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COCCIA DI MORTO
Roma, 5 agosto 2019

Confesso che nella scelta del mare, prevale il mio lato borghese.

Da un po’ di tempo non mi capitava più di andare in spiaggia di domenica: l’idea di finire in una bolgia di umani, tra le famiglione rumorose, il muro di giocatori di racchettoni nella pisciarella dei bambini sulla riva e poi soprattutto la claustrofobia dell’ingorgo nel ritorno, mi hanno sempre spinto a lidi più lontani, senza troppo pensare alla benzina, al costo del lettino più ombrellone e soprattutto approfittando di un mestiere che può permettersi una gita in un giorno infrasettimanale.

Sin da ragazzo, anche con pochi soldi in tasca, ho conosciuto molte delle mete preferite dai ricchi, dall’Argentario a Porto Cervo, da Sabaudia a Porto Rotondo, anche se ci andavo con la Lambretta e dormivo nella tenda canadese. Mi attraeva l’idea di godermi paradisi isolati ed esclusivi senza regalargli una lira.

Naturalmente nella vita ho fatto molte altre esperienze in mezzo mondo.

Ma oggi, che voglio provare a ricordarmi di come se la passa qui la maggioranza della gente, estorco alla mia compagna il consenso per andare al mare una domenica d’agosto.

Dato che vorrei una spiaggia davvero popolare, mi viene in mente un film visto di recente, dove lo stereotipo del litorale borgataro s’incarna in un nome che è tutto un programma: andiamo a Coccia di Morto.

Nel film, Antonio Albanese, che rappresenta un borghese “democratico” noioso e pieno di pregiudizi, salta sul sedile della macchina quando la figlia, innamorata di un ragazzino di periferia, gli chiede di accompagnarla al mare a Coccia di Morto.

“Dov’è questa Coccia-del-morto?” scandisce il papà “Dice che è tra Passoscuro e Ponte Galeria” risponde la ragazzina. La scena è molto divertente anche perché è vera: in questo tratto di costa, i nomi delle località fanno paura.

E in effetti, quando ci arriviamo (anticipata da una Googleata in cui appare come “la più brutta spiaggia del Lazio” seguita da raccapriccianti immagini di monnezza buttata lungo tutta la spiaggia), i proprietari di uno stabilimento hanno piazzato una lavagnetta che spiega, a chi arriva come noi la prima volta, qual è la ragione del suo trucido nome.

“Qui confluivano” dice la lavagnetta “le acque del Tevere e scontrandosi con le correnti del mare portavano a riva ogni genere di rifiuto, compresi i cadaveri dei naufraghi e di chi non riusciva ad avere sepoltura”. L’uso dell’imperfetto non rassicura più di tanto: dicono che qui quando sgomberano un campo nomadi arrivino ondate di immondizia e che nel 2016 si sia registrato il record di raccolta di cottonfioc. Come a dire “lasciate ogni speranza o voi che entrate”.

In realtà, una volta superata una barriera di scoraggianti pregiudizi, le cose, come al solito, cambiano di aspetto. 

Innanzitutto, per essere Domenica, la spiaggia libera è quasi deserta. Sarà che la gente è già in vacanza o forse che sono sempre meno quelli che possono permettersi una domenica al mare.

Comunque, rispetto alle ammucchiate adriatiche o i formicai salentini, Coccia di Morto da qua sembra la Grecia. Basta però guardare l’acqua del mare e si capisce il perché. Entrandoci dentro senti un fondo melmoso, e i piedi che spariscono subito alla vista, vengono accarezzati da ectoplasmi di plastica fluttuanti e da altre oscure presenze.

Dopo trenta secondi mi accorgo poi che ogni minuto, decolla un aereo e passa sulla testa con un rumore che impedisce qualsiasi conversazione, come nel “Fascino discreto della borghesia” di Luis Buñuel.

Ma pensare che qui, dato che l’acqua fa schifo, ci vadano solo i poveracci, mi sembra porti fuori pista. Sicuramente, visto che ci si arriva con l’autostrada dell’aeroporto, Coccia di morto è il mare più comodo e vicino.

Ed è anche piacevole, ben organizzato e non ha affatto quell’aspetto da girone dantesco che avevano le spiagge popolari nei film degli anni ’60.

Anche qui, come nel mio quartiere, colpisce la forte presenza di stranieri.

Non solo la famiglia cinese accanto al mio ombrellone, ma un gran numero di ambulanti che passano trascinando carretti, rastrelliere con vestiti, o tenendo in bilico sulla testa una torre di cappelli ti offrono grattachecche, statue africane, auricolari o articoli di bigiotteria esattamente come in ogni altra spiaggia da Fregene al Salento.

Un tizio commenta “quest’anno sono molto meno, sarà l’effetto Salvini”.

A me sembra invece che siano tantissimi e a uno gli chiedo: “E’ cambiato qualcosa per voi da quando c’è questo Governo?” lui mi risponde, con accento arabo “Iguale!”. Non so quanto valga, ma un po’ mi rassicura.

Mi domando infatti, guardando la fatica e anche l’iniziativa di tutte queste persone che s’industriano a trovare una qualche forma per guadagnarsi da vivere, quale ossessione, quale fastidio, quale tortuosa giustificazione possa spingere un politico ad accanirsi contro questo movimento vitale, che in modo abbastanza evidente non disturba nessuno (salvo forse qualche maschio un po’ taccagno costretto a sborsare da una compagna spendacciona). Anzi, attrae e genera curiosità in molti bagnanti, offrendo gratificazioni a poco prezzo.

Certo, è un lavoro fatto senza regole, al nero, in concorrenza sleale col commercio legale: ma se uno Stato si impegnasse davvero a regolarizzare, non sarebbe più logico – e umano – cominciare dai produttori e dai grossisti che smerciano i prodotti senza fattura? E prima ancora, non sarebbe più etico impegnare le forze contro gli evasori dei grandi patrimoni e gli speculatori?

Non ho visto nessun negozietto sul lungomare che possa lamentare un danno dalla concorrenza degli ambulanti. Mi pare che l’ordinanza contro i vu cumprà sia davvero un accanimento insensato contro chi non ha i mezzi per protestare.

Continuo la mia passeggiata nella spiaggia, appizzando l’orecchio (tra un decollo e un atterraggio) per carpire altri stralci di conversazioni.

C’è chi sta scegliendo la nuova macchina, chi le vacanze della figlia, chi un ristorante dove fanno bene il pesce. Chiacchiere da spiaggia. Non ricordo che nelle spiagge più chic si senta invece parlare di bioetica o di intelligenza artificiale.

Mi domando se gli stereotipi rappresentati nelle commedie, anche per produrre un effetto comico, non diventino poi, un po’ per tutti, delle categorie mentali di interpretazione della realtà.

Finendo per creare una frattura sociale ancora maggiore di quella reale: oggi, ad esempio, con i famosi buonisti benestanti in paradisi scomodi ma civilizzati (cestini per la differenziata, rumori soffusi…) e il popolo razzista accalcato accanto a una fogna, a difendersi dagli extracomunitari con un volume da discoteca. Troppo facile. E nonostante ora dal bar sia partito un ritmo techno che spacca i timpani, io non mi sento “Come un Gatto in tangenziale”.

Mentre guardo il menu con le centrifughe, il panino vegano multicereali e le stoviglie riciclabili “a basso impatto”, finisce il techno e comincia addirittura Father and son di Cat Stevens. E mi viene da pensare che (per chi oggi può permettersi di andare al mare) tutto è ormai si è mescolato e Coccia di Morto non è così lontano da Capalbio, salvo qualche euro in più di benzina e di ombrellone.

(continua domenica  7 agosto)

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Daniele Cini

è regista e autore. Dagli anni Ottanta Collabora continuativamente come regista con i programmi più importanti della Rai e realizza reportage in vari paesi del mondo. Nella fiction cura la regia di serie televisive, come “La Squadra”. Per il cinema firma il film “Last Food”, il mediometraggio “Zittitutti”, e due episodi nei film collettivi “Intolerance” e “All human rights for all”. Tra i documentari: “Sogni.com” per Rai Fiction, “Seconda Patria” per History Channel, “Noi che siamo ancora vive” per Rai 3, Globo d’oro nel 2009, “Bambini guerrieri” per Rai 1 e “Hungry and Foolish” per Rai Expo. Nel 2021, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, realizza il film documentario “La febbre di Gennaro”, Nel 2022 il documentario “Il ragazzo con la Leika”, 60 anni d’Italia nello sguardo di Gianni Berengo Gardin, trasmesso su Rai 2. Nel 2004 ha pubblicato per Voland “Io, la rivoluzione e il babbo” e nel 2020 per Giunti “Se son rose sfioriranno” .

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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