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Come nasce una storia? Quale la sua origine, l’ambito del suo germinare, il suo milieu? Quale la ministerialità educante della narrazione, il suo compito pedagogico?
Proviamo a percorrere un sentiero.
Con l’espressione “le blanc des origines”, Pierre Teilhard de Chardin intese designare il concentrato intimo, nel tempo e nello spazio, dell’esperienza originaria del fenomeno umano, nel suo evolversi e divenire. Lo fece a partire da un immensamente piccolo, verso un infinitamente grande, attraverso l’infinitamente complesso: perché «è nella complessità che la coscienza appare» (Lettres Intimes, 11.7.1941 340), come processo di ‘riflessione’ che sale in modo irreversibile. Lo sviluppo evolutivo, non diversamente dal divenire narrativo delle storie, si sostanzia in un processo di complessità-coscienza, un divenire, il cui inizio è puntiforme, ma poi procede attraverso un’articolazione vieppiù differenziata, che si moltiplica, e torna a convergere attraverso passaggi, soglie, punti di maturazione concatenati, sempre più compositi.

Come da un solo fotogramma prende vita un film, così da una parola, un simbolo o un’immagine nascono un planetario testuale, una biblioteca. È un analogo gioco combinatorio, capace di generare lungo la narrazione sempre qualcosa di nuovo: un novum di continuità pur nella diversificazione, all’interno del fenomeno spirituale, sempre in formazione e accrescimento verso una più grande coscienza.

Per dirla con semplicità, le grandi cose cominciano sempre da un piccolo granello, finanche da ciò che appare effimero, impalpabile. Forse per questo Teilhard de Chardin parla del “bianco delle origini”, per ricordarci che l’inizio di tutte le nuove specie è invisibile e introvabile dalla ricerca scientifica. Le fonti restano nascoste, irrintracciabili e troppo piccole per lasciare il segno del loro concepimento. Si potrà allora rispondere alla domanda dell’inizio: le storie, i racconti come la vita cominciano in umiltà, l’umiltà di fronte all’altro: umiltà d’amore. Questo è il luogo della loro nascita. E nel loro dispiegarsi attraverso la narrazione, esse portano con sé la memoria di questa origine, sperimentandola ad un tempo come un perdita e un ritrovamento, come matrice rigenerativa al modo del lievito madre.

Ne La nostalgia del Fronte – descritta da Teilhard in un saggio del 1917 – viene rappresentato simbolicamente questo processo di trasformazione. La linea del fronte che è esperienza di perdita, di disfacimento, di scontro e di morte, diventa ai suoi occhi il “fronte dell’onda” che avanza, il fronte umano che non viene fermato neppure dall’entropia delle guerre, ma va oltre e avanza dopo ogni perdita e ricaduta, per poi riemergere come una nuova linea dell’onda. Così accade anche alle parole originarie, sepolte da quelle venute dopo, e poi riemerse in una nuova, ulteriore diversa nascita.

«Quando ho cominciato a scrivere storie – scrive Italo Calvino – l’unica cosa di cui ero sicuro era che all’origine d’ogni mio racconto c’era un’immagine visuale. Un’immagine che per qualche ragione mi si presenta come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia, o meglio, sono le immagini stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano dentro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. … Sarà [poi] la scrittura a guidare il racconto». Narrare allora non è appena uno strumento di conoscenza per se stessi, ma ambito di relazione fuori di sé; un superarsi immedesimandosi nelle storie d’altri per maturare la coscienza della responsabilità e del servizio che è esperienza di trascendenza: «ho sempre cercato nella immaginazione un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale, extrasoggettiva… si tratta di processi che anche se non partono dal cielo, esorbitano dalle nostre intenzioni e dal nostro controllo, assumendo rispetto all’individuo una sorta di trascendenza», (Lezioni americane, Milano 1988, 88-89 e 86-87).

Così l’istanza etica nella narrazione non resta fuori dalle storie; non è un optional; è traccia dell’altro, filo rosso che invoca responsabilità; evocativa a sua volta di una trascendenza non solo umana. La stessa che indusse Ulisse a ripartire da Itaca, come gli aveva profetizzato Tiresia con il remo in spalla, verso una nuova odissea, altri mari da navigare, ancora genti da conoscere. Ma rivelativa di una trascendenza altrove, è anche quella che si rivelò ad Abramo per interpellarlo. E di qui subito una storia narrante; storia di un popolo in cammino in compagnia di un libro raccontato e letto sempre di nuovo.

La seduzione con cui Yhwh, il Dio pastore, attira a sé, avviene attraverso la narrazione: «la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore», racconta Osea il profeta innamorato. Yhwh ama le storie degli uomini e in esse tesse anche la sua. Sono storie che educano all’ascolto, che mettono in cammino, lasciando il già noto verso un dove che s’ignora. Sono racconti che narrano di un dono, quello della Parola, e di Agape da cui prende forma la gratuità. Ma non è così anche per le storie? Non si sparpagliano per il mondo senza ricevere compenso alcuno, lasciandosi portare di voce in voce, di pagina in pagina in libertà? Esse non temono i confini né i doganieri, circumnavigano la terra; si lasciano trasportare dalle nubi, dalle onde del mare, attraversano deserti, foreste, montagne e pianure da un continente all’altro prima di giungere a noi.

I racconti dei vangeli, credo, assomigliano a corsi sotterranei che percorrono le storie, parole come perle di mare, nascoste nel sottosuolo. Se si fa silenzio credo che le si odi dire: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,7-8): «un’eco di memoria, come quel buio murmure di mare», direbbe Quasimodo.
Nelle storie si mette in atto un processo di strutturazione della realtà «la narrazione organizza e dà forma alla nostra esperienza».
L’esperienza del narrare, come pure l’esperienza spirituale e quella mistica, non sono un’evasione dal reale; non portano fuori dalla vita ma si sprofondano in essa.

Le parole e i racconti si distanziano e si avvicinano, si differenziano e si uniscono di nuovo, dando forma a un organismo narrativo, un «fabulario arcobaleno» di incontri che cambiano il mondo ed anche noi. Le storie – direbbe Teilhard pure lui narratore di storie – sono potenza spirituale della materia, linfa che sale nell’albero della vita e dunque vanno comprese come generative di un ambiente, strutturantesi e intellegibili con esso. Due suoi testi titolano proprio: Milieu divin e Milieu mystique, quest’ultimo in stile narrativo: «Un suono purissimo si è alzato nel silenzio; un’iride limpida si è diffusa nel cristallo; una luce è passata in fondo agli occhi che amo… Erano tre cose piccole e brevi: un canto, un raggio, uno sguardo… Perciò ho creduto dapprima che entrassero in me per rimanervi e perdersi. Invece, sono state esse a catturarmi e a rapirmi».

Madeleine Barthélemy-Madaule (1911-2001) una studiosa del suo pensiero riconosce al termine milieu un triplice significato. Il primo è quello che richiama l’idea di un ambiente (ciò in cui): l’orizzonte, il luogo e la struttura del formarsi dell’esperienza come polarità dialettica e convergente. Ambiente nel secondo significato si riferire invece a un mezzo (ciò per cui): un legame oppure un’apertura dialettica che fa comunicare l’Assoluto con il creato, il dentro e il fuori, l’in alto e l’in avanti. Un terzo significato, infine, riconosce nel termine milieu un punto (un centro di): la convergenza delle polarità, l’evento dell’incontro, l’attimo del presente in cui si dà la totalità. Anche per le storie il milieu è il limite estremo di ciò che si prova e di ciò che si fa, il punto più profondo della coscienza, dove questa comunica con l’Assoluto e con sé stessa e comprende con il suo sguardo le terre dell’alterità e di tutto il cosmo.

Queste mie domande e riflessioni sono nate da un dono di amicizia di Anita Gramigna. I suoi due ultimi libri: Fabulario arcobaleno. Educazione interculturale con i piccoli e Come nascono le storie. Pedagogia narrativa per i più piccoli sono stati un invito a lasciare la panchina, a rimettermi in gioco come in una partita amichevole. Il suo è stato un assist che non potevo perdere, proprio davanti alla porta; gli altri giocatori li aveva già dribblati tutti lei. Anita Gramigna dirige il laboratorio di epistemologia della Formazione presso la nostra università, insegna pedagogia generale e metodologia della ricerca. Con questi due studi ha inteso narrarci un aspetto della sua ricerca pedagogica interculturale che, condotta attraverso l’analisi e la narrazione di storie incipienti, balbettii infantili, piccoli dialoghi e racconti di altri continenti, rivela la forza educativa ed etica “del linguaggio al suo sorgere”. Una risorsa anche, tanto per i piccoli che nascono alla parola per la prima volta, come per gli adulti che li ascoltano e li assecondano, meravigliandosi di rinascere anche loro a quelle parole germinali. Qui è narrato come nascono le storie e come esse educhino alla interculturalità, intesa come riconoscimento dell’altro e dei suoi valori, della ricchezza che può venire dalla diversità che immunizza dalla pretesa di assolutizzare le proprie idee e valori. Intercultura ha un valenza progettuale, dice il comune impegno per un incontro attivo tra soggetti di estrazioni differenti ma dialoganti, per trasformare e lasciarsi trasformare cercando soluzioni ai problemi che sorgono nel nostro mondo diventato multiculturale e dunque bisognoso di convivere pacificamente.

«Quando nasce una storia prende vita un processo di rappresentazione interiore che contempla elementi cognitivi, emozionali e culturali, come sono gli artefatti linguistici. Quando nasce una storia si accende l’immaginazione interpretante». Pure lei ricorda un testo di Italo Calvino estratto dalle Lezioni americane: “l’immaginazione è un repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né è stato né forse sarà ma che avrebbe potuto essere”. Sottolinea che le storie nascenti si esprimono nella forma di un gioco-narrazione, che non è solo oggetto di riflessione ma una tecnica di gioco generativo, di gratuità che educa al dono.

«Il gioco-narrare è azione gratuita, libera dal persegui mento di scopi diretti: in questo senso, è libero, pur possedendo regole rigorose. È libero perché può disancorarsi dalla realtà, magari proprio per fornirne una versione surreale e risponde solo al desiderio di giocare con le parole, (ivi 36)…L’aurora del pre-linguaggio può divenire l’occasione per il pensiero adulto di rinunciare, almeno per il tempo breve di un gioco, alla propria esaustiva sovranità sull’attribuzione di senso alle cose. …il meraviglioso parla a ciascuno di noi infatti, può leggersi a tanti livelli, come è nella natura metaforica della narrazione e, naturalmente, del gioco… La bellezza delle immagini che fioriscono nelle gioco-storie, del ritmo ludico che lì si esprime, della musicalità delle parole, dell’assurdità delle metafore, si dà con un sentimento di dono». (ivi, 11-12; 30-31).

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

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