinture, collane, copricapo e pettorali tempestati di pietre preziose e piumaggi. I tessuti, ricchi di colori, erano tinti con indaco, cocciniglia o porpora ed erano lavorate con tecniche molto complesse – come il broccato, ad esempio – e spesso presentavano integrazioni di piume.
Terza sezione: La controparte animale
Gli animali hanno sempre avuto un posto privilegiato nel simbolismo religioso di diverse culture.
Molti esseri provenienti dal mondo degli animali erano considerati sacri dai Maya. Gli animali erano simboli di forze naturali e livelli cosmici, epifanie di energie divine, demiurghi tra gli dei e l’uomo, protettori di stirpi e alter ego degli esseri umani.
Quarta Sezione: I corpi delle divinità
I Maya adoravano molte divinità ed entità sacre di diversa natura, che potevano incarnare i poteri più grandi o essere custodi di piccole piante, di piccoli corsi d’acqua o delle montagne. Le loro rappresentazioni includono caratteristiche umane e animali, elementi naturali o immaginari. A questi dei ed esseri sacri è stata attribuita l’origine di quei terrificanti fenomeni naturali di cui avevano paura e dell’espressione materiale e spirituale di tutto ciò che esiste.
I tre grandi periodi – preclassico, classico e postclassico – che dal 200 a.C. al 1542 d.C. hanno visto fiorire questo popolo, sono spiegati attraverso straordinari capolavori dell’arte maya come il Portastendardi, pregiata scultura risalente all’XI secolo realizzata da un maestro di Chichen Itza ; la Testa raffigurante Pakal il Grande che visse dal 603 al 683 dopo Cristo e fu il più importante re di Palenque;
la Maschera a mosaico di giada raffigurante un re divinizzato tipico esempio di maschera funeraria, fondamentale per il defunto per raggiungere il mondo sotterraneo; e infine come l’Adolescente di Cumpich, importante scultura risalente al periodo tardo classico ritrovata nel sito archeologico di Cumpich.
Per informazioni sulla mostra: www.mayaverona.it

 

 

 

Il dipartimento di architettura di Unife vince il premio leadership in green building con un progetto di ricerca per l’ edilizia sostenibile

Da: Università di Ferrara

Il Dipartimento di Architettura di Unife, Centro Ricerche Architettura>Energia, si aggiudica il premio Italian Leadership Awards per la categoria Leadership in Green Building nel Settore Pubblico con il progetto ‘Unife Sostenibile SOSTENIBILE – Screening energetico del patrimonio edilizio dell’ateneo di Ferrara e proposte preliminari per la fase di programmazione degli interventi di retrofit’.
Il riconoscimento, recentemente consegnato a Sassuolo in occasione della cerimonia di premiazione dei vincitori dei GBC Italia Awards, intende celebrare l’eccellenza italiana del costruire sostenibile nella cornice di uno dei settori industriali che meglio rappresentano il MADE in ITALY, Confindustria Ceramica.

Il progetto ferrarese è stato condotto da un gruppo di lavoro costituito dai responsabili scientifici Pietromaria Davoli, Andrea Rinaldi e Giacomo Bizzarri e da Marta Calzolari, coordinatrice operativa, Vittorino Belpoliti, Elena Cattani, Stefania Pitzianti.

Spiegano Davoli, Rinaldi e Bizzarri: ‘L’esigenza di poter disporre di adeguati strumenti per un efficace audit energetico, al fine di consentire una programmazione delle politiche a lungo termine da parte dei singoli Stati membri per l’adeguamento energetico-ambientale dell’ambiente costruito, è accelerata dal recepimento e dall’attuazione a livello italiano (d.lgs. n. 102 del 4 luglio2014) della direttiva europea 2012/27/UE, soprattutto con riferimenti specifici agli edifici pubblici del Governo centrale. Inoltre, il d.l. 63/2013, convertito nella l. 90/2013 riporta l’obbligo di produrre gli Attestati di Prestazione Energetica per tutti gli edifici pubblici. Il progetto ha preso avvio da questo panorama normativo e dall’esigenza dell’amministrazione universitaria di possedere uno strumento di pianificazione energetica del proprio patrimonio immobiliare. Il risultato del lavoro è la messa a punto di un sistema di analisi speditiva dello stato di fatto del patrimonio edilizio universitario attraverso il quale poter programmare gli interventi di retrofit (involucro ed impianti), valutando preliminarmente sia gli effetti del miglioramento energetico, sia il rapporto costi/benefici delle operazioni programmate, attraverso un sistema rapido e di semplice applicazione, utilizzabile anche da non esperti del settore, che impieghi, infine, limitate risorse economiche. Attraverso l’uso dello strumento di analisi è possibile individuare le priorità di intervento mirate alla diminuzione dei consumi (e di conseguenza dell’emissione di gas climalteranti), a rendere efficiente la gestione delle risorse economiche e a migliorare il comfort degli utenti finali. Tale sistema di valutazione e programmazione preliminare può essere facilmente applicato ad ancora più estesi patrimoni e tessuti urbani’.

Il progetto si inserisce nel più ampio programma ‘UnifeSostenibile’ (http://sostenibile.unife.it)

Streetfood Village: a Ferrara il cibo di strada protagonista

Da: Organizzatori

In collaborazione con Feshion Eventi, Confesercenti e Amministrazione Comunale di Ferrara
Piazza Travaglio fino a domenica sarà animata con cucine di strada originali e di qualità, garantisce il logo ‘tendina’. Ricciarini (presidente Streetfood): «Il tema street food è a rischio inflazione ma la qualità e professionalità pagano e la stima sui Social Network ne è la conferma»

Tutto pronto per lo Streetfood Village di Ferrara che fa il bis per il secondo anno, fino a domenica 23 ottobre. Streetfood torna nella città degli Estensi, in collaborazione con Feshion Eventi e Confesercenti Ferrara, con uno Streetofood Village ancora più ricco di cibi di strada provenienti da tutta Italia e dall’ estero con specialità originali e introvabili. Sarà proprio Ferrara, ancora in Piazza Travaglio, ad ospitare una delle ultime tappe del giro d’Italia del cibo di strada promosso dall’ Associazione nazionale Streetfood che da anni certifica e promuove il vero cibo di strada italiano con ospiti stranieri. Lo Streetfood Village per tre giorni porterà in ‘piazza’ il cibo di strada, quello con la tendina, che delizierà i palati delle migliaia di appassionati che arriveranno per il week end di festa. «La città vive quando commercio diffuso ed eventi la animano – spiega Alessandro Osti, direttore di Confesercenti Ferrara – ed oggi lo Street Food di qualità è il principale attrattore di interesse perchè attorno al cibo avviene quell’incontro di culture diverse che spesso su altri temi si dividono».
Il programma: Tanto cibo, ma anche tanta buona musica. Venerdì 21 alle 19 con l’ inaugurazione con Feshion Eventi, Confesercenti Ferrara e l’Assessore al Commercio Fiere e Mercati del Comune Roberto Serra, alle ore 21 con il Concerto de ‘I Muffins Spettacoli’. Sabato 22, sempre alle 21, il live con Stefania Cento accompagnata al pianoforte. Per finire domenica 23 ottobre il Concerto de ‘I Poca Banda’ dalle 20. Per i più piccoli inoltre giochi gonfiabili e trucca bimbi.
I cibi di strada. Il giro d’Italia del cibo di strada comincia con le bombette e la puccia pugliesi, gli arancini e il pane ca’ meusa siciliani. Dalle Marche i fritti misti, con le olive in testa e il pesce di San Benedetto del Tronto (Ap), senza dimenticare la parte internazionale: la cucina statunitense con tagli di carne a bassa temperatura in stile BBQ e la Grecia con i suoi cibi di strada originali come Gyros Pita e Souvlaki. Non mancherà il fritto napoletano e i borlenghi e gnocchi fritti emiliani. Sapori Salentini e bufalo dell’Agro-pontino faranno la loro parte. Il tutto è accompagnato da cocktail cubani, dalla Birra ufficiale Streetfood, oltre a una selezione di vini territoriali abbinati ai vari cibi di strada presenti come il Lambrusco servito da un truck. Ma la lista è lunga. Ricciarini (presidente Streetfood): «Il tema street food è a rischio inflazione ma la qualità e professionalità pagano e la stima anche sui Social nei nostri riguardi ne è la conferma»
Lo Streetfood Tour. Oltre trenta appuntamenti previsti dall’ Associazione nazionale Streetfood in tutta Italia. Obiettivo è quello di far divertire il maggior numero di appassionati attraverso la cultura del cibo di strada. Solo nel 2015 sono stati raggiunti in tutta Italia quasi due milioni di persone. Un format di successo non solo per gli organizzatori degli eventi, ma da condividere con gli operatori economici del settore e le realtà territoriali che hanno creduto in questo progetto. Anche decine di eventi collaterali, momenti di confronto e convegni, un concorso dedicato alla stampa nazionale e decine di concerti che hanno fatto da sfondo alle varie tappe.

L’ Associazione Streetfood. Nata ad Arezzo nel 2004, è stato il primo progetto in Italia a promuovere il cibo come cultura e il cibo di strada come format vincente in quanto ‘riassume in un cartoccio’ storia e tradizioni di ogni regione d’Italia da gustare con le mani. Nel 2015 sono stati 28 gli eventi in tutta Italia toccando quasi due milioni di persone che hanno consumato cibi di strada in quantità record.

movimento5stelle

E così Ferrara non ha più un’ area sosta camper

Da: Movimento 5 stelle Ferrara

La nostra mozione (www.comune.fe.it/index.phtml?id=5192) per ridare alla città un’ area sosta camper realmente fruibile e degna di tale nome e non il bivacco abusivo in cui si era trasformata, presentata in realtà a luglio, è stata finalmente discussa a inizio settimana in Consiglio comunale.
www.movimento5stelleferrara.it/la-malagestione-dei-parcheggi-e-la-carente-e-inadeguata-accoglienza-verso-i-turisti
Se nel corso della seduta non fosse stato detto pubblicamente e a più riprese, si stenterebbe a credere che il vice Sindaco, nonché Assessore al turismo, e i consiglieri di maggioranza possano aver affermato che la mozione ‘è un po’ tardiva e superata’, suggerendoci spavaldamente di ritirarla, in quanto ciò da noi richiesto ‘si è già in parte realizzato con la chiusura dell’area’. Per di più si scopre che tale chiusura non è per manutenzione, come dichiarato in precedenza, ma che l’ Amministrazione deve ancora valutare se riaprirla in quel luogo o addirittura spostarla in un’ altra zona ancora da individuare; in ogni caso sono previsti tempi lunghi col risultato che, nel frattempo, Ferrara continuerà a rimanere, per chissà quanto tempo, senza un’ area sosta camper.
Se da un lato è surreale che un’ Amministrazione pubblica scelga di risolvere un problema a un suo servizio tagliando di netto il servizio stesso, quindi rimettendoci anche economicamente, lo è altrettanto dover assistere a un Comune che, pur essendo da tempo a conoscenza della situazione disastrata in cui versava l’area, come dallo stesso affermato, non si è attivato da subito per pretendere il rispetto degli impegni sottoscritti con Ferrara TUA, responsabile della gestione del servizio, dimostrando così tutta la sua inefficienza e subalternità.

Arci Ferrara per la Festa della Legalità ‘Dheepan – Una nuova vita’

Da: Arci Ferrara

‘Dheepan-Una nuova vita’, un film per riflettere senza perdere la speranza.

L’impegno di Arci Ferrara nell’ambito della settima edizione della Festa della Legalità e della responsabilità è dimostrato dalla scelta di dedicare alcune delle proiezioni del cinema Boldini alle tematiche sociali al centro degli eventi della Festa. Domani, sabato 22 Ottobre, alle 18, sarà proiettato dunque il film Dheepan – Una nuova vita, diretto da Jacques Audiard. L’ ultimo film del regista francese, premiato con la Palma D’ oro alla 68° edizione del Festival di Cannes, è parzialmente ispirato al romanzo epistolare Lettere persiane di Montesquieu. Il protagonista, Dheepan, è stato interpretato dallo scrittore, romanziere e attivista politico Jesuthasan Antonythasan, che da ragazzo è stato un soldato con le Tigri Tamil dello Sri Lanka prima di fuggire in Francia, avendo ricalcato, dunque, nella vita reale, la storia del personaggio che interpreta nel film.
Dheepan è un combattente per l’indipendenza dei Tamil. Quando la guerra civile arriva fino allo Sri Lanka e la sconfitta è prossima, Dheepan decide di fuggire, portando con sé una donna e una bambina che non conosce, sperando di ottenere asilo politico in Europa. Questa ‘famiglia’ si stabilisce a Parigi, dove Dheepan ottiene un lavoro di guardiano nella periferia della città. La sua speranza è di costruire una nuova vita e una vera casa per la finta moglie e sua ‘figlia’. Presto tuttavia, la violenza quotidiana della città riporta a galla le ferite ancora aperte della guerra. Il soldato Dheepan dovrà riconnettersi con il suo istinto di guerriero per proteggere quella che sperava diventasse la sua famiglia ‘reale’.
La proiezione sarà a ingresso libero.
Per ulteriori informazioni, contattare Arci Ferrara al numero 0532 241419, o la Sala Boldini al 0532 247050. La programmazione completa delle proiezioni si può trovare sul sito www.cinemaboldini.it.

‘Aperitivo con il manager’: Il 26 Ottobre primo appuntamento

Da: Organizzatori

Un ciclo di incontri promosso da Federmanager sugli stili manageriali e la conduzione d’impresa

Mercoledì 26 ottobre Federmanager Ferrara, Associazione dei manager, dirigenti, quadri e alte professionalità di Ferrara e Provincia, promuove un’occasione di confronto sul tema ‘Managerialità imprenditoriale e imprenditorialità manageriale’, primo appuntamento di ‘Aperitivo con il manager’, ciclo di incontri dedicati alla creazione e conduzione d’impresa che si svolgeranno presso l’Hotel Carlton in via Garibaldi 93 a Ferrara, dalle 18 alle 20.
‘Con questa iniziativa – spiega Giorgio Merlante, presidente di Federmanager Ferrara – ci proponiamo di fornire, ad iscritti e non, un continuo aggiornamento su argomenti che supportano l’ agire delle imprese e dei manager, in un contesto economico e tecnologico complesso e mutevole.’
Il format scelto dà spazio alle esperienze dei partecipanti: dopo l’intervento dei relatori, il pubblico potrà intervenire con domande e riflessioni sul tema dell’incontro. Al termine di ogni meeting, chiusura conviviale con aperitivo.
Il primo appuntamento analizza il connubio tra capacità imprenditoriali, legate al rischio d’ impresa, all’ innovazione e alla visione del cambiamento e capacità manageriali, associate all’ organizzazione dei fattori produttivi e delle risorse umane e alla razionale gestione dei processi. Intervengono Andrea Barbieri, General Manager di Socotherm e Cinzia Ori, Amministratore Delegato di Distillerie Moccia, voci rappresentative sia del mondo delle multinazionali sia di quello dell’industria italiana.
Il secondo incontro è già stato fissato per mercoledì 23 novembre, tema scelto ‘Il manager e la sfida dell’internazionalizzazione’.
Gli appuntamenti avranno cadenza mensile e proseguiranno nel corso del 2017. Si parlerà di ‘Industry 4.0: quali sfide e quali cambiamenti nel ruolo del management’ ma anche dei ‘Processi di headhunting e di selezione dei manager per ruoli chiave’. Altra tematica calda che verrà trattata, ‘Il manager dell’innovazione’. Obiettivi del ciclo di incontri, che ha il patrocinio di CDi Manager, società di scopo di Federmanager leader del temporary management e della ricerca e selezione di figure direzionali: dare la possibilità ai manager di raccontarsi e portare esperienze proprie su temi e stili di managerialità; conoscere le imprese del territorio attraverso spunti di discussione degli amministratori/imprenditori; valutare insieme come la figura del manager si evolve nel contesto dell’economia globale e territoriale. ‘Un’ occasione di confronto per fare sempre di più squadra e rete – commenta Merlante – e per favorire opportunità di crescita e aggiornamento nella gestione d’ impresa. Come Associazione riteniamo importante favorire la creazione di un circuito che consenta alle imprese di rafforzarsi attraverso l’ opportunità dell’ aggiornamento e la condivisione delle proprie esperienze’.
La partecipazione è gratuita e aperta al pubblico. E’ gradita la prenotazione: scrivere a ferrara@federmanager.it oppure telefonare dalle 9 alle 12 al numero 0532 202756

Federmanager Ferrara, fondata nel 1946 e con all’attivo circa 300 iscritti, tutela e promuove l’ immagine e il ruolo della categoria dei manager, dirigenti, quadri e alte professionalità di Ferrara e Provincia e fa capo a Federmanager nazionale. Si propone quale punto di riferimento per manager in attività, temporaneamente inoccupati, in pensione o dirigenti che svolgono attività professionale. Info: http://www.ferrara.federmanager.it

Intitolazione ciclo – pedonale a Carlo Lambertini

Da: Organizzatori

Sabato 22 ottobre, al termine di via Alfredo Pitteri, con una cerimonia semplice, sarà scoperta ufficialmente l’insegna stradale della ciclabile intitolata al nostro amico e concittadino Carlo Lambertini, che ci ha lasciato poco più di due anni fa. Nella vita, di professione, il geometra Carlo ha sempre svolto il lavoro di fabbro, gestendo, assieme al fratello, una rinomata Officina di Carpenteria Industriale in via Breve. A quel ‘fabbro’ nel 2009 la Circoscrizione dedicò un riconoscimento, riconoscendolo tra le persone meritevoli più rappresentative del ‘Vivere in via Bologna’. Molteplici sono state le realizzazioni che ha lasciato in città e non solo, tra le più ammirevoli ci rimane l’ardita copertura metallica della tribuna centrale dello stadio ‘Paolo Mazza’, che da ormai cinquant’ anni svolge la sua importante funzione negli incontri casalinghi della Spal. In quest’attività notevole era la sua perizia, ma al contempo manifestava il suo animo artistico: suo è il monumento dedicato ai caduti dell’Arma dei Carabinieri nel piazzale della caserma ‘Carmine della Sala’ di via del Campo. Nell’ animo e nella pratica però egli era un poeta e uno scrittore, qualità che si è sviluppata appieno quando se né andò in pensione. Ripercorse cosi la sua vita per tracciarne un bilancio, redando così un testamento spirituale. Si dilettò a raccogliere pensieri e riflessioni di filosofia spicciola. Compose racconti e poesie in lingua e in dialetto, pubblicati da un giornale e raccolti in diversi volumi. Storie e versi che, in forma gratuita o per beneficenza, egli amava leggere e recitare sui palcoscenici dei teatri e dei centri per anziani che frequentava, col desiderio di regalare loro un po’ di serenità e l’intento di strappare un sorriso. Con i parenti e con quanti vorranno essere presenti (l’invito ovviamente è esteso alle Autorità e alle Forze dell’Ordine, ai soci dei Centri Sociali, …), la Social Street dei residenti di via Pitteri ricorderà con riconoscenza e simpatia questa persona semplice e sensibile scoprendo una targa stradale col suo nome. Al termine si terrà un rinfresco a buffet, al quale (nello spirito della social street) s’invitano gli intervenuti a portare qualcosa da condividere.

La newsletter del 20 ottobre 2016

Da: Comune di Ferrara

Si muoverà alla ricerca delle tracce di modernità presenti in un classico come il ‘Don Chisciotte’ di Cervantes, la rilettura che Claudio Cazzola proporrà nel corso della conferenza prevista per venerdì 21 ottobre alle 17 nella sala Agnelli della biblioteca Ariostea. L’incontro, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, in occasione del quarto centenario della morte di Miguel de Cervantes (1547-1616), sarà introdotto da Marcello Folletti.

Cervantes, il ‘Don Chisciotte’ e la modernità.
‘I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti’: nessuna migliore presentazione di questa può assolvere al compito, graditissimo, di rileggere una volta ancora il ‘Don Chisciotte’, sulla scorta della definizione n. 9 stilata da Italo Calvino (= Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, p. 15). I motivi possono essere molteplici, a cominciare dalla ingegnosa trovata compositiva secondo la quale Cervantes non è l’autore del testo – e nemmeno un trascrittore di esso, come accade ad Alessandro Manzoni – bensì un semplice scopritore di una raccolta di scartafacci in vendita presso l’Alcaná di Toledo, fatti da lui tradurre dall’arabo in castigliano. Il fortunato ritrovamento consente alla vicenda appena iniziata di continuare, ricca di tranelli narrativi splendidamente godibili. Quanto alla modernità del ‘Don Chisciotte’, si ascolti la seguente testimonianza: ‘Ma alla domanda, ahimé ricorrente, se i classici sono attuali, ho già dato una volta una risposta tra provocazione e convinzione: il problema non è se i classici sono attuali, il problema è se lo siamo noi rispetto a loro. Loro lo sono sempre, basta leggerli, noi non sempre, basta sottoporci alla stessa prova’. Parole del mai abbastanza rimpianto Giuseppe Pontiggia
(I classici in prima persona, Mondadori, 2006, pp- 33-34)

Gli uffici Tari chiusi al pubblico da lunedì 24 a venerdì 28 ottobre

Da lunedì 24 ottobre a venerdì 28 ottobre 2016 (come già accaduto tra il 26 e 30 settembre) gli uffici Tari (tassa sui rifiuti) del servizio Servizi Tributari del Comune di Ferrara, in via Monsignor Luigi Maverna 4, resteranno chiusi al pubblico in quanto tutti gli operatori saranno impegnati nello svolgimento di urgenti ed ingenti attività di back office.
Per informazioni e chiarimenti è sempre attivo il numero verde 800 654866 dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 18 e il sabato dalle 9 alle 13.

Polizia Municipale – Sabato 22 ottobre 2016 giornata del campionato di Serie B al Mazza
I provvedimenti di viabilità in occasione della partita di calcio Spal – Carpi

Anche in occasione della partita Spal – Carpi, che si disputerà sabato 22 ottobre 2016 alle 15, verranno adottati particolari provvedimenti di viabilità idonei a garantire un corretto e sicuro afflusso dei tifosi sia ospiti che locali allo stadio Paolo Mazza.
L’area riservata al parcheggio dei veicoli dei tifosi ospiti sarà quella solitamente a loro riservata di corso Vittorio Veneto, nel tratto compreso tra il corso Piave e la via Cassoli, mentre per i tifosi locali viene confermato il parcheggio a loro dedicato nel viale IV Novembre con accesso e uscita dal varco di viale Costituzione/viale Cavour.
Il viale IV Novembre pertanto, chiuso alla normale circolazione veicolare, sarà di fatto a fondo chiuso con sbarramento all’intersezione con la via Fortezza.
L’afflusso dei tifosi locali allo stadio siano essi a piedi, in velocipede od in auto, dovrà avvenire esclusivamente dal lato del viale IV Novembre ovvero sfruttando le vie Ortigara, Paolo V o Fortezza.
Inoltre si evidenzia quanto segue:
– l’accesso allo stadio dei veicoli dei disabili per raggiungere le aree a loro riservate di Corso Piave e Polo V e degli autorizzati a raggiungere il parcheggio interno allo stadio, dovrà avvenire dal varco di via Fortezza/Casteltedaldo raggiungibile dalla via Podgora – Piazza XXIV Maggio;
– è consigliabile per coloro che raggiungono lo stadio con il proprio velocipede di non sostare lo stesso nella via Paolo V poiché al termine della partita, la stessa, dall’intersezione con il corso Piave, potrebbe essere inibita al transito anche pedonale fintanto che non si sarà esaurito il deflusso dei tifosi ospiti;
– per consentire la realizzazione degli appositi sbarramenti atti a separare le tifoserie, verrà inibita la circolazione veicolare nel corso Vittorio Veneto, nella via Cassoli e nel corso Piave a partire dalle ore 10.30. Sarà comunque consentita la circolazione pedonale ciclabile sino al momento della chiusura totale della viabilità prevista per le ore 12,30;
– considerato lo sbarramento che verrà realizzato all’intersezione tra il corso Vittorio Veneto e la via Cassoli, il tratto dello stesso corso Vittorio Veneto compreso tra la via Cassoli e la via Poledrelli, sarà di fatto a fondo chiuso, con ingresso ed uscita dalla via Poledrelli;
– i divieti di sosta nelle aree adiacenti lo stadio che riguardano la via Ortigara da corso Piave a via Poledrelli, il corso Piave da viale IV Novembre a viale Vittorio Veneto, la via Fortezza da via Casteltedaldo a corso Piave, la via Montegrappa, la via Cassoli da viale IV Novembre a corso Vittorio Veneto ed il corso Vittorio Veneto da Piazza XXIV Maggio a via Poledrelli, saranno in vigore dalle ore 07.00;
Si comunica inoltre che l’accesso allo stadio da parte dei tifosi locali, sarà inibito già dalle intersezioni corso Isonzo/corso Piave e corso Isonzo/via Cassoli.
Il traffico veicolare, dalle ore 12.30, oltre che nelle citate intersezioni, sarà inibito come al solito alle intersezioni viale IV Novembre/via Darsena, viale IV Novembre/via Fortezza, corso Piave/via San Giacomo e via Cassoli/via Ticchioni.
Dal parcheggio di viale IV Novembre, non sarà consentito accedere al corso Piave ed alla via Cassoli fintanto che non sarà completamente ripristinata la normale circolazione.

Week end n centro storico – Cibo di strada e musica da venerdì 21 a domenica 23 ottobre
In piazza Travaglio lo ‘Streetfood Village’ con specialità da tutta Italia e dall’estero

Per l’intero week end, da venerdì 21 a domenica 23 ottobre, in piazza Travaglio riapre lo ‘Streetfood Village’ con cibi di strada provenienti da tutta Italia e dall’estero e con specialità originali e introvabili. La manifestazione, organizzata da Feshion Eventi in collaborazione con l’associazione StreetFood Italia e Confesercenti Ferrara, e con il patrocinio del Comune di Ferrara, rappresenta una delle ultime tappe del giro d’Italia del cibo di strada promosso dall’Associazione nazionale Streetfood che da anni certifica e promuove il vero cibo di strada italiano con ospiti stranieri.
Il giro d’Italia del cibo di strada comincia con le bombette e la puccia pugliesi, gli arancini e il pane ca’ meusa siciliani. Dalle Marche i fritti misti, con le olive in testa e il pesce di San Benedetto del Tronto (Ap), senza dimenticare la parte internazionale: la cucina statunitense con tagli di carne a bassa temperatura in stile BBQ e la Grecia con i suoi cibi di strada originali come Gyros Pita e Souvlaki. Non mancherà il fritto napoletano e i borlenghi e gnocchi fritti emiliani. Sapori Salentini e bufalo dell’Agro-pontino faranno la loro parte. Il tutto è accompagnato da cocktail cubani, dalla Birra ufficiale Streetfood, oltre a una selezione di vini territoriali abbinati ai vari cibi di strada presenti come il Lambrusco servito da un truck.
In programma anche esibizioni musicali nelle tre serate:
– Venerdì 21: Concerto de ‘I Muffins Spettacoli’ alle 21
– Sabato 22: Live con Stefania Cento accompagnata al pianoforte
– Domenica 23: Concerto de ‘I Poca Banda’ alle 20
E per i più piccoli: area gonfiabili e truccabimbi
Apertura Streefood Village (ingresso libero): venerdì dalle 17 alle 24, sabato e domenica dalle 11 alle 24.
L’Associazione Streetfood. Nata ad Arezzo nel 2004, è stato il primo progetto in Italia a promuovere il cibo come cultura e il cibo di strada come format vincente in quanto “riassume in un cartoccio” storia e tradizioni di ogni regione d’Italia da gustare con le mani. Nel 2015 sono stati 28 gli eventi in tutta Italia toccando quasi due milioni di persone che hanno consumato cibi di strada in quantità record.

Festa legalità e responsabilità – Sabato 22 ottobre alle 9.30 nella Sala della Musica (via Boccaleone, 19 – Ferrara)
Legalità e lavoro: la battaglia alle mafie che sottraggono risorse e terreni all’agricoltura

Nell’ambito della Festa della Legalità e Responsabilità, organizata dal Comune di Ferrara dal 22 ottobre al 7 novembre 2016, sabato 22 ottobre alle 9.30 nella Sala della Musica (via Boccaleone, 19 – Ferrara) avrà luogo un incontro pubblico dal titolo ‘Legalità e Lavoro: Fondi rubati all’Agricoltura’. Verrà presentata la video-inchiesta ‘Fondi rubati all’agricoltura’, che indaga come la criminalità si infiltra nel sistema delle sovvenzioni europee di sostegno agli agricoltori. L’autore Alessandro Di Nunzio – insieme a Diego Gandolfo vincitore del Premio Roberto Morrione 2015 proprio per questo lavoro – e Luigi Russo, Associato di Diritto Agrario del Dipartimento di Giurisprudenza dell’ Università degli Studi di Ferrara, ne discuteranno con Alessandro Zangara – responsabile Ufficio Stampa Comune di Ferrara – e Federica Pezzoli del settore Informazione del Coordinamento di Ferrara di Libera. Introduce l’Assessora all’Ambiente Caterina Ferri. Dopo la proiezione della videoinchiesta è previsto anche l’ intervento telefonico in diretta di Giuseppe Antoci, presidente del Parco dei Nebrodi, scampato a un agguato mafioso nel maggio 2016.
La partecipazione all’incontro è libera, aperta a tutti i cittadini, e ha ricevuto l’accreditamento dell’Ordine dei Giornalisti come seminario di formazione.

Interpellanza – Presentata dal gruppo FdI/AN in Consiglio comunale
Richiesta in merito all’installazione di speed check in via Padova

Questa l’interpellanza pervenuta:
– il consigliere Spath (gruppo FdI/AN in Consiglio comunale) ha interpellato il sindaco Tiziano Tagliani e l’assessore ai Lavori Pubblici Aldo Modonesi in merito all’installazione di speed check in via Padova.
>> Pagina riservata alle interpellanze/interrogazioni presentate dai Consiglieri comunali e relative risposte (a cura del Settori Affari Generali/Assistenza agli organi del Comune di Ferrara)

Assessorato alla cultura- ‘Cosa vedeva Ariosto quando teneva gli occhi aperti?’ Con MuseoFerrara e Società Dante Alighieri fino al 18 novembre
Cresce la partecipazione al progetto #furioso16tw, tradurre le ottave dell’Orlando Furioso in tweet

È possibile portare l’Orlando furioso sui social, tradurne le ottave in tweet? A cinquecento anni dalla prima pubblicazione del poema, hanno raccolto la sfida i profili Twitter della Società Dante Alighieri @la_dante e di MuseoFerrara @museoFe. È partito riscuotendo da subito una partecipazione convinta il progetto #furioso16tw, che invita alla lettura del capolavoro di Ariosto esaltandone gli aspetti di grande umanità. Il progetto, con la supervisione scientifica di Alberto Casadei, ordinario di Letteratura Italiana all’Università di Pisa nonché membro del Consiglio scientifico della Dante, si svilupperà sino al prossimo 18 novembre. Stanno al gioco anche i profili del Comune di Ferrara @ComuneDiFerrara, del Comitato nazionale per le celebrazioni ariostesche @2016furioso e di Palazzo dei Diamanti @PalazzoDiamanti, dove prosegue la mostra ‘Orlando furioso 500 anni. Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi’. Non a caso, il progetto scanzonato si domanda cosa vedesse invece il poeta quando li teneva ben aperti.
Per 40 giorni, escluse le domeniche, saranno pubblicati tweet scherzosi e in rima per invitare i lettori a interagire con il testo del Furioso andando “a caccia di mostri”, o cercando tra i versi le occasioni per leggere ancora il poema da un punto di vista attuale. #furioso16tw si concentra infatti sugli elementi umani dell’opera, quelli che non perdono mai di attualità e che permettono ancora oggi ai lettori di riconoscersi in un poema ambientato ai tempi di Carlo Magno e pubblicato per la prima volta il 22 aprile 1516. Twitter, grazie alla sua immediatezza non invasiva, si presta persino al coinvolgimento di personalità culturali, chiamando in causa eventi del territorio che sovrappongono il passato al presente. Gli scambi di vedute nascono da veri e propri “botta e risposta” che raccolgono le affermazioni di chi approfondisce la poetica di Ariosto senza scostarsi troppo dal quotidiano, così Stefano Benni, Roberto Pazzi, Luigi Dal Cin, Guido Conti, Vittorio Sgarbi e Nuccio Ordine, almeno per il momento.
Temi come la follia amorosa, il movimento caotico per seguire gli oggetti del desiderio, il confronto tra il vero e l’apparenza contribuiscono a disegnare una vera e propria parabola umana all’interno del poema. Diversamente dal mondo dantesco, tutto verticale e orientato verso il Cielo, quello del Furioso è orizzontale: il lettore deve immergersi e guardarsi attorno, cogliendo le contraddizioni proprie di ogni uomo dietro le sembianze di una perfetta armonia. Un esempio di 140 caratteri, non uno di più: «Il grande Orlando, paladino fiero, / si ritrova più matto di un cavallo. / E il senno? Sulla luna! Sarà vero?».
Le regole del gioco http://www.museoferrara.it/view/s/2df6ba0fab2f47f38f7766897e7af54d
Per info Cronacacomune

Cerimonia intitolazione – Sabato 22 ottobre alle 10 in piazzale Medaglie d’Oro
Il giardino di piazzale Medaglie d’Oro intitolato ai ‘Mutilati e Invalidi di Guerra’

Sabato 22 ottobre alle 10, nel corso di una breve cerimonia, avrà luogo lo scoprimento delle due targhe che sono state collocate nel giardino di piazzale Medaglie d’Oro, che prenderà il nome di ‘Giardino dedicato ai Mutilati e Invalidi di Guerra’.
Saranno presenti all’intitolazione l’assessore comunale Aldo Modonesi e il presidente della sezione ANMIG di Ferrara Giorgio Pancaldi.
Il provvedimento, approvato con Delibera di Giunta nei mesi scorsi, ha in questo modo accolto una specifica proposta dalla sezione ANMIG di Ferrara (Associazione Nazionale fra Mutilati e Invalidi di Guerra).
Giornalisti, fotografi e videoperatori sono invitati

INSOLITE NOTE
Hyris Corp Ltd, sotto il segno della musica

La matrice è progressive rock e metal, un biglietto da visita inequivocabile, così come lo sono le emozioni che corrono veloci sulle note eseguite dal polistrumentista Bljak Randalls, alias Dario Stoppa, in questo suo album dalle vibrazioni convertite in impulsi elettrici da pick-up viscerali. Il prog, in senso classico, rappresenta un insieme di tempi, dimensioni e dinamiche, uno scenario di situazioni futuribili che, nelle intenzioni dell’autore, arrivano sino alla fine dei tempi per mezzo dello scorrere degli eventi, in questo caso dei brani. Il nome Hyris Corp. Ltd. nasce per dare una connotazione “british” al progetto, l’idea di aggiungere il nome del fiore è del bassista John Gordio.

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Figura 1: Il disco omonimo di Hyris Corp Ltd è pubblicato da Seahorse Recordings e promosso da New Model Label di Ferrara

L’album è basato su emozioni e matematica, con riferimenti musicali, filosofici e artistici così spiegati dall’autore: “Il mio legame con la matematica ha a che fare con la matematica “personale” (concetto che potrebbe sembrare assurdo). Come in ogni sistema chiuso che obbedisce alle proprie regole, il mio è costituito da una matematica che ovviamente si deve per forza basare su quella ufficiale, ma che si è sviluppata e ha maturato un insieme di regole del tutto personali, attribuendo ai numeri e alle funzioni, delle valenze quasi esoteriche e spirituali”.
I 14 brani strumentali si sviluppano in un percorso di colori e memoria, come in “American tears”, in cui rivive l’assassinio di John Kennedy, con le immagini girate da Abraham Zapruder, il sarto statunitense divenuto celebre per aver ripreso con una cinepresa 8 mm il corteo presidenziale a Elm Street nel momento dell’omicidio del presidente degli Stati Uniti. Il brano, suonato da archi, rivela da subito un tono drammatico e distorto, un’enfasi d’attesa che sfocia nel dramma. Sulla stessa linea “Tower farther”, in cui la chitarra elettrica prende il sopravvento sulla narrazione visiva, e dove, citando l’autore: “Ogni strumento si trova a una certa frequenza e velocità di scorrimento rispetto a un altro, generando fra essi “livelli” di parallasse. Ogni micro-struttura, veloce, è incorporata da una macro-struttura (suonata da un altro strumento), che, con uno scorrimento più lento, richiama comunque il mood della prima e viceversa”.
Nelle canzoni, molto diverse tra di loro, coesistono tutti i segni zodiacali e le relative personalità, dal segno del Cancro in “Marianne” sino a “One million times”, un pezzo sulla comunicazione, di cui i nati sotto il segno dei gemelli sono maestri. La musica di Bljak riporta alla mente decine di anni di progressive ma le chiavi di lettura sono l’originalità e le sottotracce, così come il luogo in cui sono nati i brani. In “One million times” c’è un legame tra Venezia e un qualsiasi posto della terra, come potrebbe essere Los Angeles, rievocato dagli echi di un Laserium di cui ci fece omaggio Tolo Marton nell’album “Smogmagica” inciso con Le Orme.

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Figura 2: Bljak Randalls, alias Dario Stoppa

“Marianne” è un pensiero triste del passato, come suggeriscono le note struggenti del piano, in ricordo della forza d’animo di un’amica e della sua bimba mai nata, una sorta di rilettura in chiave moderna della “Pavane pour une infante défunte” di Ravel.
La chitarra e la batteria quantizzata in midi, sostengono la ritmica di “Plasters Inc”, un viaggio nel tempo proiettato nel futuro, con sonorità che echeggiano gli anni ’70, un paradosso temporale sostenuto dalla forza del rock.
Ogni brano ha la sua anima musicale, “Ocean/One” e “Cielo blu” evocano un prog di matrice italiana, ma la forza del disco è nel suo insieme. Non ci sono singoli da scoprire, si deve soltanto seguire il sentiero tracciato dall’autore, entrare nel suo mondo e ritrovare parti del proprio. Il punto d’arrivo è “The powers that were”, in cui l’assolo, nel passaggio in cui sfocia nell’arpeggio, stacca il fusibile dal circuito dimensionale dello spaziotempo, per tornare al presente.
Ci sono voluti 10 anni per comporre i 14 brani dell’album, un mosaico composto di altrettante metafore di vita, capace di riunire insieme, idee, emozioni, ritmi, armonie ed epoche diverse differenti.
Matteo Anelli, autore di quasi tutti i drums, accompagna gli Hyris/Bljak in questo percorso, con il “magico” intervento di Paolo Messere e il suo mixer. E’ pleonastico elencare i generi e sottogeneri cui sono legate le canzoni, così come spiegare nei dettagli il piano zodiacale dell’album, il suggerimento è di ascoltarlo e non perdere la traccia fantasma inserita dopo l’ultimo brano!

Il canale YouTube di Hyris Corp Ltd – Le canzoni
https://www.youtube.com/channel/UCwsrDOqbrl8aF_wZNZ72_CA

L’umanità frustrata di Friedrich Dürrenmatt

Friedrich
Friedrich Dürrenmatt

Fin dalle prime battute i racconti dell’autore svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921-1990) trasmettono la sensazione di vivere al di fuori della storia, in una terra di nessuno che oltrepassa le dimensioni della realtà, non identificabile. Sparisce un’appartenenza riconoscibile per lasciare il posto a una scena più ampia: quella dell’essere umano. Non c’è l’immagine della Svizzera felice, oasi culturale del provincialismo, depositaria di valori liberal borghesi, saggia, modello di convivenza pacifica. Non appare il Paese che in pochi anni a distanza dal secondo dopoguerra si è trasformato nel modello economico produttivo guardato come ‘miracolo’, con le sue banche e le sedi di multinazionali. Dürrenmatt ha bisogno di spazi diversi per uscire dalla ristrettezza, dall’immobilismo, dalla realtà angusta e opprimente, da quella, insomma, che alcuni autori del periodo, fra cui anche Max Frisch, definivano una specie di nevrosi difensiva elvetica. Ne sono nati racconti assolutamente singolari, a volte destabilizzanti, altre surreali o grotteschi, unico modo, secondo l’autore, per rappresentare l’umanità frustrata.

racconti

Nel racconto “Il Tunnel”, un giovane studente prende il treno per raggiungere l’università e quello che doveva essere un tragitto banale e quotidiano, si trasforma in un lungo, interminabile incubo. Il treno imbocca un tunnel che non finisce mai, tra l’indifferenza di passeggeri che non vogliono capire, controllori che non vogliono parlare, addetti ai bagagli che scendono al volo qualche minuto dopo la partenza, prima della catastrofe. Una caduta a picco che diventa verticale, in un abisso senza limiti. L’epilogo della folle corsa è sconcertante come nello stile abituale di Dürrenmatt. “La promessa” è il titolo che forse ha avvicinato di più il nome dell’autore al grande pubblico, perché trasformato in un bel film di Sean Penn con un bravissimo Jack Nicholson nella veste del protagonista, il commissario Matthäi. E’ la storia di una frenetica ricerca dell’autore del brutale delitto di una bambina di sette anni, ritrovata nel bosco. Uno scenario contrastante, dove il commissario non è creduto dai suoi stessi poliziotti e la realtà dei fatti è contraddittoria, in continua metamorfosi. Tutto diventa la negazione di tutto. In “La panne”, un commesso viaggiatore in panne con la propria auto, si ritrova improvvisamente coinvolto in una situazione inimmaginabile, un gioco crudele, quasi perverso, dal finale conseguente. I suoi soccorritori diventano giudici implacabili che lo inchioderanno davanti a responsabilità sempre negate, rimosse o che forse non gli competevano. Anche in questo caso il cinema ci viene incontro con un film di Ettore Scola, “La più bella serata della mia vita” liberamente tratto dal racconto. Ma forse l’effetto disorientante più emblematico, si trova in “La caduta”: il racconto esordisce con la descrizione di una movimentata festa, un buffet freddo a base di uova ripiene, prosciutto, toast, caviale, acquavite e champagne, che gli invitati di spicco, denominati semplicemente A, B, C, D, E, F, G, H, K, I, L, M, N, O, P, consumano con voracità, riempendosi la bocca, oltre che con le prelibatezze, con discorsi di facciata e grandi enunciazioni politiche contenenti il vuoto. L’atmosfera è quella di un ben camuffato campo di battaglia dove scontrarsi per il raggiungimento delle postazioni migliori di prestigio, come tante pedine su una scacchiera.
I racconti di Friedrich Dürrenmatt sono legati dalla metafora poliziesca attraverso la quale denunciare la smania di ordine e giustizia, fonte, secondo l’autore, di perversione e violenza. Ciò che spesso sfugge al giudizio dei tribunali può essere eticamente condannabile e viceversa. I meccanismi di indagine e di giudizio sono trattati con toni di pungente satira e spirito critico e l’autore vuole dimostrare una tesi ben precisa, attraverso l’utilizzo di trame investigative: il caso governa e determina i destini umani, il razionale non prevale sul caos, anzi. Solo chi ha sperimentato il disordine fino alle sue conseguenze estreme può riscoprire uno spazio in cui regna quella consapevolezza di sé non traducibile in parole, che può redimere dal caos postmoderno.
L’ultima pubblicazione dell’autore, poco prima della sua morte, è “La valle del caos”, ambientato in un isolato villaggio di montagna dove la vita ruota intorno a un centro terapeutico molto frequentato nel quale si incontra gente di ogni provenienza ed estrazione: gangster, gente comune, ricchi faccendieri e annoiati benestanti. Una fauna umana che compare, scompare, si incrocia per poi lasciarsi. Il caos. Un Dürrenmatt che non ha mai smesso di essere attuale, puntuale e pignolo osservatore dei comportamenti e dei fatti, critico superlativo della modernità disordinata e distruttiva.

Nuove famiglie, la carica degli ex:
quando genitori e coniugi non coincidono più

di Cecilia Sorpilli

Nuove tipologie familiari nascono e si affermano nella società di oggi. Cosa si intende per “famiglia ricostituita”? Di seguito un’interessante analisi sul fenomeno delle famiglie allargate e atipiche

L’universo Famiglia è composto da diverse costellazioni familiari; tra queste, una delle più diffuse è la famiglia ricostituita. Ultimamente questa tipologia familiare appare in molte fiction e film, segno che la società sta “normalizzando” questo nuovo modello familiare. Ma cosa si intende realmente per famiglia ricostituita?
Gli studiosi stanno ancora dibattendo sul termine più adatto per definirla: famiglie ricomposte, ricostituite, famiglie aperte, famiglie estese o nuove costellazioni familiari?
Sembra però che il termine più usato sia quello di “famiglia ricostituita” che è la traduzione dell’espressione inglese “reconstituted family” e indica una famiglia formata dopo un divorzio. Generalmente, infatti, questa famiglia è formata da un ex coniuge che vive con i suoi figli, il nuovo compagno o compagna, e gli eventuali figli di questo o questa, e a volte con i figli nati dalla nuova unione. Altri studiosi invece, preferiscono utilizzare i termini “famiglia ricomposta” o “costellazione familiare ricomposta” per indicare che in queste famiglie non vi è una sostituzione dei membri del nucleo precedente con quelli del nuovo, ma vi è un aggiunta; ai precedenti si aggiungono i nuovi membri della famiglia e la loro rete di parentela, formando così costellazioni familiari complesse. Laura Fruggeri, psicologa e psicoterapeuta e professore ordinario di Psicologia delle relazioni familiari presso l’Università di Parma, afferma che “la coppia genitoriale non coincide più con quella coniugale. In considerazione della sua particolare complessità, essa è stata definita da alcuni studiosi famiglia pluricomposta o, sotto il profilo strutturale, famiglia plurinucleare, con i figli che fanno da ponte tra un nucleo e l’altro.”
Le famiglie ricomposte possono presentare diversi gradi di complessità: un minor grado di complessità è presente quando uno dei partner viene da una separazione o convivenza da cui non sono nati figli, mentre un grado di maggior complessità si verifica quando entrambi i partner hanno figli nati dalle precedenti unioni, che vivono con loro, e nel tempo si aggiungono figli nati dalla nuova unione. Nel caso in cui la relazione del figlio con il genitore non convivente sia discontinua e labile, la famiglia ricomposta può divenire una risorsa grazie alla molteplicità di relazioni che vi si trovano al suo interno, tra sorelle, fratelli, nonni e altri parenti acquisiti. Questo insieme di relazioni può sostenere e compensare in parte il vuoto lasciato dalla assenza di relazione con il genitore non convivente. Anna Laura Zanatta, docente di Sociologia della famiglia presso l’Università di Roma La Sapienza, afferma che “Può crearsi così una rete di solidarietà familiare molto densa ed estesa, che va in un certo senso in controtendenza rispetto alla crescente nuclearizzazione e isolamento della famiglia contemporanea”.
L’allargamento delle relazioni, però, può anche creare difficoltà e momenti di criticità all’interno delle famiglie ricomposte perché è complessa l’identificazione e la definizione dei confini familiari. Non esistono modelli o regole per queste nuove costellazioni familiari a cui i membri possano riferirsi per affrontare le sfide e le criticità del quotidiano in un contesto di complessità relazionale; questo perché nella nostra società il modello dominante tende a rimanere il modello tradizionale di famiglia nucleare. Queste forme familiari non disponendo di un identità definita a livello sociale e giuridico faticano ad essere accettate dalla società. Molti genitori di famiglie ricostituite affermano di provare ansia al momento dell’ingresso dei propri figli in strutture educative, perché vengono messi a conoscenza di altre persone aspetti della loro vita familiare che spesso faticano ad essere compresi e quindi accettati all’esterno della famiglia.
Altra sfida per i figli di queste famiglie è quella di capire come poter chiamare il nuovo compagno/a del proprio genitore. Sembra che solitamente bambini e ragazzi si rivolgano a questa figura chiamandola per nome e questo evidenzia quanto i bambini sentano distante questa persona e non sappiano come definirla, non potendola così comprendere a pieno sia psicologicamente che socialmente. Anche da parte del nuovo compagno/a c’è la difficoltà di non sapere come gestire la relazione con i figli del proprio partner. Il terzo genitore, ovvero il nuovo convivente del genitore affidatario, si trova in una posizione complessa e incerta perché non ha modelli di riferimento a cui rivolgersi non essendo mai stata definita la sua identità né sul piano educativo nè giuridico. Questi genitori devono quindi creare nuove modalità per acquistare autorevolezza e rispetto agli occhi dei figli della compagna o del compagno, non dimenticando però che questi bambini/ragazzi hanno un altro genitore con cui mantengono un rapporto più o meno frequente, e che questo genitore spesso teme che la compagna o il compagno dell’ex coniuge possa degradarlo dal suo ruolo educativo e minacciare l’influenza che ha sui suoi figli.
Quando si costruisce una famiglia ricomposta gli adulti coinvolti devono quindi impiegare molte energie per creare un sistema di relazioni interne al nuovo nucleo ed esterne con gli altri nuclei coinvolti. Come spiega Fruggeri è importante vi sia “apertura di spazi al genitore acquisito per l’esercizio della genitorialità; -coalizione genitoriale-, cioè una coordinazione tra i genitori biologici e acquisiti per la definizione dei rispettivi ruoli nei confronti dei figli; infine, gestione flessibile dei confini dei nuclei familiari per favorire la pluriappartenenza ed evitare i conflitti di lealtà”.
La famiglia ricomposta o plurinucleare si discosta molto dal tradizionale modello di famiglia nucleare, ma non per questo deve essere considerato un modello familiare fallimentare; ogni tipologia di famiglia ha punti di forza e di criticità, come ogni persona che sceglie di appartenere a questo o altri modelli di famiglia.

Lo Spirito del tempo: se lo conosci, lo cambi

Spirito del tempo: è un’espressione adottata nella storiografia filosofica otto-novecentesca per indicare la tendenza culturale predominante (alias il ‘comune sentire’) in una determinata epoca. Una categoria interpretativa da cestinare o ancora attuale? Fu Hegel a utilizzarla per tenere in equilibrio la novità dell’emergere della soggettività moderna e la realtà oggettiva del mondo. Aveva capito che la caratteristica strutturale dell’epoca moderna (“…lo spirito dell’inquietudine e dell’instabilità, che caratterizza il nostro tempo…”) fa sì che l’ideale appaia alternativamente o a portata di mano o irraggiungibile. L’individuo moderno raggiunge la maturità quando riconosce che il mondo ha una consistenza che resiste alle sue astratte pretese. Quindi, il primo e indispensabile passaggio è capire il mondo in cui ci è capitato di vivere.

Oggi il mondo è quello della globalizzazione. Tutto si è aggrovigliato e complicato. E il rischio che Hegel intravedeva di una deriva ipocondriaca dell’individuo è aumentato in misura esponenziale. L’avvenire, oscurandosi, ha accentuato la sua natura di assoluta contingenza e appare affollato di forze che sfuggono al controllo degli uomini. Se si dovesse sintetizzare in una parola chiave la caratteristica dello Spirito del tempo di questa epoca non ne trovo una più pregnante di incertezza. L’incertezza si è insinuata negli animi degli individui come normale condizione di esistenza. Bisogna essere consapevoli delle sue conseguenze. L’incertezza è un atteggiamento che mette in crisi i legami sociali, compromette la fiducia reciproca, rende difficile e faticosa l’individuazione di alternative possibili vie d’uscita dalla crisi. E’ inutile pensare di uscire da questa situazione con un semplice atto di volontà.

Ancora una volta è un nuovo pensiero che ci salverà. Con un’avvertenza. Oggi l’impresa è difficile perché mentre il mondo è sempre più interconnesso, il pensiero è debole e frammentato. E per unificarlo non si può più ricorrere a un’ideologia capace di fornire risposte a tutto. Si è fatta più complessa la collaborazione tra la ‘talpa’ della storia che scava, e la ‘civetta’ della filosofia che interpreta. D’altra parte, le risposte del ripiegamento nazionalistico e dei suoi derivati (populismi, plebiscitarismi…) sono pericolose e non fanno che rinviare quelle più adeguate e congruenti con i valori positivi della modernità: la mondializzazione, l’inclusione, la giustizia sociale, la democrazia costituzionale, la libertà individuale responsabile. Ma chi vuole perseguire questa strada deve fare i conti con lo Spirito del tempo, che soffia contro i diritti e il progresso. Un’interessante ricerca realizzata dalla Fondazione Gramsci dell’Emilia-Romagna che ha preso in considerazione mille giovani tra i 18 e i 34 anni, ha confermato come la crisi di futuro abbia abbassato difese e aspettative. L’importante è avere un lavoro. I diritti e le condizioni in cui si svolge non sono considerati importanti. Sembra sia avvenuto un processo di interiorizzazione di una generica colpevolizzazione sulle cause della crisi economica e sociale. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di sopra delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nei diritti è entrata nelle menti ed è diventata sentire comune. Ecco perché una moderna sinistra riformatrice si trova oggi nelle condizioni di lavorare in salita e contro corrente. Ecco perché il pensiero unico non è cosa banale, né il frutto di un complotto delle multinazionali o dei liberisti cattivi. L’ottimismo della volontà è importante, ma senza l’intelligenza dell’analisi e della proposta si fa poca strada. Ed è cosa scellerata prendersela con le parti maggioritarie delle opinioni pubbliche che non capiscono ciò che al progressista pare così evidente. Forse siamo noi progressisti che non abbiamo capito che cosa hanno significato i crolli di speranze e utopie che animarono tanta parte del secolo scorso!

Ciò che si è sedimentato nel comune sentire è qualcosa di profondo, che ha lasciato una memoria di delusione, fallimento, scetticismo, sfiducia. Gli intellettuali di sinistra voltano pagina in fretta, ma le emozioni e le passioni che hanno fallito non si archiviano a comando. La realtà non si salta. La rosa del futuro è sempre ben conficcata dentro la croce del presente. Ed esiste anche un presente del passato che non è stato elaborato e che continua a condizionare le menti e i cuori. Il mondo si concede solo a chi sa capirlo e cambiarlo nella sua realtà effettuale. Chi se la prende con la realtà perché è uscita fuori dai cardini, può ritrovarsi solo, disperato e/o depresso. Oppure, diventare un gretto conformista. In fondo siamo sempre fermi alla domanda che si faceva un filosofo dei primi dell’Ottocento: “Il mistero è sempre questo: come sorge, come si produce dal vecchio il nuovo che è un ‘non ancora’ esistito nel pensiero?”

“Non sono solo canzonette”, il ruolo sociale dei cantautori nel mondo globalizzato

Il premio Nobel assegnato a Bob Dylan continua a far discutere: quale è il valore sociale dei cantautori? Quanto ancora si può differenziare la cultura alta da quella popolare?

Il premio Nobel a Bob Dylan ha sollevato un acceso dibattito: da un lato coloro che marcano la differenza ineliminabile tra letteratura degna di passare alla storia ed espressioni artistiche figlie di un certo contesto culturale, altri che hanno considerato opportuno allargare i confini del Nobel dalla letteratura accademica a quella meno nobile, ma di grande popolarità. I sostenitori della opportunità del premio hanno sottolineato che Dylan è riuscito a far arrivare la poesia dove non era mai arrivata e che attraverso la musica ha articolato gli slogan di una intera generazione: così afferma Lawrence Ferlinghetti, 97 anni, l’ultimo padre della Beat Generation.

Confesso di non avere le competenze musicali necessarie a formulare un giudizio di merito sulle canzoni di Bob Dylan. Non so se Bob Dylan sia un poeta, non vi è dubbio che ha tradotto in testi musicali temi, slogan e sentimenti di una generazione, in un certo senso è stato la colonna sonora di una fase storica. Propongo, quindi, alcune considerazioni che prescindono dal giudizio sul valore artistico del cantautore. Il premio Nobel ha certo perso la sacralità che aveva in passato anche per i fruitori delle opere d’arte che sono certo meno deferenti di quanto non fossero in passato: la cultura di massa – fatta eccezione per i campi di dominio della scienza – ha contribuito a rendere noti al pubblico molti dei nomi che formano l’ideale rosa di candidati. Inoltre, il premio non esprime più il giudizio inconfutabile degli esperti di un determinato campo artistico o letterario.

Nel merito, la scelta è in linea con il tentativo di colmare la distanza tra cultura alta e cultura popolare. Un tema non nuovo e già ampiamente discusso in Italia da Umberto Eco negli anni Settanta. Comprensibile che a Stoccolma maturi una sensibilità alle espressioni artistiche meno convenzionali. Anche per effetto delle comunicazioni di massa assistiamo ad una ampia ibridazione delle forme espressive: si mescolano i generi, i linguaggi, almeno quanto i luoghi della fruizione, nello stesso tempo la globalizzazione contribuisce a creare comunità di follower che si identificano con i personaggi più innovatori dei diversi ambiti espressivi. Ed è fuori di dubbio che la musica è un linguaggio che si presta più di altri – per l’immediatezza e per la socialità che trascina di per sé – ad essere un veicolo di identità. “Non sono solo canzonette” cantava Bennato negli anni Ottanta. Ogni generazione ha bisogno di miti per reggere la rottura con quelli del passato e la musica è un veicolo potente per diffonderli e creare risonanze e sintonie nel tempo della comunicazione globale.

La musica di Bob Dylan è stata senza dubbio la bandiera di una generazione. Ma di quale bandiera si tratta e quali valori sintetizza oggi? Vi è chi ha sostenuto che il premio a Dylan segnala la persistente vitalità di sentimenti antagonisti del movimento degli anni Sessanta. Una sciocchezza. Che cosa resta di vivo della cultura giovanile degli anni Sessanta? Non il piano della proposta politica che anzi ha generato, ben oltre l’influenza diretta del movimento studentesco, una gran parte di semplificazioni di cui paghiamo ancora oggi il prezzo. Resta invece viva la critica a concezioni della vita e della tradizioni non più compatibili con la nuova fase che gli anni Sessanta avevano aperto nel mondo, il contributo forte allo svecchiamento di modelli di costume e di vita imbalsamati in convenzioni, la messa in questione di stereotipi di genere, il principio di autodeterminazione e di libertà delle scelte personali, il diritto di ognuno alla libertà di sentimenti e di comportamenti. Tutto questo è ciò che ci resta di un movimento giovanile che ha trovato in Bob Dylan un interprete straordinario.

Maura Franchi insegna Sociologia dei Consumi presso il Dipartimento di Economia di Parma. Studia le tendenze e i mutamenti sociali indotti dalla rete nello spazio pubblico e nella vita quotidiana. maura.franchi@gmail.com

DOSSIER
Una scuola nuova è possibile/1

Comincia questa settimana l’analisi condotta da Giovanni Fioravanti su ipotesi e prospettive per una scuola nuova, finalmente aperta a concetti di organizzazione, apprendimento e formazione rivolti alle esigenze delle future generazioni

“Conoscenza significa incontrarsi, dichiararsi, riconoscersi. Attraverso l’incontro e le dichiarazioni, riconoscere ciò che ogni singolo alunno è e ciò che sono io, e cioè, in questo caso la proposta formativa, la strada che come scuola ti propongo di percorrere insieme”

Nonostante i numerosi ostacoli che negli ultimi decenni sono stati frapposti allo sviluppo di un discorso nuovo sulla scuola nel nostro Paese, facendoci scontare ritardi i cui risultati ci collocano agli ultimi posti delle classifiche internazionali, qualcosa credo di ormai irreversibile è maturato nella cultura delle nostre scuole.
Penso al rapporto tra saperi e competenze, penso alla necessità di dotarsi di strumenti di misurazione e di valutazione che forniscano importanti dati sul funzionamento del nostro sistema scolastico e dei suoi istituti, penso ad una crescente tendenza a personalizzare i percorsi di apprendimento. Potrei aggiungere altre importanti questioni come il tema dell’autonomia, delle certificazioni, dei debiti e dei crediti, l’etica della rendicontazione sociale e ancora altro. A riflettere, un lessico pedagogico inimmaginabile solo poco tempo fa. Certamente estraneo ai secoli da cui proviene il nostro sistema scolastico.
Ma soprattutto penso al tema dell’ambiente di apprendimento, alla necessità di progettare nuovi ambienti di apprendimento capaci di meglio supportare la formazione e la crescita delle generazioni del 21esimo secolo, penso che non possiamo continuare a ostinarci nel rimanere identici al passato.
Proprio per questo sono personalmente convinto che non è più rinviabile un serio e approfondito discorso sul modo d’essere delle nostre scuole. Non servono scorciatoie e non serve farsi prendere dall’urgenza, a meno che non si sia pienamente consapevoli che l’accelerazione forse può essere utile a recuperare un poco del tempo perduto, ma è ben lontana dall’avviarci verso quel “nuovo” di cui avrebbe bisogno oggi la nostra scuola.
Solo l’evocazione dei temi che sopra ho elencato dovrebbe essere sufficiente a suggerirci quanto essi facciano a pugni con una scuola che sostanzialmente da oltre centocinquanta anni continua a funzionare allo stesso modo. È possibile?

Come sono organizzate le nostre scuole
Proviamo a pensare come sono organizzate le nostre scuole.
In tanto le classi. Le classi si formano per età e di conseguenza anche l’insegnamento è programmato e impartito per età. L’aspettativa è che ad ogni anno scolastico corrisponda una certa quantità di apprendimenti acquisiti nelle diverse discipline del programma.
Chi stabilisce tutto ciò? Le disposizioni nazionali impartite dal ministero dell’istruzione o, comunque, entrate a far parte della normativa consolidata nel tempo.
La scansione annuale di quanto prescritto dalle disposizioni è compito delle scuole e al loro interno dei docenti, sia collettivamente che individualmente.
Potremmo rappresentarlo con un diagramma di flusso:
Ministero – Scuola – Docenti – Classe – Alunno

Per un malato preso a carico da una struttura ospedaliera avremmo un diagramma di flusso simile:
Ministero – Ospedale – Medici – Reparto – Paziente

Comune a questi due diagrammi è la partenza, costituta da un capo, da una testa che è una potestà sociale: il Ministero, espressione della volontà politica.
Quindi un luogo fisico, un edificio, una struttura logistica. Il personale che opera professionalmente, l’assegnazione a una frazione o particella della struttura. La fine è sempre l’individuo-persona.
Anche percettivamente si coglie che al di sopra della persona sta sempre dell’altro, dal politico, al fisico, fino ad organi che agiscono. Ad occhio si coglie la subordinazione, comunque la dipendenza.
Per ottenere un bene, un vantaggio, siamo disposti a sottostare a un ordine prestabilito.
Poiché dal macro non possiamo prescindere perché ci contiene e organizza la nostra vita, proviamo a pensare ad un ordine diverso per ottenere lo stesso bene. A noi interessa pensarlo per la scuola.
Una ipotesi potrebbe essere questa:
Ministero – Alunno – Scuola – Docenti – Classe

La prima cosa che si nota è come, così facendo, abbiamo accorciato la distanza tra il Ministero, potremmo dire la politica, e l’alunno, tra la partenza e quella che precedentemente era la fine.
Cosa significherebbe questo in concreto? Significherebbe che il Ministero, cioè l’espressione della politica, deve in primis farsi carico dell’alunno, occuparsi di lui.
Del resto nessuno oggi oserebbe negarne la centralità, ma potremmo osservare, en passant, che la centralità è prevista nel processo educativo, non in quello politico.
Eppure, è forse il caso di riflettere che, se all’accoglienza dell’alunno si antepone la scuola, questa non può che essere burocratica, per cui su tutto prevale il principio della certificazione, della rispondenza, della attestazione, si ricercherà, dunque, una sua collocazione corrispondente ai principi di questa autenticazione prestabilita. È facile comprendere che questo è il primo passo per portare a compimento il tradimento della dichiarata centralità dell’alunno.
L’età anagrafica è un accidente cronologico, non può essere la sintesi della sostanza di una persona. Emerge che ciò su cui bisogna decidere è se deve prevalere la somma degli anni accumulati o l’individuo.
Nel nostro diagramma la scelta è compiuta: l’alunno.
Allora cosa significa nei fatti per l’alunno, entrando a scuola, incontrare gli insegnanti anziché la classe? Prima di tutto essere accolto come singolo, come persona con una storia, che chiede di vivere parte della sua vicenda nella scuola che ha eletto. E la scuola è il luogo dove operano le persone che professionalmente sono preparate per accompagnarlo in questo percorso.
Per fare questo bisogna conoscersi. La conoscenza diviene il primo atto e dovere di ogni accoglienza scolastica. Conoscenza significa incontrarsi, dichiararsi, riconoscersi. Attraverso l’incontro e le dichiarazioni, riconoscere ciò che ogni singolo alunno è e ciò che sono io, e cioè, in questo caso la proposta formativa, la strada che come scuola ti propongo di percorrere insieme.

La Proposta Formativa
Ecco il punto di partenza del lavoro di ogni scuola: conoscere ogni soggetto prima di agire. Dovremmo fare precedere l’accoglienza all’iscrizione e fare assumere all’atto di iscriversi una natura diversa, di cui dirò più avanti.
È difficile, è impossibile? Non credo. Così facendo non si riescono a formare le classi in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, con ritardi nella formazione degli organici?
Proviamo a simulare. Prima di tutto distinguerei tra gli alunni che si iscrivono per la prima volta e quelli che già frequentano la nostra scuola.
In secondo luogo passerei a definire la funzione docente, non più come sancita dall’articolo 395 del T.U in materia di Istruzione, D. Lgs. n. 297 del 16 aprile 1994: «La funzione docente è intesa come esplicazione essenziale dell’attività di trasmissione della cultura […]».
Ma come successivamente descritta dal coesistente articolo 26 del CCNL della scuola del 2009, quindici anni dopo: «La funzione docente realizza il processo di insegnamento/apprendimento volto a promuovere lo sviluppo umano, culturale, civile e professionale degli alunni […]. In attuazione dell’autonomia scolastica i docenti […] elaborano, attuano e verificano, per gli aspetti pedagogico–didattici, il piano dell’offerta formativa, adattandone l’articolazione alle differenziate esigenze degli alunni e tenendo conto del contesto socio – economico di riferimento, […]».
C’è incompatibilità tra i due articoli? Certamente no. Ma il contratto del 2009 esplicita come l’attività di trasmissione propria della funzione docente debba essere interpretata: non è la relazione frontale docente-alunno il perno, bensì la funzione organizzatrice e mediatrice degli apprendimenti propria degli insegnanti.
Su tutto prevale, non la scuola e i docenti, che restano nella dimensione dei mezzi, degli strumenti, delle risorse umane e professionali, ma l’organizzazione e la mediazione degli apprendimenti in funzione della peculiarità di ogni singolo alunno che alla scuola si rivolge. Ciò comporta che a monte la funzione docente si sia esplicata nella traduzione della prescrittività dei programmi e delle indicazioni nazionali in percorsi di apprendimento o, se vogliamo usare un termine più appropriato, in piani di studio.
Cosa significa tutto ciò in concreto? Significa che a priori è necessario sistematizzare i saperi e le competenze proprie di ogni disciplina in un algoritmo. Algoritmizzare i percorsi di apprendimento, sostituendoli alla vacuità delle tradizionali programmazioni didattiche e dei piani dell’offerta formativa. È compito dei docenti di ogni disciplina individuare i saperi e le competenze, temporalizzarli in livelli di apprendimento, assegnando ad ognuno un valore o credito, fino alla certificazione finale del ciclo di studi, primo, secondo, biennio e triennio delle superiori. Il sistema dei crediti, in uso in tutto il mondo e che anche l’Europa ci chiede, dovrebbe essere il meccanismo migliore. Indicare come nel percorso di studi di quella disciplina si procede da un livello inferiore a quello superiore e la somma dei crediti necessari per ogni disciplina alla certificazione del superamento del ciclo di studi.
Ogni scuola così facendo si doterebbe di piani di studi o percorsi disciplinari, dove per ogni disciplina è chiaramente esplicitato, a prescindere da chi sarà il docente:
1. Che cosa si deve apprendere e saper fare;
2. La scala dei livelli di apprendimento;
3. Quanto vale, in termini di crediti, nel percorso di formazione individuale quello che viene appreso;
4. Quando si può considerare concluso il percorso di apprendimento per quella disciplina;
5. Le modalità di verifica degli apprendimenti, gli strumenti di misurazione e i criteri di valutazione.

La scuola non si presenta più con un generico, spesso impolverato, Piano dell’Offerta Formativa, ma con la qualità di una concreta e scandita proposta di studio, disciplina per disciplina, della quale è chiamata a rendere conto socialmente, con la quale si fa carico di ogni singolo studente, con cui concorda l’impegno e il lavoro richiesti e quanto questi valgono nel suo percorso formativo.
Insomma il POF perderebbe la “O” per divenire PF: Proposta Formativa. Da un indistinto piano dell’offerta formativa, a una precisa, articolata, qualificata proposta formativa.

Il Patto Formativo
Abbiamo scritto per ogni disciplina un percorso di apprendimento suddiviso in passi, in step, assegnando ad ogni passo un valore o credito. Perché l’abbiamo fatto? Per garantire flessibilità ai nostri percorsi, non tutti hanno la stessa gamba nel camminare, c’è chi ha bisogno di riposare prima di riprendere il cammino, c’è chi corre più veloce. Ma qui non si torna mai indietro, ciò che è stato percorso deve essere acquisito una volta per tutte, è già stato conquistato, piccolo o grande che sia, tanto o poco.
Se questa flessibilità non fosse prevista in partenza, difficilmente potremmo assolvere a quel compito proprio degli insegnanti di adattare “l’articolazione” della Proposta Formativa “alle differenziate esigenze degli alunni”.
Ecco l’incontro, l’accoglienza, la conoscenza: il patto formativo che la scuola stipula con ogni singolo alunno e la sua famiglia. Se vieni in questa scuola dovrai fare questo, se vorrai progredire nei tuoi studi, ma puoi scegliere come articolarlo.
Il patto formativo, quindi, non prevede solo di cosa è lastricato il cammino dell’apprendimento, deve concordare anche come ogni singola ragazza e ragazzo, ogni singola bambina e bambino può o intende percorrerlo. Ecco la flessibilità. Concreta, reale, pensata non in funzione della scuola o degli insegnanti, ma in funzione del soggetto che apprende.
Motivazioni, compiti, tempi, ci diceva Bloom, sono le variabili e le caratteristiche dell’apprendimento scolastico. Allora bisogna agire su tutte queste tre varianti, perché non sempre sono sincroniche, l’esperienza ci suggerisce la prevalenza della loro diacronia.
L’incontro tra famiglia, alunno e scuola deve concludersi con la individualizzazione del percorso di apprendimento scelto, per cui non tutti gli alunni della stessa età in quell’anno scolastico faranno tutti le stesse cose. Servirà per concordare quanti crediti per ogni disciplina ogni alunno intende acquisire, se per tutte le discipline o per una parte di esse, o per ogni disciplina, o alcune di esse, una sola parte dei crediti previsti dalla proposta formativa. In questo modo viene disegnato il percorso scolastico di ciascun alunno e siglato con la famiglia il patto formativo che corrisponde ad una somma di crediti sul totale dei crediti necessari al compimento del ciclo di studi.
Solo dopo aver concluso il patto formativo si procede all’iscrizione dell’alunno che non verrà inserito o assegnato ad una classe secondo l’età cronologica, ma bensì a un percorso di apprendimento, corrispondente a quanto concordato tra scuola e famiglia nel patto formativo. Per ogni disciplina si avranno blocchi di percorsi formativi comuni o simili che consentiranno alle scuole di quantificare le necessità di organico, non più calcolate sulle classi, ma sul monte ore da coprire disciplina per disciplina.
Penso che l’esperienza e il tempo consentiranno alle scuole di elaborare alcuni patti formativi standard in grado di rispondere alle più diffuse esigenze di individualizzazione dei percorsi di apprendimento, inoltre, se effettivamente si giungesse ad assegnare ad ogni scuola un organico funzionale, tutto sarebbe più semplificato ed ogni scuola sarebbe in grado di offrire alcune flessibilità piuttosto che altre.
Se ipotizziamo un istituto comprensivo con mille studenti tra primo e secondo ciclo e che ogni anno si abbia il 35% di nuove iscrizioni, si tratterebbe di concludere 350 patti formativi. Spaventa?
Non direi. Impegnando sette docenti tra primaria e secondaria (ma questa distinzione non è necessaria per forza di cose, essendo la Proposta Formativa patrimonio di tutta la scuola) si potrebbero portare a compimento in una decina di giorni nei mesi di gennaio e febbraio, anche marzo se necessario.
E gli alunni già iscritti? Al termine dell’anno, anziché trovarsi la pagella, che insieme ai voti e alle bocciature scomparirebbe, per lasciare il posto ai crediti e a eventuali debiti da saldare, concordano con l’insegnante di ogni disciplina, sulla base del rapporto crediti-debiti accumulati, come proseguire il loro percorso. La somma di questi accordi costituirà il loro patto formativo per l’anno scolastico successivo, che la scuola provvederà a comunicare alle famiglie.
Mi sembra che così procedendo il rischio di iniziare l’anno scolastico con i percorsi di apprendimento non organizzati e senza l’organico docente necessario sia in gran parte scongiurato.

continua la prossima settimana

LA SFIDA Oltre 146mila chilometri di onde in 137 giorni:
è partito il giro del mondo in solitaria di Gaetano Mura

L’Ocean Racer di Cala Gonone il 15 ottobre è partito da Cagliari per battere il record nella circumnavigazione del globo in solitario, senza assistenza e senza scalo, a bordo di un Class40.
Il suo viaggio durerà – questa è la speranza – meno di 137 giorni, cioè quanto ha impiegato il cinese Guo Chuan nel 2013 per completare la stessa impresa con un Class 40, barca a vela di 12 metri.

Farà da “prototipo” per lo studio del fisico e della psiche sottoposti a condizioni estreme, farà da ambasciatore di cibi naturali patrimonio della cultura gastronomica della Sardegna, sarà una centralina vivente che, per quattro mesi in mare aperto, osserverà le condizioni ambientali di mari, oceani e dei loro abitanti, sarà testimonial d’eccellenza per il rilancio della sua regione, ma sarà soprattutto il protagonista di un’avventura al limite delle possibilità umane: battere il record sul giro del mondo in solitario senza assistenza e senza scalo, a bordo di un Class40, barca a vela da regata di 12 metri.
L’Ocean Racer sardo, Gaetano Mura, è partito dal porto di Cagliari il 15 ottobre e per oltre 4 mesi cercherà di compiere un’impresa che fino ad oggi è riuscita solo al cinese Guo Chuan, che l’ha portata a termine in 137 giorni.
La sostenibilità e l’ambiente sono stati sempre al centro delle avventure marine di Gaetano Mura. Anche questa volta registrerà con mezzi televisivi e fotografici le condizioni dei mari e degli oceani che attraverserà e sarà anche un testimone “oculare” di tutte le forme di vita che incontrerà.
Il “Solo Round the Globe Record” il giro del mondo a vela che si svolgerà sotto l’egida dell’Enit e della Regione Sardegna.
“L’avventura sta per cominciare – ha dichiarato Gaetano Mura – è più di un anno che mi sto preparando. Molti mi paragonano ad un’astronauta che deve affrontare la solitudine dello spazio e le sfide di un viaggio ai limiti. Anche io dovrò affrontare per mesi la solitudine del mare, imprevisti e difficoltà estreme. Ciascuno ha la sua storia e un sogno. Il mio sogno è quello di portare a termine questa avventura in cui credo e metto tutto me stesso”.
Un viaggio che per Mura assomiglia a quello di Ulisse ed è, come ci ha raccontato, “un tuffo dentro se stesso, una via per conoscersi meglio, scoprire limiti e risorse di un “essere umano”.
E se questo non bastasse, c’è un aspetto di “Gaetano fuori dall’acqua” che vogliamo ricordare. Gaetano ha collaborato con il Museo di Arte Moderna di Nuoro assieme a giovani artisti, ha partecipato a festival letterari e culturali con i suoi documentari, si è dedicato ai ragazzi di Cala Gonone, trasferendo loro i primi rudimenti della vela. Dà il suo contributo a Diahiò – il diario della legalità distribuito in tutte le scuole della Sardegna, progetto dedicato al rispetto delle regole promosso dalla Questura di Nuoro. Raccontare l’oceano, il rispetto dell’ambiente e del mare a un pubblico di tutte le età è certamente fra le sue priorità.

La sfida
Il giro del mondo in oltre 4 mesi si snoderà dal Mar Mediterraneo (la partenza ad ottobre è prevista da Cagliari) attraverso l’Oceano Atlantico fino al Capo di Buona Speranza, poi in senso orario attorno all’Antartide, lasciando a sinistra Cape Leeuwin (Australia) e Capo Horn, per ritornare infine nel Mediterraneo. Un percorso di 25.000 miglia nautiche (46.300 chilometri). Buona parte si svilupperà in mari ostili, con condizioni meteo estreme, al limite dei ghiacci antartici. Per gestire una navigazione in solitario ed indipendente verrà utilizzata la tecnica dei “microsonni”, ossia veglie di 2 ore alternate a sonni di 20 minuti. I soli compagni di viaggio di questa traversata saranno gli iceberg, le balene, gli abitanti tutti del mare, le raffiche di vento che possono superare i 100 km orari e le onde fino a 10 metri. L’impresa sarà compiuta a bordo di un Class 40, una barca da regata ‘monotipo’ di 12 metri allestita ad hoc per questa impresa.

La salute prima di tutto, Mura come centralina bio-medica
Gaetano Mura sarà sotto osservazione medica giorno dopo giorno, si tratta infatti di un’occasione unica per studiare le risposte e gli adattamenti di un organismo umano alla prolungata permanenza in condizioni ambientali estreme. La sfida è stata raccolta da un gruppo interdisciplinare di studiosi e ricercatori che fanno capo ai professori Vincenzo Piras, Alberto Concu e Maurizio Porcu, del sistema ospedaliero universitario di Cagliari. Alterazione delle concentrazioni ematiche e di importanti fattori essenziali per il funzionamento del sistema nervoso, della produzione di forza muscolare e della capacità contrattile del cuore, frammentazione del sonno con aumento dei tempi di reazione a stimoli visivi; sistema immunitario sotto stress: questi alcuni dei rischi cui è sottoposto un velista.
“Per controllare lo stato psicofisico di Mura –spiega il team sardo di ricerca – è previsto il monitoraggio in remoto di numerosi indicatori dello stato di funzione dei principali organi. Questo controllo avverrà quotidianamente e regolarmente attraverso sistemi sicuri, non invasivi e di facile applicazione.
Il gruppo di ricerca ha progettato e messo a punto una piattaforma informatica ICT estremamente avanzata, che consentirà, tramite l’acquisizione h24 di segnali trasmessi dai rilevatori indossati da Gaetano Mura, il controllo dell’andamento nel tempo degli indicatori vitali relativi alle funzioni cardiorespiratoria, nervosa centrale, muscolare e metabolica, idrico-salina e urinaria. I principali sistemi bio-medici di controllo e acquisizione dati sono il Remote Cardiac Output Recorder, il Telemetric Brain Tracking e la Photogrammetric Motion Analysis.

Un’ impresa per rilanciare l’immagine della Sardegna e monitorare l’ambiente
L’impresa di Gaetano Mura si inserisce nella strategia di rilancio del turismo sardo. “Sardegna Isola Del Vento” è, infatti, il brand che accompagna il progetto di sostegno agli sport velici di cui il velista sardo è sicuramente uno dei maggiori ambasciatori.
Gli sport del mare, parte consistente dell’offerta del turismo in Sardegna, sono uno straordinario attrattore nel corso di tutto l’anno, così come sono uno straordinario veicolo di promozione gli eventi velici che vedono sardi e la Sardegna protagonisti: attraverso appuntamenti affascinanti e di valore mondiale come la regata in solitaria di Gaetano Mura. L’impresa creerà infatti interesse per l’isola e servirà da piattaforma mediatica per accrescere l’attenzione sulla Sardegna e il suo ritorno d’immagine della Sardegna, in particolare attraverso i canali social e i media più attuali.
La sostenibilità e l’ambiente sono stati sempre al centro delle avventure marine di Gaetano Mura. Anche questa volta registrerà con mezzi televisivi e fotografici le condizioni dei mari e degli oceani che attraverserà e sarà anche un testimone “oculare” di tutte le forme di vita che incontrerà.

Il video su Ispra TV, la tv dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.
http://tv.isprambiente.it/index.php/2016/07/26/mura-around-the-globe/

“Io costruttore di chitarre e bassi”. Intervista a Francesco Bedini, giovane liutaio ferrarese

di Raffaele Cirillo e Vittorio Formignani (Scuola di Musica Moderna di Ferrara)

Dedicare la propria vita alla musica, oggi più che mai è una scelta audace in quanto non offre grandi prospettive né di guadagni né di carriera. Questo è vero non solo per chi gli strumenti li suona, ma anche per chi li costruisce. Siamo quindi andati a trovare Francesco Bedini, un giovane liutaio ferrarese che ha recentemente aperto il suo laboratorio in Via Ripagrande a Ferrara. Grazie alla formazione mista fra liuteria classica e moderna, Francesco Bedini unisce tradizioni antiche di secoli e nozioni più moderne per creare strumenti musicali perfetti sotto ogni punto di vista.

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Cosa ti ha spinto alla scelta economicamente rischiosa di diventare liutaio?
È nato tutto un po’ per caso, finite le superiori volevo fare il chitarrista e mi sono iscritto al DAMS, dopo un anno però mi sono ritirato e ho fatto dei lavoretti in giro. Per caso sono entrato in contatto con la scuola di liuteria di Parma e, una volta entratoci, mi sono innamorato della professione di liutaio e ho fatto due anni di corso ordinario ed un terzo di master.

Come funziona il percorso di apprendimento da liutaio?
Si andava a scuola a settimane alterne e si lavorava otto ore al giorno. Il lavoro era essenzialmente pratico: la teoria si imparava sul campo. Inizialmente costruivo strumenti ad arco, o strumenti antichi, ma poi mi sono stancato di fare violini: volevo fare chitarre e allora sono andato da Galeazzo Frudua, liutaio ufficiale di Andrea Braido, l’allora chitarrista di Vasco Rossi, che ho avuto la fortuna di conoscere. Da Frudua ho fatto due corsi: uno su set-up e uno su riparazione, si è trattato di due corsi molto belli ma allo stesso tempo molto pesanti e impegnativi.

Quali sono le maggiori difficoltà che hai incontrato nella tua carriera?
Le maggiori difficoltà riguardano l’aspetto economico, in particolare nel momento in cui si decide di aprire la propria attività: le tasse sono veramente gravose e i costi per le attrezzature sono ingenti. Anche l’istruzione ha i suoi costi da considerare: io per potermi pagare il corso passavo le settimane in cui non avevo lezione a lavorare anziché a studiare. Anche adesso che ho ormai avviato l’attività faccio molta fatica, dal momento che praticamente tutto ciò che incasso lo spendo in tasse. Nonostante ciò, anche se guadagno poco e lavoro molte più ore dei miei coetanei sono soddisfatto di ciò che faccio in quanto ho la fortuna di aver trasformato la mia passione in mestiere, mestiere che fra l’altro mi permette di avere un rapporto diretto con i clienti.

Sei soddisfatto dei risultati raggiunti fra costruzioni e riparazioni?
Come costruzione sono abbastanza contento, e vedo che la gente inizia ad apprezzare e a conoscere i miei prodotti soprattutto grazie ai social. Tuttavia per ora costruire è quasi più uno sfizio mio, la cosa divertente e che nonostante mi sforzi a creare nuove combinazioni di colori o forme particolari la gente apprezza sempre le forme più classiche. Come riparazioni sono veramente molto contento.

È meglio uno strumento artigianale o uno costruito in serie?
È meglio ciò che piace al cliente. Ogni chitarrista è diverso e ha una mano diversa, quindi preferenze diverse e spesso influenzate dal primo strumento con cui ha imparato. Tornando alla tua domanda sono due mercati diversi, ma bisogna dire che per le marche famose la qualità è scesa in modo disastroso. Io personalmente consiglio per chi non ha molto da spendere di prendere una Fender messicana o una Epiphone per poi modificarne l’elettronica, così da farla suonare meglio di un’americana, il cui unico vantaggio sta ormai nella rivalutazione. In ogni caso, a mio avviso, come qualità del prodotto finale non c’è paragone rispetto a una chitarra prodotta da un liutaio indipendente: nelle “grandi marche”, per far fronte alla crisi o per aumentare i guadagni hanno abbassato i loro costi di produzione, risparmiando sui materiali, anche per me è stato triste accorgermi che attualmente nelle Fender e nelle Gibson c’è quasi più colla che legno.
In ogni caso io ho la fortuna, al di là dell’aspetto economico, di essere libero nelle mie creazioni, un liutaio dipendente di Fender o per Gibson, per quanto riguarda le sue costruzioni, ha le mani legate; inoltre fra noi liutai moderni c’è molta solidarietà: io e i miei colleghi di Modena e Padova, che pure sono i miei diretti concorrenti, collaboriamo moltissimo scambiandoci pareri e favori, questa è una caratteristica comune a tutto l’ambiente musicale.

Qual è la creazione che ti ha dato più soddisfazione?
Mi piace molto il modello di color legno [in foto, ndr] per i due tipi di legni che ho utilizzato: la parte centrale dove ci sono i pick up è in acero che permette di avere un attacco alla chitarra tipo Stratocaster, invece le due ali sono in mogano e danno il suono grosso tipo Gibson. Sono affezionato a questa chitarra perchè si è trattato di un progetto di costruzione mia personale.

Hai mai costruito uno strumento di cui ti sei affezionato e che non avresti voluto vendere?
Sì, proprio quella di cui abbiamo appena parlato. Mi è dispiaciuto perché era quella di cui ero più contento, l’ho venduta ad un ragazzo di Brescia che è diventato il mio dimostratore ufficiale, e gliel’ho venduta perché ogni volta che giravamo per fiere lui veniva allo stand a chiacchierare e prendeva la chitarra per suonarla, si vedeva che gli piaceva e alla fine mi ha convinto a vendergliela. Però non l’avrei ceduta a nessun altro. In genere mi succede così con tutti gli strumenti che faccio a livello dimostrativo.

Quali sono le abilità che servono per fare il tuo mestiere?
La pazienza: sono tutte cose tecniche non c’è niente di magico, solo pazienza e determinazione.

Hai mai perso la voglia di continuare?
No, per ora no. A me piace quello che faccio, avevo messo in conto che ci sarebbe voluto tempo per iniziare ma sono contento. L’unico sconforto sono le tasse.

La liuteria è arte o artigianato?
Tutte e due, dipende cosa fai, dipende cosa vuol dire arte oggi giorno. Alcuni dicono che l’arte esiste solo quando non si cerca il profitto.

Giocando con l’eternità
I primi 70 anni di Roberto Pazzi, il “re della parola”

di Eleonora Rossi

Alla Biblioteca Ariostea si celebrano i 70 anni di Roberto Pazzi, uno dei più noti poeti e scrittori della scena letteraria ferrarese.
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Metti un pomeriggio della vita.
Hai da poco compiuto 70 anni e i tuoi amici e i tuoi lettori parlano di te, di quello che hai scritto nei tuoi tanti libri. Di tutto quello che hai lasciato.
Tu sei lì seduto ad ascoltare e sorridi, pregustandoti una fetta di eternità.
“Il sentimento dell’eternità non è solo dei preti, è dei poeti”.
Per il suo settantesimo compleanno Roberto Pazzi si regala una festa alla biblioteca Ariostea e una passeggiata speciale al di là della dimensione presente, “guardandosi dall’oltre”.
Lo scrittore si mescola al pubblico, ascolta, applaude, annuisce e si accarezza la barba, uditore invisibile degli interventi che parlano di lui, della sua poetica, della sua scrittura. Giocando a essere spettatore di se stesso – in un giorno che lo celebra e lo consacra – inseguito da Dalia Bighinati che continua a richiamarlo ironicamente al suo posto: davanti alla telecamera.
Con un sorriso leggiadro Roberto Pazzi sul finale riappare e invita il suo pubblico a vivere tutte le dimensioni del tempo, a immaginare quello che sarà (“non c’è niente di funebre in questo”) quasi a esorcizzare un territorio inesplorato, se non con la scrittura. L’eternità come una casa nuova da visitare. Per ritornare infine qui.
Ne parliamo con lui.

“Auguri, amato poeta e scrittore”. Come è nata l’idea di festeggiare il compleanno alla Biblioteca Ariostea?
È stata un’idea degli amici. Ero a Zurigo con Gerardo Passannante, avevamo presentato due dei nostri romanzi storici. Il 18 agosto avevo compiuto gli anni e lui mi chiese come mi avrebbe festeggiato la mia città. Ne ho parlato con Matteo Bianchi e Annarosa Fava e insieme a loro abbiamo organizzato un pomeriggio all’Ariostea, ci sembrava il luogo ideale per gli auguri a uno scrittore.

Il saluto del vicesindaco Maisto, le relazioni accurate e i ricordi di Matteo Bianchi, Alfredo Luzi, Gerardo Passannante, Serena Piozzi, Anna Maria Quarzi, Paolo Vanelli, Ranieri Varese, Sandra Vergamini. Che cosa ricorderà di martedì 11 ottobre 2016?
Mi è sembrato un sogno. Mi sono sentito straniato, proiettato in una dimensione nuova. Come fossi altrove e potessi vedere la mia vita con il cannocchiale rovesciato: dal punto di vista di chi ha svolto il “compito” e lo ha svolto in maniera coerente con i propri sogni.

La sala Agnelli della Biblioteca era gremita. C’erano tutti gli invitati?
Alcuni cari amici come Giulio Ferroni, Dacia Maraini e Alberto Rossatti non sono riusciti ad esserci. Mia madre ha 92 anni e non esce di casa, mia sorella era impossibilitata a venire. Ma chi non era presente era impegnato al lavoro e mi ha avvisato: ho sentito l’affetto sia di chi c’era sia chi non ha potuto partecipare.

Conosceva già il contenuto degli interventi o è stata una “sorpresa di compleanno”?
No, non sapevo nulla. Conoscevo solo il titolo degli interventi, così li ho assaporati ‘in diretta’. Con molta attenzione e curiosità.

È stato un pomeriggio denso, ricco di letture approfondite e trasversali per esplorare e ripercorrere una produzione vastissima: 19 romanzi – tradotti in 26 lingue – in cui lei ha raccontato il potere, i misteri del Vaticano, il sentimento del tempo e della mancanza. E Ferrara, città amata/odiata, ma soprattutto sognata. Non solo romanziere pluripremiato, ma poeta, giornalista e commentatore, conferenziere nel mondo, insegnante nei corsi della sua scuola creativa “Itaca”. Orgoglioso di tanti successi, abbiamo visto un Roberto Pazzi sorridente, capace di trasmettere un vitale ottimismo, un equilibrio solare.
Avverto un profondo sollievo, sento di aver assolto il dovere di una vita. Mi sento capito, compreso, accolto. Mi sembra di essere il personaggio del mio romanzo “La trasparenza del buio”, che si domandava “è stata veramente la mia vita o un sogno?” Tolti gli aculei, le spine dell’esistenza, resta infine la rosa.

Nello stesso modo si percepisce un inarrestabile entusiasmo creativo: ne sono esempio le 14 poesie inedite che ad agosto sono sbocciate una dopo l’altra. Un autore che – oltre a quello che ha già scritto – ha ancora molto da raccontare. A marzo infatti dovrebbe uscire il nuovo romanzo. Ci può dare qualche anticipazione?
Il mio nuovo romanzo si chiamerà “Lazzaro”: è un’ossessione, un sogno. Il Lazzaro evangelico non obbedisce all’invito a risvegliarsi. È una storia doppia. Un impasto di misticismo e di erotismo. Un testo surreale, magico, alla Bulgakov. Con incursioni del Diavolo.

Dunque una nuova avventura in bilico tra vita e morte, amore e tempo, corpo e anima.
Il critico Paolo Vanelli ha sottolineato come “la letteratura sia il regno del soprannaturale” e come la scrittura pazziana sia “un discorso che oscilla continuamente tra il filosofico e il teologico”. Perché chi scrive ha il bisogno forte di attingere a un Altrove.
Occorre guardare oltre. Spostarsi nel tempo. Viaggiare nel passato e immaginare quello che non è ancora. Serve uno sguardo visionario. La vista uccide la visione, che è la capacità di sognare ad occhi ben chiusi.

Sognare. Irrinunciabile per Roberto Pazzi. “Oggi sono tutto quello che ho sognato” è l’ultimo verso di una poesia splendida che ci ha consegnato nella giornata degli auguri.
Dal pozzo della memoria
Mi ritorna tutto su,
dentro l’estate un’altra estate,
in una via le molte attraversate
piene di gente con scarpe che non si portano più
nei vestiti che passano di moda,
le martingale, i colletti di pelliccia,
i pantaloni a zampa di elefante,
le camicie di popeline,
il gusto che della mente muta,
il sapore del vino che mente alla memoria
al fondo del bicchiere
chiama alla lingua i primi sorsi più golosi
e l’età bambina quando non potevo berne,
“fa male ai grandi, figurati a te”
ammonivano a tavola.
Ora che posso berne da star male
che posso andare dappertutto
senza chiedere permesso,
mi pare bella solo l’età dei limiti
e dei permessi, quando
come dal fondo di un pozzo
guardavo me affacciato lassù in alto
che mi sporgevo a spiarmi nel buio,
sognavo laggiù quel che sono oggi quassù,
oggi che sono tutto quello che ho sognato.
(Roberto Pazzi, Dal pozzo della memoria, poesia inedita)

Che cosa sognava Roberto bambino?
“Da bambino mi credevo re” (recita a memoria). L’ho scritto in un’altra mia poesia della silloge “Talismani” (Marietti, 2003): “Io, con la gran coperta da letto dei miei/ sulle spalle, da bambino mi credevo re, / in cucina ricevevo personaggi, /decidevo le guerre e le paci, /facevo politica mondiale./ Questa storia è andata a finir bene/ perché non è finita: non abbiamo/ più smesso di giocare”.

Oggi Roberto Pazzi è “re della parola”.
Ho trasformato la regalità del potere nella magia della parola. La carne si sublima nella carta. Nella parola che salva.

E a proposito della “parola che salva” è stata toccante la lettura delle poesie inedite – struggenti, umanissime – nell’intervento finale, l’ultimo del pomeriggio. Il pubblico era incantato quando, padrone del palcoscenico, Roberto Pazzi ha afferrato il microfono e ha letto le sue composizioni, accese dal “fuoco interiore” di cui ha parlato Sandra Vergamini. Versi che sembravano dire “Innamòrati”, “non smettere di desiderare”: “ho visto un altro bel viso da baciare,/ chiudiamo gli occhi, ancora per amore”.

Ancora per amore
Non si ferma la frana delle forme
e la forza delle dita di afferrare
il frutto proibito è quella d’una volta,
la ruota non si fermerà
macinerà nuovi primati e conquiste,
anche se la vita in vista del ritorno
si riposa volgendosi a guardare
tutta la via percorsa, le perdite di tempo,
la fretta, i pochi incontri veri,
le forme ingannevoli di un solo volto
inseguito nel piacere più squisito,
sempre lo stesso nei molti amati,
ma è presto, restiamo qui ancora un poco,
del mio tempo rimane il più prezioso e raro,
ho visto un altro bel viso da baciare,
chiudiamo gli occhi, ancora per amore.
(Roberto Pazzi, Ancora per amore, poesia inedita)

E in questi versi, così come negli occhi dello scrittore, occhi che sorridono insieme a lui, benevoli, si respira un sentimento autentico, viscerale: Roberto Pazzi ama la vita.
Sì, amo profondamente la vita. Alla fine della vita la amo ancora di più.

Noi contro la ‘democrazia’ della droga. La nuova comunità semiresidenziale nel cuore della città

Nasce a Ferrara la cooperativa “Palaur” che affianca i giovani nella battaglia di emancipazione dalla dipendenza da alcol e droga.

“La droga è la cosa più democratica che c’è in Italia” afferma Alice e nei suoi occhi c’è la consapevolezza di chi ha visto tanti giovani farsi rubare la vita dalla “roba”. Le fa eco Paola: “Un giovane fa una serata, un amico gli offre una pastiglia…è così che si inizia, senza neanche rendersene conto”. Il problema “droga” e il mostro “alcol” non sono relegabili ad un servizio del telegiornale sull’ennesima morte di un minorenne dopo una serata in discoteca. Non sono problemi lontani, non sono distinti da noi: sono infiltrati nel tessuto sociale, in maniera più subdola ed invisibile rispetto al passato, e perciò più difficile da riconoscere ed affrontare.

E’ con l’intento di offrire un sostegno ai giovani, e alle loro famiglie, che con l’alcol e la droga hanno avuto a che fare, o che hanno anche solo sfiorato il problema, che nasce a Ferrara, in via Ragno n 15, la cooperativa sociale PALAUR di cui Alice Cacchi e Paola Pieroboni, laureate in psicologia, ed Aurelio Zenzaro, educatore, sono i fondatori. Dopo anni di attività nelle comunità di recupero, Alice, Paola e Aurelio hanno deciso di intraprendere un nuovo percorso: aprire uno spazio cittadino che coniugasse il servizio di consulenza ai giovani sulle problematiche della dipendenza da alcol e droga, al reinserimento sociale dei giovani che hanno affrontato in passato il percorso della comunità di recupero. “Il passaggio dalla comunità residenziale alla società è un momento molto delicato e pieno di problemi: magari fuori ritrovi una famiglia disfunzionale oppure gli “amici” pronti a farti ricadere nel giro- spiega Paola- e la cosa più difficile di tutto il percorso di recupero è saper dire di no. Un tempo la dipendenza da alcol e droga era legata ad immagini di emarginazione e degrado, basti pensare al tossico che si bucava nella panchina dei giardinetti o all’ubriacone steso per strada. Ora la proliferazione delle droghe sintetiche hanno reso il fenomeno socialmente accettabile: le droghe sintetiche allentano i freni inibitori, ti fanno sentire “figo” ed è per questo che hanno facile presa sui giovanissimi alle prese con le tipiche crisi di autostima adolescenziali. Non parliamo poi dell’alcol, legato indissolubilmente ai momenti di convivialità. Quanti aperitivi si consumano con sempre maggior leggerezza?”.

La droga non conosce distinzioni di classe né ci si può sentire al sicuro dall’avere una famiglia più o meno unita. Come ci racconta Alice: “Nelle comunità di recupero la maggior parte delle persone con problemi di droga proveniva da famiglie disfunzionali o avevano vissuto dei grossi traumi nella loro vita. L’eroina e la cocaina era il rifugio per chi voleva mettere a tacere i propri problemi. Ora non è più così. L’età più a rischio è quella tra i 18 e i 26 anni, si desidera essere accettati dal gruppo. In genere c’è sempre l’amico che ti invita a provare, ed una volta provata la droga sintetica ci si sente bene. Invece la droga è un veleno, così come l’alcol, e il fegato di un giovane, molto ricettivo per la giovane età, subisce danni maggiori di un adulto”.

La notizia bomba di un figlio tossicodipendente esplode tra le mani dei genitori, spesso, troppo tardi. Dopo che si è cercato di mettere la testa sotto la sabbia e di non dar peso a comportamenti all’apparenza poco preoccupanti (perdita di peso, apatia, cattivi voti a scuola). Troppo spesso si pensa “non riguarda mio figlio” oppure “è solo un adolescente svogliato”, ma gli operatori di PALAUR invitano a tenere le antenne sempre alzate: “ Alle medie si fa già uso di cocaina -interviene Paola- noi, a livello generazionale, non siamo ancora pronti a cogliere la quotidianità dell’uso delle sostanze stupefacenti. I veri “esperti” sono i nostri figli, circondati, fin da giovanissimi, da questa realtà”. Il giovane fa fatica a rivolgersi alle comunità residenziali dove vengono imposte, specialmente all’inizio del percorso terapeutico, diverse restrizioni, dall’uso del telefono al ricevimento degli amici; lo stesso vale per il SERT, che risulta spesso essere un ambiente troppo medicalizzato. La cooperativa Palaur si prefigge di colmare quella zona d’ombra che precede o segue l’abuso di sostanze stupefacenti: il momento in cui si ha un primo approccio con la droga oppure quello, come detto, in cui il giovane riabilitato fa il suo nuovo ingresso in società. La famiglia è un importante sostegno ma la spinta deve venire sempre dal giovane coinvolto nel problema. Quando questo accade, ci racconta Alice “procediamo ad un primo colloquio conoscitivo e redigiamo delle skills training (che significa letteralmente “allenamento di abilità”) cioè schede tecniche in cui si evidenziano le abilità personali e relazionali di ognuno. Come comunità semiresidenziale svolgiamo la stessa attività delle comunità residenziali: adottiamo un medesimo protocollo terapeutico e puntiamo sullo svolgimento di attività che possano rafforzare l’autostima dei ragazzi (laboratorio di cucina, apicultura e produzione di miele, laboratori di informatica)”.

“La cosa più coinvolgente -spiegano gli operatori- sono gli incontri che organizziamo in sede con i gruppi famigliari”. Troppo spesso il vero problema, di cui la droga o l’alcol sono solo la punta dell’icerberg, è il “non detto” tra genitori e figli. Rapporti incancreniti dalla mancanza di comunicazione, dalla freddezza dei rapporti che diventa abitudine. Dice Paola: “Molto spesso chiedo, forzo, genitori e figli ad abbracciarsi. Basta il contatto fisico per sciogliersi in lacrime, per sciogliere nodi intrecciati in anni di malintesi. E’ l’inizio del processo di guarigione”.

Il Fondo “Balbo” e il mistero di un cartello stradale
(Quanto è vintage questo fascismo)

Via dei Trasvolatori Atlantici. Un nome che fa immaginare chissacché: vasti orizzonti, le discese ardite e le risalite o magari quel posto “a metà strada tra Ferrara e la luna” che ha ispirato una celebre canzone di Lucio Dalla. Sembrerebbe giusto il titolo per una canzone di Vasco Brondi, il cantautore ferrarese noto per il suo progetto-musicale “Le luci della centrale elettrica”, che dà voce a brani come “Padre nostro dei satelliti”, “La Terra, l’Emilia, la Luna” e “Un bar sulla via lattea”.

Via dei Trasvolatori atlantici (foto Google-maps 2016)
Via dei Trasvolatori atlantici (foto Google-maps 2016)

Invece la via dei Trasvolatori Atlantici è un pezzo di asfalto piatto in un’area commerciale di Ferrara, lungo lo stradone della periferia sud in direzione di Bologna. Il posto dove si trova non ha nulla di transatlantico, fin dal nome della località, che risponde alla definizione nostrana e abbastanza ruspante di Chiesuol del Fosso. Se scrivi via dei Trasvolatori Atlantici sul navigatore, ti ritrovi lì, tra capannoni-uffici, casette-azienda e un grande piazzale-parcheggio che costeggia la parte più trasandata e randagia di via Bologna, a metà strada tra il centro storico e l’imbocco autostradale.

Il nome – andando a consultare la “Cronistoria delle vie” nella pagina del Comune di Ferrara dedicata alla toponomastica – è stato dato con una delibera di giunta il 13 dicembre 2000.

Un idrovolante nell'immagine della mostra "Mari e cieli" organizzata dagli Istituti italiani di cultura in America nel 2014
Un idrovolante nell’immagine della mostra “Mari e cieli” organizzata dagli Istituti italiani di cultura in America nel 2014

Ma chi sono questi Trasvolatori Atlantici e cosa c’entrano con questo pezzo di territorio? Le “trasvolate atlantiche” sono una specialità che in effetti con Ferrara hanno a che fare, perché è il ferrarese Italo Balbo che si cimenta in queste imprese. Si chiamano così i voli che si mette in testa di fare – e che fa – Balbo, uomo politico e aviatore, pilotando uno dei dodici idrovolanti per la traversata aerea dall’Italia al Brasile (1930), poi capitanando venticinque idrovolanti da Orbetello a Chicago (1933) fino al suo ultimo volo più brevemente mediterraneo ma che lo vede cadere sotto i colpi della contraerea sul cielo della città portuale libica di Tobruk (28 giugno 1940). Peccato che siano gli anni del fascismo e che queste gesta servano per alimentare la retorica e la propaganda del regime, con Benito Mussolini che nel frattempo nomina Balbo ministro dell’Aviazione. O, forse, la ragione della scelta di questo nome evocatore sta proprio lì, nella voglia di ricordare qualcosa che però è anche un po’ tabù da parte di un’amministrazione comunale storicamente e solidamente schierata su posizioni antifasciste.

"Trasvolatori atlantici" in un'immagine della mostra "Mari e cieli" organizzata dagli Istituti italiani di cultura in America nel 2014
“Trasvolatori atlantici” (foto della mostra “Mari e cieli”, 2014)

A sdoganare il tabù e, forse, anche a riportare alla ribalta il nome roboante della via dei Trasvolatori Atlantici arriva la notizia della donazione del “Fondo Balbo” all’Istituto di storia contemporanea di Ferrara da parte degli eredi del gerarca fascista.

L’Istituto di Storia Contemporanea del Movimento Operaio e Contadino nasce nel 1973 – nel trentesimo anniversario della caduta del fascismo e dell’inizio della Resistenza – per volontà del Comune e della Provincia di Ferrara, e diventa più sinteticamente Istituto di Storia Contemporanea-Isco nel 1990. La sua attività – si legge sulla pagina istituzione dell’Istituto alla voce Chi siamo – è quella di fare luce su “la storia della Resistenza e della Guerra di Liberazione, sugli aspetti economico-sociali, culturali, militari e politici della Resistenza emiliano-romagnola” con conservazione dell’archivio storico del Pci (Partito comunista italiano) di Ferrara e dell’archivio della Dc (Democrazia cristiana) di Ferrara, a disposizione per la consultazione pubblica.

Via dei Trasvolatori atlantici a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)
Via dei Trasvolatori atlantici a Ferrara (foto Giorgia Mazzotti)

E’ di questi giorni la notizia che Paolo Balbo, terzogenito di Italo, abbia donato a Isco più di 40 faldoni del “Corriere Padano”, fondato da suo padre nel 1925 e chiuso nel 1945 con l’arrivo delle truppe anglo americane. «Per fine ottobre – ha anticipato alla stampa la direttrice dell’Istituto, Anna Maria Quarzi – è prevista la consegna di un blocco di lettere, giornali, corrispondenza da parte degli eredi della famiglia, che in luglio avevano consegnato le collezioni di giornali e poi di altra documentazione». Il materiale sarà arricchito da una versione in copia dell’archivio particolare di Italo Balbo, già devoluto all’Archivio centrale dello Stato di Roma, con documenti pubblici e privati legati alle tappe della sua esistenza tra l’Italia e la Libia, di cui fu governatore.

Una donazione che ha un po’ il valore di un armistizio tra la famiglia e la città, che già ha scandagliato le responsabilità dell’epoca con ricerche culminate nella pubblicazione “Lo squadrismo: come lo raccontarono i fascisti, come lo vissero gli antifascisti” di Antonella Guarnieri, Delfina Tromboni e Davide Guarnieri, edito dal Comune di Ferrara nel 2014 in forma di e-book scaricabile in pdf.

Ora lo sbarco di materiali documentari mette da parte le contrapposizioni ideologiche in nome della lettura storica. E il cartello della via Trasvolatori Atlantici può decollare nella realtà cittadina in tutta la sua estrosa anomalia.

Auschwitz, bimbi e selfie tra le camere a gas:
quando si banalizza la ‘banalità del male’

I ragazzi delle classi quarte dell’istituto Orio Vergani di Ferrara in viaggio nei campi di sterminio, a contatto con la tragedia della Shoah e le deviazioni del turismo di massa.

Partenza alle 5 della mattina di martedì 11 ottobre, ci attendono 15 ore di autobus. Per tutto il viaggio siamo accompagnati dalla pioggia e sul Tarvisio persino dalla neve. Attraverso Austria e Repubblica Ceca, arriviamo in serata a Cracovia. È la seconda volta che mi reco ad Auschwitz, in questa occasione sono insieme a quaranta studenti delle classi quarte dell’Iis Orio Vergani. Il viaggio della memoria, finanziato dall’Assemblea legislativa dell’Emilia Romagna, è la tappa conclusiva di un percorso di approfondimento sulla comunità ebraica cittadina: sono più di 100 i cittadini ferraresi di origine ebraica deportati prima nel campo di smistamento di Fossoli di Carpi e poi nei campi di sterminio nazisti, per la maggior parte ad Auschwitz. Di questi solamente cinque hanno fatto ritorno.
Giovedì 13 il programma prevede in mattinata la visita a Kazimierz, il quartiere ebraico di Cracovia, che ormai lo è solo di nome. Insieme ai ristoranti kosher e ai chioschetti per turisti, più che gli abitanti sono rimasti solo gli edifici delle sinagoghe e il cimitero ebraico rinascimentale meglio conservato d’Europa a testimoniare la ricchezza di quello che prima del 1939 era uno dei principali centri culturali dell’ebraismo ashkenazita. Anna, la nostra guida, ci fa vedere dall’esterno la fabbrica di Oscar Schindler e ci porta nelle strade lungo le quali Steven Spielberg ha girato il suo “Schindler’s List”, con tanto di immagini del film appese lungo le pareti esterne delle case per le eventuali foto ricordo. Un altro maestro del cinema, Roman Polanski, è cresciuto qui a Cracovia e ha vissuto nel suo ghetto: lui e suo padre sono riusciti a salvarsi, sua madre è morta proprio ad Auschwitz. Quando finalmente si è sentito pronto per girare un film sulla Shoah ha scelto però la storia del pianista di Varsavia Władysław Szpilman, inserendo solo alcuni frammenti della propria vicenda personale. Non ha potuto avvicinarsi di più a quel fondo di incomunicabilità che è insito nell’esperienza della Shoah.

Dopo aver camminato nei luoghi dove gli ebrei hanno vissuto per secoli, il pomeriggio è stato dedicato al campo di concentramento e di sterminio di Auschwitz-Birkenau: Auschwitz I, il primo campo con gli edifici in mattoni, in origine caserme polacche e austriache, dal 1947 è museo nazionale, dal 1979 tutto il complesso, che comprende anche Auschwitz II-Birkenau e Auschwitz III-Monowitz (dove era internato Primo Levi), è sito Unesco.
Ricordavo il viavai dei pullman e i gruppi in attesa delle guide; la quantità e il vociare delle persone, l’odore del cibo di strada però mi sembrano aumentati rispetto alla volta scorsa, i gazebo con il metal detector e per le radio con auricolari, poi, sono una novità. Una volta entrati, noto che i ragazzi si fanno silenziosi e attenti, non usano più i loro smartphone se non per fotografare i viali, i block nei quali entriamo e il loro contenuto, ma facendo sempre attenzione a inquadrare solo i reperti nelle teche, le immagini e i pannelli alle pareti, o al massimo le nuche dei compagni davanti a loro.
Sono proprio i ragazzi a farmi notare, con un tono più di rimprovero che di stupore, alcuni turisti di origine asiatica davanti a quegli stessi blocchi impegnati in quello che sembra ormai il rito per eccellenza del turismo di massa e non solo: i selfie, con tanto di bastone, gambetta alzata e sorriso da personaggio di fumetti. Proseguendo la visita, lungo i corridoi rivestiti con le foto scattate agli internati poco dopo il loro arrivo e, in molti casi, poco prima della loro morte, noto che ci precede una mamma con un bambino di quattro o cinque anni al massimo. Lo rivediamo mentre attraversiamo in coda gli angusti spazi sotterranei del blocco della morte, quello con le prigioni del campo, il muro per le esecuzioni e la pertica di legno alla quale i detenuti venivano appesi per le mani legate dietro alla schiena. Si guarda intorno perplesso ed è difficile pensare che qualcuno gli abbia spiegato dove si trova, forse non è nemmeno auspicabile, se nel regolamento del museo stesso si sconsigliano le visite di minori al di sotto dei 14 anni. Poco più tardi, come farebbe qualsiasi bambino, corre lungo i viali alberati fra le palazzine di mattoni rossi, peccato che lì accanto ci sia la forca per le impiccagioni dei prigionieri che avevano tentato la fuga e poco più avanti la camera a gas con il crematorio del campo. In tutto ciò c’è qualcosa che stride fortemente perché Auschwitz I è sì un museo storico con una imprescindibile funzione memoriale e pedagogica, ma non è un museo storico come gli altri: è anche il luogo dove è stato perpetrato lo sterminio di 1 milione e 100.000 persone: 1 milione ebrei, 75.000 polacchi, più di 20.000 zingari, 15.000 prigionieri di guerra sovietici e oltre 10.000 di altre nazionalità.

Non sono certo questioni nuove, già nel 2014 sulla rete c’erano state polemiche per la pagina facebook aperta da una ragazza israeliana con selfie di ragazzi sorridenti in visita in vari campi polacchi (leggi qui). E questo è solo l’ultimo tassello dei problemi posti dalla costruzione della memoria e dalle pratiche memoriali, in particolare quelle sulla Shoah, con la scomparsa dei testimoni e nella nostra cultura dei media, ora anche virtuali.
È stato più volte osservato come si sia ormai arrivati a una monumentalizzazione della memoria della Shoah, che ha portato a sua volta un distacco e un distanziamento per cui possiamo ormai ipotizzare il passaggio dall’era della memoria a quella della commemorazione. Negli ultimi anni la memoria della Shoah si sarebbe cioè trasformata in ossessione commemorativa, dovere della memoria in senso retorico, con il conseguente passaggio dalla valorizzazione dei luoghi della commemorazione alla loro sacralizzazione e alla trasformazione dei siti storici in musei e mete per visite organizzate. Una possibile interpretazione di tali fenomeni è fornita da Andrea Minuz (espeto di cultura visuale e Shoah), che distingue fra ‘memoria della Shoah’ e una più ampia ‘cultura dell’Olocausto’.
Auschwitz è il luogo di due storie successive: quella dello sterminio avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale e quella di un sito della memoria. A chi appartiene Auschwitz? A chi cerca di sviluppare un vasto piano pedagogico, con un archivio e un centro di documentazione e un museo in cui professionisti spieghino le diverse forme della criminalità nazista? Oppure appartiene a chi ne vuole fare un cimitero, il luogo in cui sono state sparse le ceneri delle vittime e in cui si deve venire solo per commemorarle? Seppure dolorose, queste discussioni sono inevitabili per mantenere in vita la memoria, per evitare che questa si trasformi in un rituale vuoto.
Il Museo di Auschwitz è assimilabile a uno di quelli che lo storico francese Pierre Nora ha chiamato ‘luoghi della memoria’, luoghi artificiali per i quali è necessaria un’apposita decisione affinché assumano il valore di luoghi del ricordo e della commemorazione, e contemporaneamente un ‘sito autentico’, luogo nel quale lo sterminio si è svolto.

Quello che molti visitatori ricordano maggiormente della visita al museo del campo sono i momenti di fronte alle teche di vetro con gli oggetti dei deportati e i capelli umani. Il rischio è che tali resti ci obblighino a ricordare le vittime attraverso lo sguardo dei loro carnefici, come questi ultimi avrebbero voluto che fossero ricordati: solo attraverso i resti di una cultura distrutta. Tali oggetti, il modello dei vagoni nei quali le vittime venivano deportate o quello della camera a gas di Birkenau, sono fantasmi della memoria, ci ricordano solo la morte: come se la memoria della vita delle comunità fosse persa per sempre. La teca con le due tonnellate di capelli mette in luce la contraddizione implicita nella conservazione dei siti dello sterminio: conservare i capelli significa preservare una prova del crimine, mentre sotterrarli significa preservare la dignità delle vittime. Per questo si è anche pensato di trovare una soluzione di compromesso ispirandosi ai monasteri francescani, che interravano i monaci in cripte dove il microclima assicurava una perfetta mummificazione naturale dei corpi: bisognava creare un luogo simile nel museo per sotterrare i capelli, facendo in modo che rimanessero nello stesso tempo visibili ai visitatori. Un problema simile è sorto nel caso dei crematori di Birkenau fatti saltare dai nazisti prima della partenza: restaurarli per mostrare come erano quando funzionavano o lasciarli come sono in quanto prova del crimine, ma anche del tentativo di cancellare il crimine stesso. Qui si è scelto di lasciare le macerie come erano e poco altro del sito è stato toccato. Ecco perché l’atmosfera è del tutto diversa: nei più di 170 ettari di Birkenau, dove furono stipate fino a 100.000 persone, sono rimaste solo poche baracche intatte, al posto delle tante bruciate e distrutte solo i camini e i contorni dei luoghi dove sorgevano, solo queste tracce per capirne il numero. Ma del resto la parola greca istoría, non significa ricerca, conoscenza attraverso l’indagine?

In un articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica”, Salvatore Settis ha affermato che “la vera, la grande “redditività” del patrimonio culturale non è nella sua commercializzazione, e nemmeno nel turismo e nell’indotto che esso genera, bensì in quel profondo senso di identificazione, di appartenenza, di cittadinanza, che stimola la creatività delle generazioni presenti e future con la presenza e la memoria del passato”. Ciò vale a fortiori quando tale passato è la Shoah, quando cioè si vuole perpetuare la memoria di una sofferenza che per molti interpreti trova nel silenzio la risposta più profonda. In questo senso i luoghi della memoria dell’Olocausto corrono costantemente il rischio di essere percepiti, come è successo a Primo Levi quando è tornato ad Auschwitz nel 1965, come un insieme di cose morte facenti appello solo alla curiosità voyeuristica di coloro che li visitano, rimanendo però impotenti di fronte alla sclerotizzazione della memoria del genocidio degli ebrei ed alla sua trasformazione in narrazioni innocue in quanto prive del potenziale critico necessario.
La visita al complesso di Auschwitz-Birkenau, ai blocchi, alle baracche, alle camere a gas, il cammino lungo i binari delle selezioni fino ai resti dei crematori è un’esperienza e dunque va vissuta e interiorizzata: meno selfie e più riflessione, interpretazione, discussione, perché la memoria non sia un rituale vuoto, ma una pratica sociale da trasmettere di generazione in generazione.

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Uno dei viali di Auschwitz I
L’esposizione permanente. Blocco 4
L’esposizione permanente. Blocco 4
Il modello delle camere a gas di Birkenau. Blocco 4
Il modello delle camere a gas di Birkenau. Blocco 4
L’esposizione permanente. Blocco 5
Birkenau
Birkenau

Il giogo straniero e la manovra finanziaria

La nuova manovra finanziaria ci dà alcuni buoni spunti per una serie di ragionamenti che possono aiutare a capire i meccanismi alla base dei fenomeni macroeconomici che regolano il benessere all’interno di una società

Nello specifico ci sono diversi aspetti in questo documento da salutare indubbiamente con soddisfazione, ad esempio l’abolizione di Equitalia, i bonus a pensionati e lavoratori in determinate fasce di età e l’APE gratuita per quei lavoratori con reddito inferiore a 1.500 euri lordi. Inoltre, la diminuzione del canone Rai e la notizia che non ci saranno tagli alla sanità, anzi ci sarà un aumento di fondi di 2 miliardi.
Fin qui tutto bene, o quasi, ma in ogni caso non scenderemo nei dettagli e non faremo l’analisi dei singoli provvedimenti. La prima considerazione che invece vogliamo fare è che quando si fa una manovra, quando si prevedono delle spese e delle entrate, un governo lo fa (o dovrebbe farlo) in base a esigenze considerate importanti e necessarie per lo sviluppo e la crescita del Paese stesso. Invece nel nostro caso l’intera manovra dovrà essere valutata da Bruxelles che ci dovrà dire se possiamo o meno spendere non in base alle esigenze degli italiani, gente reale, ma in base alle esigenze di un foglio di bilancio e di coefficienti senza logiche che ad oggi ci hanno portato alla deflazione, alla vendita delle migliori aziende all’estero, a pensioni da fame, calo di stipendi, ecc., ecc..
Bruxelles non potrà mai avere chiare le esigenze di un altro popolo, le sue caratteristiche di crescita, la sua filosofia di vita perché queste peculiarità non necessariamente possono essere rappresentate con lo schema della partita doppia, e sarà difficile anche che lo possa fare un Paese escluso a suo tempo dal limes romano (perché considerato troppo selvaggio), e quindi culturalmente agli antipodi, e che al momento ci guarda dall’alto verso il basso grazie a un surplus commerciale di qualche centinaio di miliardi.
I 27 miliardi previsti dalla manovra sembra arriveranno per circa 6 miliardi da tagli della spesa pubblica, 1 miliardo da imposte, 2 miliardi dal rientro dei capitali dall’estero, 3 miliardi da un controllo mirato sulla spesa pubblica (efficentamento) e il resto da flessibilità di bilancio cioè da un deficit (spesa maggiore delle entrate) previsto nel 2016 del 2,3% a fronte di una previsione di crescita dell’1%. Insomma viene chiaro che l’unica fonte certa sarà il maggior deficit, il resto sembra un po’ aleatorio.
Quando i soliti commentatori osservano che alcuni Paesi sono cresciuti danno il merito agli interventi strutturali, ma quasi sempre dimenticano (qualcuno volutamente immagino) di valutare tutti i fattori economici che gli ruotano intorno pur evidenti e non nascosti. La Spagna ha fatto un deficit del 10,4% nel 2012, 6,9% nel 2013; 5,9% nel 2014, 4,8% nel 2015 mentre la Francia del 4,8% nel 2012, del 4,1% nel 2013, del 3,9% nel 2014. A parte il fatto che non ci sono state le temutissime, almeno da noi italiani, sanzioni europee, sembra che in particolare la Spagna sia additata come un esempio da seguire in materia di crescita, almeno nominale. Quindi dovremmo imitarne la crescita senza imitarne le metodologie utilizzate per arrivarci!
L’evidenza è che uno Stato che vuole crescere deve spendere (fuori eurozona vedi USA, UK, Giappone), per cui fare deficit non è un’opzione ma una necessità e i numeri lo dimostrano nel caso di Spagna, Francia e anche Irlanda. Chi fa deficit cresce, mentre chi non sfora: o prende i soldi dalle esportazioni (tipo Germania) o resta al palo (Italia).
Certo, lo so, se si aumenta il deficit si aumenta pure il debito pubblico. Ma è così terribile fare debito pubblico? Guardate a proposito la tabella della ricchezza delle famiglie italiane della banca d’Italia (dati in aggregato ovviamente). Nel totale delle attività finanziarie ci troviamo anche i titoli pubblici italiani, cioè quei titoli che emessi dallo Stato per finanziare le sue attività e che fanno aumentare il suo debito pubblico diventano ricchezza per i cittadini italiani. Quelli comprati all’estero diventano ovviamente ricchezza per il Paese dove sono stati comprati. Sarà che se invece di venderli sui mercati finanziari agevolassimo l’acquisto alle famiglie italiane aumenterebbe la loro ricchezza?

tabella-1

Insomma, e in sintesi, uno Stato che ha un disperato bisogno di crescere perché la sua economia annaspa (cioè quando la Caritas avverte che aumentano gli italiani che richiedono i suoi servizi, persino più degli stranieri oramai) deve spendere, cioè deve fare deficit (spendere più di quanto incassa con le tasse). E subito dopo aggiungiamo il concetto che è bene che lo Stato spenda e che non ci impoverisca con una tassazione eccessiva perché se i titoli di stato vengono comprati dagli italiani questi diventano anche un po’ la loro ricchezza (quindi finanziarsi sui mercati finanziari non è una buona idea perché si manda ricchezza all’estero sotto forma di interessi).
E come facciamo per migliorare un po’ questo sistema malato ed evitare che ad arricchirsi siano i mercati finanziari? Prima di tutto una Banca Pubblica tipo quella che avevamo prima del 1981, quando il debito pubblico non arrivava nemmeno al 50% del PIL, e che controlli per bene tutte le altre banche sul territorio (non come ha controllato la CARIFE). Inoltre, eliminazione di vincoli esterni alla spesa pubblica che non hanno nessuna logica macroeconomica.
In estrema sintesi, stare meglio o peggio per un Paese è una scelta politica. Chiaramente se sei lo Zimbawe hai qualche problema in più! Ma l’Italia è l’Italia, ha solo un problema di scelte politiche e di scarsa partecipazione dei suoi cittadini.
Se il Governo italiano decidesse di spendere quest’anno come ha speso la Spagna nel 2012 significherebbe mettere in campo circa 165 miliardi di euro. Cioè dopo avere pagato gli interessi totali sul debito (per il 2015 sono stati 68.840 miliardi), ci resterebbe ro all’incirca 90 miliardi per fare tutto quello che serve.

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Se ci fidiamo di chi sarebbe deputato a spenderli è tutto un altro discorso. Massimo Troisi diceva di voler ripartire da tre e non da zero perché aveva incamerato le prime tre certezze e così dovremmo fare noi. Non partire da quattro senza aver capito come ci si è arrivati e dopo esserci perso 1, 2 e 3!