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«Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un’eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l’erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco».

In queste rime, tratte da una delle nove liriche di Mediterraneo, Eugenio Montale [Qui] ringrazia il suo mare per avergli fatto da levatrice, contribuendo a far nascere da sillabe scurite, da parole stanche e silenti, versi poetici come api ronzanti e sapidi ad un cuore amico.

Grato pure alla sua voce marina, di cui, onda dopo onda, l’eco della risacca ha serbato memoria, come l’erba avvizzita il ricordo del sole. Sì: grato al mare per averlo educato alla poesia, e ad essere lui stesso poeta di parole che «teco educammo» e mai si perderà questo resto di dono, come una consegna da trasmettere ad altri, anche se «noi non sappiamo quale sortiremo domani, oscuro o lieto; forse il nostro cammino» (Tutte le poesie, Milano 1996, 51).

‘Ricevere in dono’, ‘affidare’, ‘ricordare’, ‘allevare’, ‘svezzare’, ‘trasmettere’: sono verbi che richiedono la pratica permanente dell’attenzione, non solo per un poeta e le sue parole silenziosamente “ronzanti”, ma per ogni processo conoscitivo − come il leggere e lo scrivere − e per ogni cammino educativo.

Attenzione come capacità di spingersi fin dentro la realtà e innalzarla, portarla allo scoperto per farla camminare, coglierne i molteplici e segreti legami, accrescere la consapevolezza di sé e degli altri, muovere la decisione della libertà all’azione.

Non meraviglia dunque che per Simone Weil [Qui] obiettivi dell’educazione siano sviluppare la ginnastica dell’attenzione, suscitare motivazioni per continuare ad apprendere, alimentando il gusto del bello; ma anche trovare connessioni tra le parole e la vita, quale presupposto per la narrazione di nuove storie e conversazioni, intesa come trovarsi insieme, tenersi insieme in vita comune con continuità e convinzione.

Per dirla con il titolo di un libro di Maurice Blanchot [Qui] l’educazione non solo di chi legge e di chi scrive, ma al vivere stesso è «l’entretien infini» (la conversazione infinita), che è come dire anche “l’infinito intrattenimento”.

L’esigenza, la necessità di educare è come quella di scrivere o di leggere, un andare sempre oltre la lettura, la scrittura, oltre l’educazione stessa per spingersi più in là, oltre se stessi, verso l’incontro con l’altro, verso un sapere condiviso, una consapevolezza che scaturisce da azione trasformante.

Quando mi riesce, cerco di iniziare a scrivere partendo da un testo poetico. Anche poche parole, perché esse catturano subito l’attenzione, consentendo di dimenticarmi. Devo leggere e rileggere parole altrui, concentrami sulle stesse fino a sillabarle, per immergermi in ciò che alla superfice non appare, per mettere in luce ciò che mi sembra oscuro, sconnesso a una prima lettura.

Attendo così alla porta senza fretta, come quando nella notte si aspetta il venire dell’aurora. Solo allora si fa un poco chiaro il mistero che contengono le parole ronzanti: tanto da scoprire a volte il nettare alla loro mensa.

Vi è così un legame molto profondo tra “attenzione e poesia”. Quest’ultima innalza l’attenzione, e l’attenzione conduce alla poesia: anzi poesia è la stessa attenzione al segreto stesso racchiuso nel reale.

Ce lo ricorda Cristina Campo [Qui] in un testo de Gli Imperdonabili (Adelfi eB, Milano 2014). La poesia come l’attenzione «è attesa, accettazione fervente, impavida del reale»; essa conduce alla sintesi ricomponendo in figure e simboli ciò che è sparpagliato nella vita.

«Poesia è anch’essa attenzione, cioè lettura su molteplici piani della realtà intorno a noi, che è verità in figure. E il poeta, che scioglie e ricompone quelle figure, è anch’egli un mediatore: tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’altro uomo, tra l’uomo e le regole segrete della natura… L’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero. I simboli delle sacre scritture, dei miti, delle fiabe, che per millenni hanno nutrito e consacrato la vita, si vestono delle forme più concrete di questa terra: dal Cespuglio Ardente al Grillo Parlante, dal Pomo della Conoscenza alle Zucche di Cenerentola», (I, 151-152)

Sono andato pure a spigolare nel libro di Simone Weil: L’ombra e la grazia. Investigazioni spirituali, (Rusconi, Milano 1996). Per lei l’insegnamento ha per fine quello di preparare all’azione trasformativa attraverso l’esercizio dell’attenzione.

Questa infatti «costituisce nell’uomo la facoltà creatrice», perché legata al desiderio che nella realtà cerca un consenso: convivialità. L’io quando si riempie di attenzione scompare, al pari di una pietra che cadendo in un recipiente d’acqua, lo svuota, trasformandosi da colui che ospita a colui che viene ospitato fuori di sé nella realtà, lasciando tutto il campo all’Altro/altri:

«L’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera. Suppone la fede e l’amore… Il poeta produce il bello con l’attenzione fissata su qualcosa di reale. Lo stesso avviene con l’atto d’amore. Sapere che quest’uomo, che ha fame e sete, esiste veramente come me – questo basta, il resto vien da sé. I valori autentici e puri del vero, del bello e del bene nell’attività di un essere umano si producono mediante un solo ed identico atto; una certa applicazione della totalità di attenzione su di un dato obbietto», (ivi, 124-127).

Nel 2021 è uscita per i tipi della Marietti la ristampa del libro della Weil Piccola cara. Lettere alle allieve. In queste lettere viene alla luce il suo impegno pedagogico, lo stile, le dinamiche, gli orientamenti e le finalità del processo educativo. Lo scambio epistolare ripercorre il suo insegnamento in vari licei di storia e filosofia tra il 1931 e il 1938.

Il comprendere è per lei costituito da un movimento ascendente: di delocalizzazione. Un passaggio ad un altro piano, volto a cogliere tutte le interrelazioni e i rapporti che agiscono nella realtà, offrendo “moventi” a noi stessi per agire.

«Il primo dei principi pedagogici è che, per educare [innalzare] qualcuno, bambino o adulto, occorre anzitutto innalzarlo ai suoi stessi occhi; occorre fare in modo che egli possa sentire nell’intimo di avere un valore, perché è questo l’atto dirompente capace di sovvertire l’ordine esistente».

Tale innalzamento equivale ad un risvegliarsi alla realtà di sé, delle cose e degli altri. Questo risveglio rende altresì accorti a non essere dipendenti dal proprio immaginario e smaschera le pretese ideologiche della società, proprio perché fa emergere in tutta la sua verità che io non sono la misura di tutto e nemmeno gli altri lo sono; per me irriducibile e smisurata è l’esperienza della realtà: «la gioia altro non è che il sentimento della realtà», «la pienezza del sentimento del reale», (ivi, 23).

Anche educare alla fede implica questo processo di apprendimento. Di qui la necessità di risvegliare l’attenzione in vista di un agire trasformante: “nell’attenzione si ha una coscienza luminosa”; “l’attenzione è la forma più pura e più rara della generosità” (Weil, Lezioni di filosofia).

Il Documento base Il Rinnovamento della catechesi, redatto sotto la spinta del Concilio Vaticano II, pubblicato nel 1970 e riconsegnato nel 1988 alla Chiesa italiana e alle parrocchie, resta un testo autorevole per comprendere il senso profondo dell’imparare a credere.

Ai nn. 38-39 si afferma che educare alla fede significa «educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo. In una parola, nutrire e guidare la mentalità di fede… la fede nasce dalla chiara conoscenza del disegno di Dio e dalla profonda coscienza del suo amore. C’è vera mentalità di fede, quando c’è capacità di comprendere e di interpretare tutte le cose secondo la pienezza del pensiero di Cristo».

Così nei vangeli vediamo più volte il Rabbi di Nazareth risvegliare l’attenzione sulla realtà. Lo fa sin dall’inizio quando alla domanda dei discepoli: “dove abiti?” egli risponde: «Venite e vedete». È sempre lui che innalza i suoi discepoli ai loro stessi occhi, li apre alla coscienza della loro chiamata e della loro dignità, dicendo loro: «non vi chiamo più servi ma amici».

Non diversamente accade nel discorso della montagna, quando ricorda a suoi e alla gente il valore che essi hanno agli occhi del Padre suo: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?… Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede?»

O ancora «quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

Per Agostino tre sono le parole che guidano il cammino della fede: Memoria Christi, expectatio Christi, Attentio in Christum. Si educa alla fede facendo memoria del Cristo; si educa alla speranza nell’attesa del Cristo; si educa alla prassi trasformante della carità se si pone attenzione al Cristo.

L’entretien infini, l’infinito convivio, è l’esperienza educativa, il perdurante invito a sedersi a mensa della Parola e del Pane franto nella vita per frangerlo con i poveri.

Simone Weil, scrivendo ad un allieva, le invia un testo poetico di George Herbert [Qui] dal titolo: Love. Si era intorno a metà novembre del 1938, e questi versi l’avevano segnata per sempre, innalzata ai suoi stessi occhi dallo sguardo del Cristo su di lei.

Scrive nella sua Autobiografia spirituale: «Né i sensi né l’immaginazione avevano avuto la minima parte in questa improvvisa conquista del Cristo; ho soltanto sentito, attraverso la sofferenza, la presenza di un amore analogo a quello che si legge nel sorriso di un viso amato».

Ecco il testo nella traduzione poetica di Cristina Campo

Amore

Amore mi diede il benvenuto; ma l’anima mia si ritrasse,
Di polvere macchiata e di peccato,
Ma Amore dal rapido sguardo, vedendomi esitante
Sin dal mio primo entrare,
Mi si fece vicino, dolcemente chiedendo,
Se di nulla mancassi.
Di un ospite, io dissi, degno di esse re qui.
Amore disse: Quello sarai tu.
Io, lo scortese e ingrato? O, amico mio,
Non posso alzare lo sguardo su Te.
Amore mi prese la mano e sorridendo rispose:
E chi fece gli occhi se non io?
È vero, Signore, ma li macchiai: se ne vada la mia vergogna
Là dove merita andare.
E non sai tu, disse Amore, chi portò questa colpa?
Se è così, servirò, mio caro.
Tu siederai, disse Amore, per gustare della mia carne.
Così io sedetti e mangiai.
(Piccola cara, 71).

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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