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di  Simone Oggionni

Quello che segue è il testo dell’intervento che ho svolto al convegno organizzato insieme a Luciana Castellina, Famiano Crucianelli, Mattia Gambilonghi, Filippo Maone, Massimo Serafini e Vincenzo Vita a Rimini, il 29 e 30 ottobre, dal titolo: “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”. Sul sito di radio radicale si possono trovare i video dell’intera due giorni.

Come diceva Lenin, «ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni».

Quest’oggi il Financial Times pubblica un articolo di Adam Tooze, analista e storico della Columbia University, con un titolo suggestivo, che spiega precisamente le settimane che stiamo vivendo: «Benvenuti nel mondo delle poli-crisi (delle crisi multiple)».  Mi stimola mettere in rapporto Lenin e Tooze, per alcune ragioni che a me paiono molto evidenti.

Parlo per esempio, per fare davvero soltanto degli esempi, di quattro cose.

La prima. Due giorni fa Putin, intervenendo al Valdai Discussion Club, che è un think tank molto legato al governo russo, ha affermato non a caso che «il mondo sta entrando nel suo decennio più pericoloso, imprevedibile e importante dalla fine della seconda guerra mondiale». Pericoloso, imprevedibile e importante, dice il presidente russo a un passo dal conflitto nucleare, sostenendo — e anche questa affermazione va sottolineata in rosso —  che non userà l’atomica e che l’unico Paese al mondo ad avere usato nella storia armi nucleari contro uno Stato non nucleare sono gli Stati Uniti d’America.

Nello stesso intervento Putin ha ribadito la necessità di un nuovo ordine mondiale, di un multipolarismo che abbia come centri l’Asia (attenzione: ha citato l’Asia, non  la Cina), i Paesi islamici, le monarchie del Golfo.

Seconda cosa. Settimana scorsa si è svolto il congresso del PCC, di cui in Italia non si è parlato, se non per la questione Taiwan o per qualche gossip laterale legato a Xi Jinping. È stato invece un congresso straordinariamente importante, l’evento politico più rilevante degli ultimi cinque anni in uno dei Paesi cruciali della scena del mondo. A me ha fatto riflettere una delle code del congresso, l’assemblea del Comitato per le relazioni Usa-Cina, un vecchio organismo creato sessant’anni fa e animato da grandi industriali e boiardi di Stato. Xi Jinping ha inviato una lettera al Comitato dai toni molto distensivi, proponendo a Biden «più strette comunicazioni e collaborazioni tra Cina e Stati Uniti» allo scopo di «aumentare la stabilità e la certezza globali per promuovere la pace e lo sviluppo del mondo».

Ed è (terza cosa) una risposta, così possiamo leggerla, al primo incontro tra Biden e il nuovo premier britannico Sunak nel quale al contrario sono state poste al centro delle strategie anglo-americane le «pericolose sfide poste dalla Cina» sul piano economico, commerciale, energetico e tecnologico.

Infine, a proposito di Cina, ancora settimana scorsa il Consiglio Europeo ha ribadito di avere messo in agenda una revisione complessiva dei rapporti europei con la Cina. L’impressione è che la Via della Seta concepita soltanto tre anni fa con il coinvolgimento di 16 paesi europei si sta trasformando in un vicolo cieco. Per l’anno prossimo è atteso un provvedimento per ridurre l’acquisto dalla Cina di materie prime ritenute cruciali, dopo che nel febbraio scorso era stato varato un piano  europeo — e non mi pare casuale — per aumentare la produzione di microprocessori.

Che cosa ci dicono queste quattro cose, apparentemente non collegate?

Che la Russia è impantanata in una guerra che immaginava rapida e tutto sommato indolore ma che la sta invece concretamente esponendo al rischio di un isolamento e soprattutto al rischio di un allentamento dei rapporti con la Cina.

Che la Cina, saggiamente, vuole mantenere un profilo di autonomia, tiene i rapporti con la Russia, non si presta a toni bellicistici, ovviamente, ma vuole ricostruire direttamente con gli Stati Uniti un nuovo equilibrio, perché non può non temere — e allo stesso tempo vi si prepara — uno scenario di scontro militare per l’egemonia mondiale. Che gli Stati Uniti stanno cogliendo l’opportunità della guerra ucraina per accrescere il proprio potere (commerciale: basti vedere le opportunità che si sono create sul terreno della vendita del gas naturale liquefatto all’Europa; e militare: da un ulteriore, e definitivo, allargamento della NATO alla guerra combattuta per procura con l’obiettivo appunto di contenere e respingere la Russia). E che infine l’Europa è il vero anello debole dello scacchiere mondiale.

E allora torno all’articolo di Adam Tooze, che a un certo punto scrive: «negli anni Settanta, sia che tu fossi un euro-comunista, o un ecologista o un incallito conservatore, potevi attribuire le tue preoccupazioni a una singola causa: il capitalismo, una crescita economica eccessiva o troppo debole, un eccesso di indebitamento. Ora non è più così».

Coglie nel segno. Oggi non esiste una causa unica, non esiste una crisi unica.

Non solo perché al crocevia dei problemi che ho elencato si somma e si interseca la gigantesca dimensione della crisi ambientale, su cui non mi dilungo. Non solo per la abnorme dimensione della nuova crisi sociale.
Cito solo due dati: 10 miliardi di euro profitti netti realizzati da Eni nei primi nove mesi del 2022 con un aumento del 311%; e una dinamica dei prezzi superiore di 6,6 punti percentuali rispetto a quella salariale con più della metà dei lavoratori dipendenti italiani in attesa del rinnovo di un contratto nazionale scaduto.

Ma anche perché esiste un elemento nuovo, che riguarda il capitalismo e anche la guerra, che a me pare emerga con enorme evidenza (un’evidenza paradigmatica) nella vicenda che riguarda Elon Musk.

Musk lo conosciamo tutti: è l’uomo più ricco del mondo, con un patrimonio di 232 miliardi di dollari, amministratore delegato di Tesla, fresco proprietario anche di Twitter. Negli ultimi otto mesi ha fatto due cose che ci interessano da vicino sul terreno della guerra.

A febbraio ha assicurato l’invio in Ucraina dei terminali internet Starlink della sua azienda Space X, garantendo le comunicazioni militari e civili in Ucraina, le sue risorse di connettività satellitare, dando informazioni anche sull’avanzata russa, dopo che ovviamente come primo gesto offensivo l’esercito russo aveva messo fuori uso le linee telefoniche e telematiche ordinarie ucraine.

Ai primi di ottobre, quindi poche settimane fa, ha invece interrotto il servizio, chiedendo al governo statunitense di farsene carico, e ha proposto, sempre via twitter, un vero e proprio piano di pace, per nulla peregrino: riconoscimento della Crimea russa, garanzia del rifornimento idrico costante alla Crimea, neutralità militare dell’Ucraina (dunque fuori dalla Nato), e un nuovo referendum per le province russofone dell’Est.
Ancora meno peregrina è la postilla con cui ha accompagnato la proposta: «è altamente probabile — dice Musk — che il risultato sarà questo, si tratta di capire quanti morti servono ancora prima che si realizzi».

Perché ho parlato di Musk? Perché il destino del conflitto tra Russia e Ucraina è nelle mani, tra gli altri, di un uomo che non è alla guida di uno Stato ma di un’azienda tecnologica privata, anzi di un vero e proprio impero.
Ed è una storia che racconta meglio di qualsiasi altra la realtà del capitalismo tecno-finanziario, di quella che qualcuno ha iniziato a definire il «colonialismo digitale» e che, ben oltre Musk, si fonda su poteri big tech che ormai sovrastano i poteri pubblici delle istituzioni democratiche.

Concludo con qualche stimolo.

Il primo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con gli algoritmi e l’intelligenza artificiale. Cioè con il tema della loro proprietà, oggi nelle mani di una manciata di soggetti privati e che noi dovremmo pretendere di ricondurre a poteri pubblici democratici. E non esiste questa idea alternativa senza fare i conti con il tema, sempre più impellente, della rivendicazione dell’umano e della sua dignità contro lo strapotere delle macchine.

Secondo. Non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza fare i conti con la crisi ambientale, che ha acquisito una radicalità e un’impellenza oggettive, che ormai ogni persona intellettualmente onesta riconosce.

A queste evidenze noi dobbiamo aggiungere il fatto che non esiste un’idea alternativa di un modello di sviluppo possibile senza un orizzonte socialista, cioè fuori dall’idea di una società egualitaria, che affronti il nodo dei rapporti di produzione e che definisca un modello di democrazia più profonda, consiliare, che riconsegni potere e protagonismo ai lavoratori e ai cittadini.

E qual è il livello minimo a cui collocare queste idee? L’Europa. Non ho alcun dubbio. E non è impossibile. Perché è vero che siamo parte integrante del problema, del sistema e del modello che non funziona, ma anche i liberali hanno un istinto di sopravvivenza e di auto-conservazione che dal nostro punto di vista è importante.

Lo dimostrano per esempio le dichiarazioni di qualche giorno fa di Bruno La Maire, Ministro dell’Economia francese, che ha detto a chiare lettere che «il conflitto in Ucraina non deve sfociare nella dominazione economica americana e nell’indebolimento dell’UE. Non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo GNL a un prezzo quattro volte superiore a quello al quale vende agli industriali americani». Giusto per mettere le cose in chiaro.

L’Europa potrebbe allora, e dovrebbe, fare sentire la propria voce.
Rivendicando una politica industriale autonoma, un piano energetico comune e un protagonismo nel processo di pace, che passi dall’idea banale che il compromesso, il negoziato e la pace sono alternativi alla prosecuzione della guerra.
Per farlo occorre mettere in soffitta l’atlantismo. Lasciatemelo dire nella maniera più netta possibile: va di moda rivendicare atlantismo. Più che una moda: è il lasciapassare che consente l’accesso ai luoghi che contano, la patente necessaria per governare e per essere considerati credibili. Io mi rifiuto invece di pensare che l’atlantismo debba essere il destino dell’Europa o quello della sinistra europea. La guerra fredda è finita, anche per loro.

Vedete, non ho parlato del risultato delle elezioni, malgrado mi siano chiare le responsabilità e le insufficienze di tutti e di ciascuno.

Mi limito a dire che non vedo nei gruppi dirigenti della sinistra italiana, nelle sue diverse componenti, una consapevolezza storica che sarebbe invece necessaria. Che occorre ripartire da una cultura politica e da una analisi, e non da suggestioni elettorali o contingenti, tutte piegate sulla tattica e sul presente.
E che occorre farlo valorizzando e mettendo in rete quello che c’è e che si muove e scommettendo su quello che potrebbe essere. Occorrerebbe unire e rafforzare con coerenza una identità, una visione, un punto di vista. E poi decidere dove collocarla, in quale processo politico reale.

In autonomia, con la nostra autonomia, ma immersi dentro i rapporti di massa, dentro i luoghi nei quali già esiste una massa critica sufficiente. Questo è probabilmente il nostro compito, delle prossime settimane e dunque dei prossimi decenni.

Dal Convegno “Pace, guerra, transizioni. Le prospettive della sinistra”  registrato a Rimini il 29 e il 30 ottobre 2022.

L’evento è stato organizzato da www.luciomagri.eu.

Sono intervenuti: Famiano Crucianelli (medico), Francesca Mattei (assessore al Patto per il Clima e il Lavoro, Agricoltura e Giovani del Comune di Rimini), Isabella Paolucci (segretaria di Rimini, Confederazione Generale Italiana del Lavoro), Luciana Castellina (giornalista e scrittrice), Leonardo Casalino (professore), Vincenzo Vita (presidente dell’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra), Simone Oggionni (responsabile nazionale Cultura di Articolo Uno – Movimento Democratico e Progressista), Gianni Melilla, Francesco Riommi (coordinatore nazionale dell’Unione Giovani di Sinistra), Maurizio Marcelli (sindacalista), Alfonso Gianni (direttore della Fondazione Cercare Ancora), Michele Zacchi, Lidia Campagnano (giornalista), Antonio Lensi, Fausto Gentili, Luigi Garettoni, Edoardo Turi (medico).
https://www.radioradicale.it/scheda/681676/pace-guerra-transizioni-le-prospettive-della-sinistra-prima-giornata

Simone Oggionni è responsabile nazionale cultura di Articolo Uno, dopo essere stato per diversi anni Segretario nazionale dei Giovani Comunisti. Laureato in storia, è autore di saggi per diverse riviste e di libri, pubblicati con Mimesis.

Cover: Lucio Magri con Luciana Castellina (foto tratta da www.collettiva.it, testata online della Cgil) 

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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