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«Surrexit Pastor bonus qui animam suam posuit pro ovibus suis, et pro grege suo mori dignatus est, alleluja!»: sono queste le parole di un’antifona liturgica, musicata dal compitore e organista Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525/6-1594), per il canto di comunione alla messa di Pasqua, prendendo spunto dal testo di Giovanni 10 sul Buon pastore. Lo ascolterò ancora una volta domani, prima di salire all’altare, per la festa dell’ascensione del Signore. Un’armonia capace di far rivivere spiritualmente un distacco e un’assenza che tuttavia si fa presente in altro modo, restando un’intima compagnia nel cammino.

Nell’esperienza dell’abbandono affiora più forte anche per Montale una presenza nell’assenza, almeno così ho inteso: «Ecco il segno; s’innerva/ sul muro che s’indora:/ un frastaglio di palma/ bruciato dai barbagli dell’aurora./ Il passo che proviene/ dalla serra sì lieve,/ non è felpato dalla neve, è ancora/ tua vita, sangue tuo nelle mie vene», (Tutte le poesie, 146).

Così, se gli occhi rincorrono il Signore fino a perdersi, e vanamente lo cercano mentre egli scompare dietro la nube dell’esodo in cui cela la sua presenza, i piedi riprendono invece di nuovo il cammino ricalcando le orme dello Spirito: come una luce per i nostri passi ‒ o meglio, riprendendo un verso di Mario Luzi ‒ una «non disabitata trasparenza».

È quanto accadde anche allora. Gesù nell’ascensione si allontanò visibilmente dai suoi discepoli, ma essi lo sentirono ancora presente, in modo nuovo, nello Spirito che si riversò su di loro con un’urgenza di amore, una spinta ad essere testimoni del Risorto ‒ «caritas Christi urget nos» (2Cor 5,14) ‒ che li indusse a spingersi fino agli estremi confini della terra.

Del resto, la Pasqua è tutto un saliscendi, un susseguirsi di salite e discese. Un abbassarsi che sarà innalzato e un innalzarsi che si abbasserà. Un andare e venire, tra cielo e terra, fuori e dentro il cuore del mondo. Come Cristo è risalito dagli abissi della terra risorgendo dopo esservi disceso con la morte ‒ culmine di incarnazione ‒ così ora nell’ascensione si compie in pienezza questa risalita che pone la sua umanità, il suo volto d’uomo, le sue mani, il suo corpo, nella piena comunione col Padre. Con la Pentecoste, poi, e la discesa dello Spirito, il movimento discendente sarà preludio di un nuovo unanime cammino di risalita: quello dell’intera famiglia umana attirata dal Risorto. «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me», dice Gesù in Giovanni, con un’espressione che unisce in sé definitivamente l’abbassamento di colui che fu innalzato sulla croce e l’innalzamento di tutti noi, ora confitti su questa terra, nella gloria del Risorto.

«È asceso il buon pastore alla destra del Padre, veglia il piccolo gregge con Maria nel cenacolo». Così inizia l’inno dei primi vespri e poi di quelli solenni dell’ascensione. E così pure inizia, consonante, quasi corrispondente ad esso, una poesia di Mario Luzi dedicata alle “ascensioni della parola poetica”, del suo allontanarsi e sottrarsi, seguito dal suo misterioso ritorno nella coscienza del poeta ove essa permane come lievito del suo “crescere in profondità”. Quasi una supplica che chiede alla Parola/parola un distacco che non tolga la presenza; che essa non arrivi da sola alla pienezza del senso, a «quel celestiale appuntamento» per cui il poeta l’ha lasciata andare; che non giunga in quell’altrove «senza il caldo di me o almeno il mio ricordo». Ma non è forse questo ciò che chiederà domani l’assemblea liturgica con l’orazione di colletta al Padre, una preghiera in cui diverrà una volta di più consapevole che «nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria»?

Per nulla diverso l’auspicio del poeta: «Vola alta, parola, cresci in profondità,/ tocca nadir e zenith della tua significazione,/ giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami/ nel buio della mente – /però non separarti/ da me, non arrivare,/ ti prego, a quel celestiale appuntamento/ da sola, senza il caldo di me/ o almeno il mio ricordo, sii/ luce, non disabitata trasparenza/ La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?», (Tutte le poesie, 591).

Qui la parola è intesa come forma e comunicazione dell’umano, protesa verso il confine estremo del senso, al limite del mistero che nasconde e porta dentro, insieme, afferrabile e indicibile. In questo volo alto in cui accade che l’amore “cresca in profondità”, la parola è spinta a toccare i poli dell’orizzonte celeste: “nadir e zenit” e tentare l’incontro tra il segno e il suo contenuto, il significato con ciò che lo rappresenta. Si chiede così alla parola che in questa elevazione non si separi dalla corporeità, dal sentire dei sensi e degli affetti, dai ritmi della vita. La si prega che l’ascensione sia abitata dalla profondità, che la parola dimori nel silenzio e la luce nell’oscurità; che la gioia non cancelli la testimonianza dell’aver sofferto (il risorto mostra ai discepoli le ferite del suo corpo) e che il manifestarsi dell’altro non gli impedisca il suo nascondersi, perché è dall’assenza che germina una nuova presenza, ed è dal corpo del risorto che si sottrae che spira il soffio creatore dello Spirito.

Nell’evento dell’Ascensione Gesù crea uno spazio di autonomia e libertà per l’altro; il suo ritirarsi fa partire i discepoli e li rende protagonisti e responsabili del vangelo; il suo nascondersi li porta alla luce, il suo innalzarsi li radica ancor più alla terra e la vita dei credenti, il loro corpo, diviene la dimora dove lui si nasconde; egli li rende autorevoli: non servi ma amici: egli non fa, ma fa attraverso di loro.

Nel vangelo di Luca leggiamo che Gesù condusse i discepoli fuori dal luogo in cui erano rinchiusi, verso Betania (la casa dell’amicizia) e, alzate le mani li benedisse. Mentre li benediceva si separò da loro e veniva portato verso il cielo (Lc 24,50-51).
Benedire ed essere benedetti è come abitare ed essere abitati dall’altro: è abitare in lui e abitati da lui. La benedizione, anche nell’assenza, dischiude e fa riaffiorare una presenza.

«All’Ascensione – scrive Michel de Certeau –, quando questa partenza tante volte annunciata si rivela definitiva, gli apostoli sono meno presi da stupore che dà gioia. Dopo che Gesù fu sottratto ai loro occhi, sparendo nella Nube che manifesta loro il Mistero divino, essi rientrano a Gerusalemme per lodare Dio, con il cuore “tanto lieto”, dilatato dall’azione di grazia. Gioia apparentemente inspiegabile. Ma la loro fiducia in lui, purificata da tante meraviglie, li aveva fino ad allora disabituati di loro stessi e accordati alla sua persona. Probabilmente non sapevano ancora fino a che punto il loro desiderio era la sua presenza in loro; bastava che egli fosse lì e lo seguivano. Anche, quando si realizza la partenza, che compie il disegno di Gesù e dona alla sua umanità la felicità del faccia a faccia con il Padre, la sua gioia riecheggia fino al fondo di loro stessi.

Il mistero che era già presente nello smarrimento del loro cuore si svela infine nella loro gioia. Tra noi la presenza di un altro si misura non dalla sua prossimità fisica, ma dalla trasformazione che egli opera e che apre in noi delle profondità a lungo insospettate. Egli ci “abita”, letteralmente, sebbene la vita in comune nasconda questo lavoro oscuro. Ma, quando si interrompono questi incontri quotidiani, lo sguardo scopre improvvisamente la coabitazione interiore e vi riconosce colui che tanti ricordi e speranze designano. La stessa cosa avviene del Cristo, ma quanto più profondamente! Senza che essi se ne rendano conto, egli abita già i suoi con la sua presenza, dal momento che egli era con loro e che le sue parole e le sue azioni formavano già in loro il suo volto. La sua partenza rivela questa presenza. Ma i ricordi che ormai parlano loro di lui escludono del tutto la nostalgia: Gesù è eternamente vivente, e ritornerà; consacra, con la sua potenza divina, tutto ciò che la sua presenza umana ha misteriosamente suscitato in loro; egli trasfigura questo passato nella vita e nell’attesa», (L’ascensione, in Humanitas, 2012, 4, 655).

Una “non disabitata trasparenza” anche per me. Ne ritrovo traccia in una lettera che scrissi al vescovo Luigi Maverna, dopo che ebbe lasciato la diocesi. Una corrispondenza che è traccia delle “nostre ascensioni spirituali”.

«Carissimo vescovo Luigi, mi sono “acceso” davvero all’incrociarsi dei nostri pensieri con la Parola che salva. A volte la lontananza e il silenzio sembrano diluire l’intensità e l’immediatezza, sembrano relegare nei bei ricordi l’entusiasmo delle nostre conversazioni spirituali. Poi, d’improvviso, complice lo Spirito, quelle gioie di un tempo ritornano in tutta la loro bellezza e nuove, non ripetizione, ma nuova incarnazione dei nostri spiriti come se, irrorati dalla pioggia della Parola, generassero nuovi germogli insperati nel tempo dell’esilio. Mihi enim vivere Christus est (Phil. 1,21) Sì davvero per me è così, ho come paura a dirlo ma è tutta la mia vita, il suo senso, la sua gioia. Quante volte si fa grande il desiderio di vedere il Signore e maestro nel suo vero volto e abbracciarlo quasi fisicamente. Sento che è lui che mi conduce giorno per giorno, il desiderio più grande è quello di essere trovato alla “fine” dopo la “lotta”, fedele: Acceso! Acceso, anche se con piccolissima e pallida luce o almeno, – e forse sarà più vero così, – come fumo che sale da uno “stoppino” appena spento, che si mescola al velo profumato dell’incenso, segno della fede e della preghiera di tutta la chiesa, di domenica alla fine del vespro solenne. E mi piace pensare che Lui vedendo quell’ascensione di bianco fumo, che contorto sale, dapprima corposo, poi come un leggero filo, sappia la fatica e il dolore del credere, ma soprattutto odori il crisma ancora profumato, che ha segnato e la fronte e le mani ed intriso di struggente nostalgia di Lui ed ispirato, per tutto il tempo della mia vita fino ad ora, il desiderio e l’intenzione di piacergli, di compiacerlo, nel tentativo di realizzare quella figura di discepolo che il vangelo racchiude: «Il discepolo non è da più del maestro; ma ognuno ben preparato sarà come il suo maestro» (Lc. 6,40).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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