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Giorno: 9 Agosto 2020

PRESTO DI MATTINA
Incontrare Dio nella diafania del ghiacciaio dell’Ortles

Giovedì scorso, 6 agosto, è stata la festa della trasfigurazione, che gli orientali chiamano Pasqua dell’estate. Questa ricorrenza mi offre l’occasione per onorare almeno in parte una promessa, sinora mancata, fatta a un amico, Daniele Borghini, di riprendere ‒ adesso purtroppo solo per iscritto ‒ le nostre conversazioni su Pierre Teilhard de Chardin. Non per caso, del resto, la mia presentazione al suo libro di racconti (D. Borghini, La direzione dei miei passi ubriachi, Nuove carte, Grignano, VI 2019) si conclude proprio con la narrazione onirica di un amico perduto e trasfigurato: il quale “giunto alla porta si fermò e si girò indietro come a guardarlo, poi aprì la porta e ogni cosa era illuminata, fece un passo e attraversando la soglia entrò in quella luce che non è né del sole, né della luna e si incamminò nel giorno che non conosce tramonto”.

Trasfigurazione, infatti, è una parola che va oltre la sola forma del cambiamento. Né rende perfettamente l’idea il termine ‘metamorfosi’ utilizzato dal testo greco del vangelo. Penso invece che l’espressione più appropriata sia resa dal neologismo ‘diafania’ (διαφάνεια), coniato proprio da Pierre Teilhard de Chardin per esprimere l’idea di una manifestazione attraverso la materia resa trasparente, diafana appunto, al fine di rivelare il mistero che l’attraversa. E proprio “la trasparenza di Dio nell’Universo”, e non già la sua plateale comparsa, è per Teilhard “il grande mistero del Cristianesimo”, chiamato a scorgere nella diafana materia ardente, infocata e manifesta di Gesù l’essenza del Padre (Le Milieu Divin, Pechino, 1927-28, vol. IV, 162).

Questa singolare forma Christi si dà a vedere sul Tabor agli occhi impauriti dei tre discepoli, come una ‘prolessi’, un anticipo della metamorfosi che si compirà a Pasqua dentro al loro cammino verso Gerusalemme, dove essi assisteranno, non solo allo scempio di una morte beffarda sul volto sfigurato del crocifisso, ma pure allo splendore sfavillante del volto del risorto; al Tabor essi non compresero tuttavia cosa significasse risorgere dai morti. Il mistero si darà a conoscere agli occhi della loro incredula fede il mattino di Pasqua e consegnato alla loro testimonianza rigenerata dallo Spirito, affinché essi lo annunzino al mondo con autenticità di vita evangelica. Un mistero ‒ come scrive Teilhard ‒ la pienezza del quale si sta tuttora compiendo nell’evoluzione del cosmo: “E da quando Gesù è nato, è cresciuto, è morto, tutto ha continuato a muoversi perché il Cristo non ha finito di formarsi. Non si è ancora totalmente avvolto nelle pieghe del Manto di carne e d’amore che Gli stanno tessendo i suoi fedeli… Il Cristo mistico non ha raggiunto ancora la pienezza, neppure quindi il Cristo cosmico. Entrambi, ad un tempo, sono e divengono; e il prolungarsi di questa genesi rappresenta la molla ultima di ogni attività creata” (La Vita cosmica, 1916, ETG, 87).

Cogliere il divino tramite la diafania dell’universo è, per Teilhard, un’attitudine dello “sguardo mistico”. Che non è però riservato solo ai mistici, ma a chiunque vi si predisponga. Vi è, infatti, una cristologia che ogni credente riscrive attraverso il vissuto concreto della propria esistenza cristiana: vissuto in cui le parole, il più delle volte, non sono mutuate dalla teologia, ma scaturiscono dal vissuto, dal praticare l’alterità scrutandola con gli occhi della fede. Perché, così come ci ricorda Eugen Drewermann, “al centro di ogni esperienza religiosa ci sono i veggenti [i mistici] e non i teologi” (Psicologia del profondo e Esegesi, Brescia 1996, 17), chiamati, per l’appunto a cogliere la divinità che traspare dal mondo, che è penetrato, attraversato e abitato dalla bellezza di Dio rivelativa del suo disegno salvifico.

In questa prospettiva, ‘diafania’ è quindi il mostrarsi agli occhi della fede della presenza del Cristo nell’universo. Un’esistenza, in esso, sempre più cosciente e coinvolta, frutto di un processo di convergenza che traduce la complessità in una sempre maggiore coscienza di centrazione ed ex-centrazione. È il frutto di un dinamismo verso una più grande unione di personalizzazione in direzione di un centro ultimo di consistenza e di amore.

Di fronte alla trasfigurazione come diafania ‒ fiamma che attraversa e trapassa ogni cosa ‒ non è solo la contemplazione che è richiesta, ma l’azione; non appena lo stare con il maestro, ma il ri-partire con lui. I discepoli, che inizialmente non lo comprendono, vorrebbero invece restare lassù, essendo ben disposti, pur di non ripartire e discendere dal monte per incamminarsi a Gerusalemme nel cuore del conflitto, a lasciare a Gesù e ai suoi ospiti, Mosè ed Elia, le tre tende mentre loro avrebbero dormito all’aperto. Ma la trasfigurazione sprigiona un’incandescenza di amore così prorompente da vincere ogni indolenza, da scavalcare ogni remora interiore, e anticipa nei discepoli la forza della pentecoste, capace di sospingerli ad attraversare i confini fisici e interiori per intraprendere il viaggio con il vangelo, la loro missione perseguita e amata come una mistica: un’esperienza che ti attraversa trasfigurandoti.

Perché solo così si ha autentica evangelizzazione. Anche nell’imminente futuro, infatti, o l’evangelizzazione sarà mistica, scaturirà cioè dell’esperienza stessa del mistero vangelo nascosto nel campo del mondo ‒ una freccia che trafigge il cuore di chi annuncia come a Teresa d’Avila, misteriosa diafania e fuoco – “sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei fosse già acceso”, disse Gesù prima della sua passione ‒ oppure si ridurrà a propaganda politica, sentendo la quale altro non si genera se non il gesto di chiudersi le orecchie. “Io, o Signore, ‒ scrive Teilhard ‒ per la mia umilissima parte, vorrei essere l’apostolo, e (per così dire) l’evangelista del tuo Cristo nell’Universo… debbo come la vita adulta e la fiamma ardente propagare il fuoco che mi hai comunicato”, (Il Sacerdote, 1918; ETG, 380-381). E scrivendo ad un amico, egli gli augura che “la vita le offra questa grande gioia di cadere sopra un roveto come una scintilla ‒ sicut scintilla in arundineto – dice in qualche luogo la Scrittura (Sap 3, 7) ‒ che il nostro essere sia teso, e pieno di ardore, verso ciò che in ogni cosa è lo Spirito, e questo Spirito si sprigionerà grazie al nostro sforzo oscuro e anonimo. Ecco la fiducia tenace che deve dominare e quasi coprire le forze che lei avverte” (Lettere di Viaggio, 11.11.1929, 102-103).

Agli occhi di Teilhard quella diafania cristologica che fu la trasfigurazione del Signore si dinamizza, prendendo la forma di un ambiente in evoluzione, consistente ed attivo, energetico ed amante, in cui ci è dato riconoscere che l’amore di Dio è la radice vivente, il dinamismo evolutivo verso un compimento che alimenta e sostiene il cammino di tutte le cose. Ecco perché, in Teilhard, la parola diafania intende esprimere non solo la struttura simbolica del reale, ma proprio l’esperienza originaria e relazionale dell’incontro con Dio. È l’umanità del Verbo, è l’uomo Cristo Gesù, il suo cuore e la sua diafania che diventano luogo ed espressione della visibilità e dell’incontro con Dio, incontrato così non solo nel ‘per noi’ della trascendenza o nell’‘in noi’ dell’immanenza, ma Egli agisce ‘attraverso di noi’. Volendo ben si può dire allora che la trasfigurazione ci chiama ad essere diafania e trasparenza della sua paternità-maternità con le persone che incontriamo ogni giorno.

A Daniele affido questo testo, scritto quella volta che portai i ragazzi della parrocchia al rifugio Julius Payer, ultimo bivacco prima di salire verso la vetta del ghiacciaio dell’Ortles, che anche quella volta mancai tuttavia di raggiungere. Parole che non ho saputo trattenere dentro, per la nostalgia struggente di contemplare da vicino, di toccare anche solo con un dito il ghiacciaio: una diafania azzurrina nella quale si specchiava, in quel momento, il ricordo di tutti coloro che ci hanno preceduto sul sentiero della vita e ora risplendono della luce trasfigurata del monte Tabor.

Ghiacciaio dell’Ortles

E tu, con sguardo muto
e silenzioso grido
trattenuto da sigillate labbra
contempli
l’ultimo fronte del ghiaccio.
Tremendo e fascinoso insieme
esprime quell’unica immagine.
Non è fine, né sconfitta
Resistenza si chiama
muraglia bianca
incombente, guerriera,
ostile, maestosa,
vivente e non violata.
Ti attrae e ti respinge
Baluardi e torrioni fumanti
perché spazzati dal vento
Vortici e turbini di neve
che danzano
sono i suoi seducenti messaggi.
In un fianco della muraglia
il più alto,
traspare la sua anima:
diafania azzurrina.
Quasi smeraldo il suo cuore.
Ed allora il desiderio si lega alla speranza:
un giorno parlerò al suo cuore.

LO CUNTO DE LI CUNTI
Senza pretese

Rubrica a cura di Fabio Mangolini e Francesco Monini

Secondo appuntamento con la prosa di Sergio Kraisky raccontata da Fabio Mangolini. Una storia, una vita senza pretese, ai tempi del contagio. Buon ascolto e buona lettura.
(I Curatori)

Lo Cunto de li Cunti – Sergio Kraisky, Senza pretese, letto da Fabio Mangolini

SENZA PRETESE

Aveva da poco compiuto quarant’anni, era divorziata, senza figli. Le scuole erano chiuse già da metà marzo e non avrebbero riaperto prima di settembre. Insegnare matematica via skype a dei ragazzini spernacchianti di dodici, tredici anni era un’ impresa senza speranza, perciò si limitava a preparare i compiti, scrivere qualche riga di spiegazione e poi a correggerli on line.
Viveva da sola in due stanze a Montesacro, la mamma vedova e diabetica sopravviveva a due isolati di distanza. Ma ora, a due anni dal divorzio, la mancanza di uomini si faceva sentire con insistenza, esacerbava la solitudine alla quale con tanta fatica si era appena orgogliosamente abituata. E tutte quelle piccole attività che scandivano il passaggio dalla mattina alla sera, le poche amiche, i colleghi di lavoro, quegli impegni che occupavano il tempo di un’esistenza accettabile, tutto era stato abolito. Vivere confinata in un tempo dilatato dentro quelle due stanze per colpa di un subdolo stupido virus, libera solo di andare a fare la spesa con guanti e mascherina fatta in casa, stava diventando insopportabile. Restavano solo le videotelefonate, i messaggi più o meno divertenti via whatsapp, qualche equazione di primo e secondo grado e una grande varietà di ricordi, molti dei quali molesti.
Poi accadde qualcosa che le rese la vita impossibile. Un virus elettronico si era sovrapposto al virus biologico, o forse un malware, il modem da resettare o qualche altra diavoleria che lei non capiva, e aveva messo fuori uso il suo computer. Il cellulare non era in grado di sostituire il lavoro che svolgeva computer e il negozio del suo tecnico di fiducia si trovava troppo lontano. Sarebbe dovuta salire sulla sua Ford Fiesta e girare per un po’ di chilometri col rischio di essere fermata da qualche pattuglia.
Questo tecnico di fiducia, un uomo grasso, sorridente, dallo sguardo ottuso ma sincero, amava i computer e le torte quasi quanto amava la mamma. Anche lui più o meno quarantenne, mai sposato, si era lasciato andare più di una volta a confidenze non richieste.
“Bisogna stare attenti al diabete” le aveva detto una volta mentre raccoglieva e assaporava da un piattino le briciole di un tiramisù. Aveva l’abitudine di portarsi in bottega le torte della mamma e offrirne un po’ ai clienti. E il diabete era uno dei suoi argomenti preferiti. Quell’uomo e quella donna avevano in comune la mamma diabetica e, almeno all’apparenza, null’altro. Però, chissà perché, a volte finivano con lo scambiarsi opinioni molto personali.
Poi un giorno le aveva detto: “Non capisco perché suo marito l’ha abbandonata. Eppure lei non è brutta.” E lei aveva capito che nella sua ottusa sincerità quell’uomo le aveva fatto un complimento. Ma mentre lo guardava pensava che invece lui sì che era brutto: il viso grassoccio, infantile e lo sguardo stupido, quasi del tutto calvo, le spalle robuste ma cadenti, la camminata goffa. Ma peggio di tutto era l’evidente povertà di spirito, quel suo mondo interiore che ruotava intorno ai computer, alle torte e alla mamma. Poi il nulla.
Lei insegnava matematica alle scuole medie, era una donna non solo istruita ma perfino colta, amava la letteratura, la musica, la storia dell’arte, era interessata alla politica. Eppure di quell’uomo si fidava. Lui avrebbe risolto tutti i suoi problemi con il computer e soprattutto – ci poteva scommettere qualsiasi cosa – non l’avrebbe mai imbrogliata.
Ora si poneva un problema. Sapeva che da quando era scoppiata l’epidemia lui non andava più nel suo negozietto. Da metà marzo aveva abbassato la saracinesca e non la avrebbe più riaperta finché non fosse arrivata un’autorizzazione ufficiale del governo. La mamma gli aveva imposto di non correre rischi. Però aveva comunicato ai suoi clienti che se si fosse presentato un caso urgente era disposto a fare il suo lavoro a domicilio. E il caso di lei era certamente un caso urgente. Aveva il suo numero di telefono e sarebbe bastato chiamarlo. Ma come poteva fidarsi? Certo, di lui, della sua capacità professionale e della sua onestà si fidava ciecamente. Ma come poteva fidarsi di un virus così subdolo che magari si era insinuato dentro quel corpo grasso e sgraziato? Come poteva far entrare quell’uomo potenzialmente contagioso a casa sua?
I dubbi durarono poco. Aveva bisogno di un computer funzionante ma ancora più aveva bisogno di un uomo, purché affidabile. Il rischio del contagio era inferiore al rischio di impazzire in quella solitudine di cui era impossibile prevedere la fine. Le bastava un uomo senza pretese, così come lei era una donna senza pretese, una che si accontentava di sentirsi dire: “Eppure lei non è brutta”.
Arrivò il giorno dopo, alle quattro del pomeriggio. Lei aveva cucinato al forno una crostata di ciliegie e si era vestita e truccata senza esagerare. Lui non si accorse di nulla, candido e beota come sempre, non sapeva cogliere le civetterie, le sfumature, gli sguardi ammiccanti. ‘Meglio così – pensò lei – Meno fatica’.
Il caffè fu preparato, versato nelle tazzine e bevuto, la crostata divorata a rate. Poi lui da uomo semplice si lasciò portare in camera da letto, lei cercò di spogliarlo nel modo più disinvolto possibile, lui si lavò, fece quello che doveva fare e poco dopo si dedicò a resettare il rooter.
E da quel momento fu chiaro che quell’uomo sarebbe rimasto a lungo nella sua vita, almeno finché il governo avesse continuato a imporre tutte quelle restrizioni alla popolazione. Lei, in concorrenza con la mamma, gli avrebbe preparato torte e crostate e avrebbe potuto raccontare, magari con sua sorpresa e con le lacrime agli occhi, che adesso aveva un uomo che viveva con lei, anche se spesso andava a dormire dalla mamma. Lo avrebbe raccontato alle amiche, alle colleghe, il computer avrebbe funzionato alla perfezione per la didattica on line e forse quegli sguardi di compatimento sarebbero cessati. Tanto del suo nuovo uomo avrebbe solo parlato, non lo avrebbe mai fatto conoscere a nessuno a esclusione della mamma.
Loro due avrebbero fatto la massima attenzione a non lasciarsi contagiare dal virus e avrebbero organizzato pranzi e cene con torte e crostate insieme alle due mamme diabetiche, che presto sarebbero diventate amiche, e tutto questo per molto tempo ancora. Tutto il tempo necessario a una felicità senza tante pretese in un’epoca di costrizioni.

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Cover: elaborazione grafica di Carlo Tassi

PER CERTI VERSI
La mia fatica

Ogni domenica Ferraraitalia ospita ‘Per certi versi’, angolo di poesia che presenta le liriche del professor Roberto Dall’Olio.
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MI DICEVA LA SIGNORA

lo sai cosa mi pesa?
Questa testa a ciuffi di calvizie
E questi venti chili
Di pancia tesa
Che non vanno giù
Sono guarita e offesa
Mi guardo
E non mi riconosco più
Dopo la chemio
E non l’accetto
Mi diceva la signora
Dal bel viso
Accanto
Al mio solito letto

LA MIA FATICA

anch’io ho fatto la mia fatica
A digerirmi così
Senza capelli
Che l’impiegata mi disse
Che quasi non mi riconosceva più
Tanto ero cambiato
Dal collo in su
I miei boccoli
Erano il passato
Lei l’aveva detto con franchezza
Mi aveva misurato
Con la mia debolezza

SEI SOLO E PRECIPITI

sei solo e precipiti
Con il tuo mondo
Fino a che avverti
Il baratro
È senza fondo