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Giorno: 15 Ottobre 2020

Breve e triste storia di un calciatore

La mia carriera calcistica, è presto detto, fu sicuramente tutt’altro che epica e avvincente, dai piccoli azzurri, agli under 18, ogni anno un campionato diverso, Etrusca, Porta Mare e Ugo Costa. Poi in quinta superiore smisi di giocare.
Troppo presto, avrei potuto divertirmi ancora. Ma la testa a quell’età non era il mio forte, neppure dopo a dire la verità.
Anni difficili introno ai venti, poi qualche campionato amatori, Confesercenti, Lo Scoglio e Sporting. Ennesima distorsione alla caviglia e basta col calcio a undici, senza nessun titolo sulla gazzetta.
Sei divertenti campionati di calcetto C.S.I., grezzo e rude libero anche in quello sport per piedi fini, rigorista, qualche goal su punizione, pochissimi su azione, un goal da metà, campo e uno dalla mia area, fino all’ultima partita ufficiale. Dieci minuti da subentrante, sul dieci a zero (per gli avversari), entrata alla vigliàcc al treno e mi rompo una spalla. Fine, the end, pronto soccorso e telefonata alla moglie in attesa delle gemelle e gioco finito.
Ma pure nella mediocrità della mia sedicente carriera agonistica ho avuto dei rimpianti, degli sliding doors che se avessi una bacchetta magica avrei voluto cambiare, sarebbero stati delle perle di memoria che oggi a cinquantuno anni mi avrebbero reso ancor più dolce il ricordo di quegli anni eroici.

  • Porta Mare – Laghese, partita di qualificazione del torneo Paolo Mazza sul campo della Libertas in via Canapa, categoria Giovanissimi. Risultato finale quattro a zero per noi, poi vincemmo pure il torneo, ma questo l’ho già raccontato mille volte. Non ricordo su quale punteggio, ma Paolino, il nostro portiere mi appoggia il pallone poco fuori dall’area, nessuno mi fronteggia mi allungo in eleganza sulla trequarti, come cervo che esce di foresta (cit.), la mediana avversaria, forse avvilita dal punteggio mi oppone poca resistenza, scarto e mi allungo scavallando la schiena d’asino del centro campo, i compagni sulla fascia mi insultano affinché io gli ceda il pallone. Ma no, proseguo. Sono sulla loro trequarti, mi fumo due centrocampisti che mi vogliono togliere il pallone, entro in area e via, anche il libero mi bacia le terga. Mi defilo un po’ sulla destra, non ho più fiato, non respiro, la vista mi si appanna, nella nebbia vedo uno con una casacca diversa dagli altri che mi viene incontro. Con le ultime cellule celebrali ancora non in apnea deduco sia il loro portiere, mi allargo ancora d’esterno alla sua sinistra, carico il destro e boom, tiro la bomba. Credo io. Ma calcio talmente male e talmente piano che lo sbruffo di terra colpita con la punta delle mie Benazzi si alza in un fungo nucleare di polvere, il Mitre rotola stanco e placido contro la rete. Di recinzione. A poco più di due metri dalla porta. A poco più di due metri dalla gloria e dalla gioia di avere francobollato, nel torneo più importante della mia vita, sotto lo sguardo di alcune decine di parenti tra cui mio nonno. Mi accascio a braccia aperte sull’erba. Forse qualcuno ride, forse qualcuno applaude, forse qualche compagno mi rincuora, dopo avermi nuovamente insultato per non avergli passato il pallone. Ma quel goal poteva entrare nella storia. La mia. Qualche anno dopo George Whea, attuale presidente della Liberia, mi copiò il gesto, con un risultato nettamente diverso. Ma pure io ho rischiato di segnare in un coast to coast in quella lontanissima primavera di metà degli anni ’80. Sarebbe stato bello, ma così non fu.
  • Categoria allievi credo, torneo notturno di Reno Centese, ancora col Porta Mare. Bellissimo impianto, fondo perfetto. Il torneo è a eliminazione diretta. Gran partita, dalle mie parti non passano neppure le mosche, anche grazie al mio compagno di reparto Fefo Rizzioli. Normalmente lui era la mente e io il braccio della coppia di centrali difensivi, un lusso per le giovanili dell’epoca, ma quella sera baciato dalla dea Eupalla, oltre ai mie compiti di marcatore puro azzecco pure diverse uscite e molti lanci sui piedi dei mie compagni più offensivi. Insomma sembro un ottimo regista difensivo, i miei piedi quella sera guadagnarono punti. La partita è tatticamente perfetta, le difese vincono nei confronti dei rispettivi attacchi avversari, 0 a 0 bello e combattuto sotto i fari. Praticamente da sempre sono stato un buon rigorista. Spesso nell’ultimo allenamento prima della partita finivo come rigorista designato, quella sera ero nei cinque. Non ricordo più l’ordine dei rigori, credo che prima di me avesse sbagliato Fefo, fatto sta che dal cerchio del centrocampo dove tutte e due le squadre sono assembrate (termine moderno e tristemente noto) mi accingo, tenendo a bada l’ansia (penso io), a percorrere i quaranta metri che mi separano dal dischetto del rigore. Chi non l’ha mai provato, non sa quanto pesa un cuoio a undici metri da un portiere, a me sembrava un macigno. Piccola nota di cronaca, io tutti i rigori che ho tirato, calcio a 11 (1) calcio a 7 (1) calcetto (tanti) amichevoli e partite tra amici (pure tanti) li ho tirati sempre tutti allo stesso modo, alla destra del portiere in basso cercando il palo e colpendo pallone di taglio interno. Quella volta invece cosa pensai, o così mi venne al momento del tiro, di tenere la sfera a mezza altezza. Il portiere mi guardava, io guardavo lui, c’erano le luci, c’era il pubblico, c’era mio padre e il Dottore suo amico e prof. di matematica, l’arbitro da l’assenso al tiro, il portiere si muove, io prendo la rincorsa saltello come Van Basten, il numero uno si tuffa alla sua sinistra, spiazzato, tiro a destra. Palla sopra l’incrocio di due dita, ma il quasi goal non esiste. Sbaglia poi anche Franchino, siamo fuori e per un terzo ne sono responsabile. Un rigore spagliato per un calciatore di quindici anni è un trauma, da cui non ci si riprende più.
  • Siamo in trasferta, anno forse 1986, forse l’anno prima categoria Giovanissimi o Allievi. Partita più che in discesa, San Bartolomeo – Porta Mare. Durante il match vedo la loro ala destra vomitare sulla linea laterale antistante le panchine. E non è una metafora, forse la tensione, più probabilmente la serataccia del sabato. Insomma per farla corta, dopo pochi minuti siamo uno a zero per noi, scorrono i secondi e due e tre e… la partita volge alla fine in un bagno di sangue per il San Bartolomeo, dieci a uno a pochi minuti dal 90°. In difesa abbiamo giocato con la sigaretta in bocca. Dimenticavo, la loro marcatura è  frutto di un autogoal del nostri libero. Il loro povero portierino non ne ha vista una sembra Sumbu Kalambay dopo dieci riprese contro Marvin (the Marvelus) Hagler è frastornato e quasi in lacrime. Beh io che decido di fare? Col mio 5 sulla schiena mi propongo in avanti, forse un calcio d’angolo, forte dei miei tre goal in quattro campionati. La palla dopo un rimpallo fuori area mi si ferma tra i piedi, nessuno mi fronteggia. E niente, carico il destro la rincorsa è perfetta, il piede d’appoggio si piazza a mezza spanna dal pallone, il collo pieno colpisce la valvola del Mitre. Mai calciato così bene e forte in tutta la trafila delle giovanili e neppure dopo. La palla tesa, ferma nell’aere saetta verso l’incrocio. E’ fatta vado a referto. Ma che succede, il portierino si flette sulle gambe e spicca il volo, con la mano di riporto sembra Clark Joseph Kent che si è appena dismesso la cravatta e l’abito elegante ed è rimasto con la tuta da supereroe. Vola il portierino, la madonnina della traversa lo prende per le spalle e con la punta del mignolino, dei sui bei guati Reusch la devia di millesimo di micron oltre l’incrocio. Allibiti i ventidue in campo, più le panchine, più il pubblico. Un boato fra i sui compagni, lo festeggiano come se avesse parato un rigore. Io allargo le braccia e sorrido. A fine partita sono andato ad abbracciare il portierino e gli ho detto: “Ma perché proprio a me? Come hai fatto?” e lui sorridendo mi disse. “Boh?.”
  • L’ultimo dei mie rimpianti risale sempre a tantissimo tempo fa, ma già oltre quindici anni dopo gli anni dell’adolescenza. Siamo agli inizi dell’ XXI° secolo, il mondo si è trasformato, l’irreversibile scorrere del tempo mi aveva già fatto diventare un ultra trentenne. Le scarpette chiodate erano già da mò relegate nel sotto tetto, ma il loro posto era stato preso dalle suole lisce idonee al calcetto in palestra. E lì, non eravamo neppure in palestra, era la Coppa don Bosco di calcio a sette, presso il campo di san Benedetto. Ero rigorista, come ricordavo primo, un killer implacabile da dodici goal su dodici tiri nelle portine piccole del calcio a 5. Il lavoro di suola del futsal non mi si addiceva, ma io continuavo a giocare da libero pure in un campo ridotto. Il calcio a sette è per atleti veri, il campo più lungo, le porte più grandi ma nella velocità del calcio a cinque, un massacro insomma. A bordo campo mia moglie, assieme ad amici e la mia bimba Valentina, le gemelline non erano ancora nate e sforzando la memoria la bimba avrà avuto forse tre o quattro anni. La squadra avversaria è più forte di noi, ma noi teniamo abbastanza bene. Sullo 0 a 0 l’arbitro fischia il rigore e io in qualità di vice capitano e killer dal dischetto strappo quasi il cuoio dalle mani di un compagno. D’altronde non ne sbaglio uno con la porta piccola. Peccato che quella fosse una porta grande. Sbaglio tutto dall’inizio, metto a terra il pallone troppo presto, non cerco la valvola, mi faccio intimorire dagli avversari che tra loro sussurrano: “tanto la sbaglia”, in più errore madornale, guardo l’arbitro e non il portiere. Il fischietto trilla, cambio lo sguardo dalla casacca nera a quella multicolor del portiere, dietro le luci, il pubblico, il rumore della gente sembra un frastuono. Portiere fermo immobile, una mummia, rincorsa, portiere ancora fermo, impatto, portiere fermo. La palla un po’ strozzata sfiora il palo, ma esce. E il portiere è ancora lì, maledettamente fermo. Avevo già sognato di correre ed abbracciare la mia bimba, ma il tutto sfuma in quella rincorsa e in quella profezia dei fottuti avversari che gufano e esultano: “te l’avevo detto io che lo sbagliava”. Delusione, amara e profonda delusione.

Il calcio passa come l’adolescenza, ma chiunque abbia indossato una maglia con un numero sulla schiena, chiunque abbia pestato l’acqua stagnante di uno spogliatoio ingorgato, si sia allacciato le scarpe coi tacchetti e utilizzato il nastro da pacchi come fasciatura è e rimarrà per sempre un calciatore. Tutta la vita, anche dopo i cinquanta anni e oltre.

PAROLE A CAPO
Seb Tennent: “Scambio” altre poesie

“La vera poesia può comunicare anche prima di essere capita.”
(T. S. Eliot)

 

Ferrara bagnata 

D’autunno, è bagnata!
E così lucida, è Ferrara!
Pare già preparata
ad un ballo di corte.
Finito l’acquazzone,
è come una duchessa
dopo il trucco,
per l’acclamazione.
A vestirsi di nuovo,
a rimirarsi
in vie che sono specchi
di soave perfezione.

 

Autunno 

L’autunno, mai
ha spento sorrisi
L’autunno arriva
in punta di piedi
Senza preavvisi
in un batter di ciglia
Più introspettiva
diventi
e più riflessiva
lieve, è la caduta
foglia dopo foglia
Ti ricopre l’auto
che hai parcheggiato
come al solito, ai bordi
di un viale alberato
Ché solo è bastato
quel vento spirato
E le parole pronunciate
su fondente cioccolato
Li cerchi ancora, quei crepitii
di fuochi, ai quali t’avvicini?
La fantasia, la protezione
di una soffice maglia?
Aromi, tisane di poesia
lasciata in infusione?
Pagine di libri
che al ritmo della pioggia
fagociti sul letto?
Troverai in un abbraccio
tutte le risposte
e conferme
e germogli di vita
che già meditavi.

 

Perfetti sconosciuti

Capita poi in un giorno sereno,
dannato e inatteso, un intoppo,
quando vorresti far tabula rasa
di certi pensieri
e paranoie
di troppo.
Ti perdi tra campi
a due passi da casa,
e vai per sentieri
e per scorciatoie
che più son tortuose
e strette, più volentieri
tu ti ci immergi,
in incontri casuali,
gratificanti saluti,
perfetti sconosciuti
e si fa così veloce
e semplice il modo
in cui, poi, si vaporizza
ogni amarezza.

 

Scambio 

Cosa c’è fra di noi,
se non scambi
arteriosi e venosi,
se non una simbiosi
perenne,
totale,
densa emoglobina,
reciprocamente
a ossigenarci,
mutuamente
a condividere
e dentro, pulsarci
tutto, ogni cosa
nell’atrio e nel ventricolo?

 

Seb Tennent (Ferrara, 1969). Laureato in chimica. Ha lavorato per lunghi anni come analista di laboratorio nel settore agrario. La “quasi-distruzione” del comparto bieticolo-saccarifero avvenuta a partire dal 2005 ha causato la chiusura del laboratorio. Ora lavora in una cooperativa di servizi di vigilanza e, nel tempo libero, esplora in bici il territorio ferrarese  e, “nascosto” da uno pseudonimo, scrive poesie sulla sua pagina Facebook.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. .\4
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POLITICHE ECONOMICHE DOPO L’EMERGENZA: Il rischio di battere le vecchie strade e i soliti errori.

Come sempre, la lettura dei documenti predisposti dal governo sull’impostazione della politica economica è interessante. Non fa eccezione la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e finanze (NADEF), approvata il 7 ottobre scorso. Non foss’altro perché si misura con ciò che ha determinato sul piano economico e sociale la pandemia nei mesi scorsi e prova a tracciare l’itinerario per i prossimi anni.
Ora, a me pare che lì si trovino almeno 2 elementi di un certo rilievo, che, come spesso accade, sono occultati dalla narrazione mainstream.

Il primo è relativo alla situazione del debito pubblico: ciò che mi pare significativo non è tanto il suo forte innalzamento quest’anno (dal 134,6% del PIL nel 2019 al 158% del PIL nel 2020), quanto piuttosto, realisticamente,  che il suo rientro ai valori preCovid è previsto si realizzi nell’arco di un decennio (sempre che la pandemia non ritorni ad una diffusione paragonabile a quella dell’inizio d’anno). Questo scenario, per cui al 2031 il rapporto debito/PIL dovrebbe tornare ai livelli del 2019 rivela intanto un dato semplice, ma di grandi conseguenze, e cioè che il nostro Paese continuerà ad essere fuori dalle regole del debito fissate in sede europea per tutto il prossimo decennio;  tali regole, sospese nel 2020 per il diffondersi della pandemia, prevedono che gli Stati Membri dell’area euro che hanno un rapporto debito pubblico/PIL superiore al 60 per cento sono chiamati ad intraprendere una sua graduale riduzione che li porti in venti anni a raggiungere tale soglia di sostenibilità.
Ora, se è ipotizzabile che anche per il 2021 continui la sospensione di quest’approccio, che è quello su cui si sono fondate le politiche di austerità di questi ultimi anni, non c’è dubbio che ripartirà, in tempi non biblici, la discussione sul futuro di quest’impostazione. A quel punto – e probabilmente questo sarà il vero banco di prova per l’Europa, ben di più della messa a punto del Recovery fund – l’alternativa diventerà stringente tra riconfermare quelle regole o arrivare ad una loro profonda modifica ed è bene aver presente che su questo punto discriminante si aprirà una battaglia politica e sociale di grande rilievo.

Il secondo tema che emerge dalla Nadef è il fatto di utilizzare le risorse provenienti dall’Europa (205 miliardi di €, spalmate nel periodo 2012-2026) come volano fondamentale per incrementare gli investimenti pubblici e, per questa via, far ripartire crescita e occupazione. Si potrebbe dire: niente di nuovo, esattamente quello che viene dichiarato da alcuni mesi in qua.
In realtà, ad un esame più attento, quello che si legge in controluce è assai significativo, e cioè che siamo in presenza di un intervento di carattere straordinario, ma tutto sommato con strumenti tradizionali, in sostanziale continuità con le politiche degli anni scorsi.

Gli investimenti pubblici sono previsti crescere in modo significativo e questo dovrebbe consentire di giungere ad una crescita del 6% nel 2021, 3,8% nel 2022 e 2,5% per cento nel 2023.  Quello che appaiono, invece, decisamente ottimistiche sono le previsioni sull’occupazione;  il tasso di disoccupazione dovrebbe ridursi dal 10% del 2019 al 9,5% nel 2020 e all’8,7% nel 2023. Dati, questi, poco attendibili in sé, ma ancor più se consideriamo quello che è già in corso quest’anno, dove il fenomeno più rilevante su questo fronte non è stata solo la caduta degli occupati, ma ancor più la crescita degli inattivi, cioè delle persone che hanno abbandonato la ricerca del posto di lavoro  Né si può sottacere che le politiche del lavoro individuate per i prossimi anni, costruite soprattutto sugli sgravi contributivi e sul sostegno al reddito, già sperimentate negli anni passati, hanno prodotto ben pochi risultati.
Insomma, siamo di fronte ad un approccio che, nella sostanza, ripropone gli schemi classici di politica economica e sociale, con l’unica variante, certamente non banale, di avere più risorse a disposizione. Si potrebbe dire così: le forti risorse che arrivano servono a superare il grave picco negativo in termini di caduta del PIL e della produzione registrato a causa della pandemia e poi si riparte come prima, con un po’ di infrastrutture, digitalizzazione e interventi di “sostenibilità ambientale”, conditi con un bel po’ di greenwashing. Non c’è traccia della necessità di cambiare il meccanismo di sviluppo, di uscire dalla vulgata dell’equazione per cui si tratta di rilanciare la crescita per costruire nuova occupazione, tantomeno si ha la consapevolezza che tutto ciò non funziona più.

Una riprova di quest’impostazione la si ritrova se guardiamo a cosa dovrebbe succedere sui punti che qualificano le politiche di Welfare e sul lavoro pubblico che dovrebbero sostenerli. Per quanto riguarda gli annunciati interventi su istruzione e sanità, siamo ancora a generiche dichiarazioni di principio e, allo stato attuale, pur volendo essere benevoli e imputare alla discussione non sciolta sul ricorso al MES per quanto si riferisce alla sanità, non c’è traccia dell’obiettivo minimo che si dovrebbe realizzare, e cioè l’equiparazione della spesa di queste 2 voci a quella dei principali Paesi europei.
Sempre per stare alla sanità, va ricordato che la spesa sanitaria pubblica nel nostro Paese, secondo i dati della Ragioneria dello Stato, cala, in proporzione sul PIL, dal 7% del 2008 al 6,8% del 2017, scendendo al di sotto della media europea (7%), mentre cresce nello stesso periodo in Germania (dal 6,4% al 7,1%) e in Francia (dal 7,4% all’8%).
Per converso, appare inquietante quanto previsto, sempre dalla Nadef, rispetto alla spesa per i dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni nei prossimi anni. Lì si dice testualmente che “i redditi da lavoro dipendente della PA cresceranno al ritmo del 2,4 per cento e del 2,6 per cento per ciascuno degli anni 2020 e 2021. La dinamica è correlata soprattutto all’aumento degli occupati della PA. La riduzione attesa nel biennio successivo, rispettivamente dello 0,8 per cento e dello 0,3 per cento nel 2022 e 2023, consentirà il calo dell’incidenza dei redditi da lavoro dipendente sul PIL, dal 10,8 per cento del 2020 al 9,6 per cento del PIL nel 2023, livello lievemente più basso del 2019”. E questo dopo la ‘cura dimagrante’ incentrata prima di tutto sul blocco del turn-over, cui i dipendenti pubblici sono stati sottoposti da almeno da 10 anni, per cui essi sono calati di quasi 200.000 persone (-5,6 % rispetto al 2008) e al 2019 risultano essere 3,2 milioni.
Ora, visto che il potenziamento del Welfare pubblico va di pari passo con l’incremento del lavoro pubblico (a meno che si pensi ad un ruolo importante di privatizzazione del sistema), quelle stime, ostentate con un certo ottimismo, a ribadire che il controllo sulla spesa del lavoro pubblico è indice di virtuosità, ci dicono – oltre al fatto che non ci sono spazi più di tanto per i rinnovi contrattuali del settore scaduti nel 2018 – almeno due cose importanti.
La prima è che, appunto, non si ha in testa l’obiettivo di rendere più forte i pilastri del Welfare (figuriamoci il necessario cambio qualitativo necessario); la seconda è che l’occupazione delle Pubbliche Amministrazione può crescere, in termini congiunturali, per affrontare l’emergenza Covid e poi rientrare nella norma. Lo schema sembra essere quello di una crescita dell’occupazione a termine, ricalcando quella già messa in atto con il personale Covid assunto nella scuola ( circa 70.000 assunti con contratti a termine nell’anno scolastico 2020/2021 tra insegnanti e personale ATA).

Siamo ben distanti da ciò che dovrebbe essere messo in campo e, soprattutto, di fronte ad un’impostazione che di fatto non assume come strategici il tema di un nuovo ruolo del Welfare e del lavoro pubblico.
In realtà, si dovrebbe ragionare di istruzione, sanità e assistenza, messa in sicurezza del territorio, riconversione ecologica dell’economia come altrettanti capitoli decisivi per la costruzione di un vero Piano del lavoro, comprendendo in esso crescita quali-quantitativa del lavoro pubblico e del lavoro in generale. Questo, peraltro, sarebbe anche l’approccio per affrontare il quadro che ci consegna la situazione della pandemia e anche per delineare una reale riforma delle Pubbliche Amministrazioni. Di cui si continua a discettare, quasi come fosse un richiamo liturgico, ma senza voler prospettare l’intervento  più semplice ed efficace per realizzarla, e cioè l’inserimento in termini quantitativamente utili di lavoratori giovani e qualificati al suo interno, anche per abbattere l’età media dei dipendenti pubblici, che a fine 2017 aveva raggiunto i 50,6 anni, la più alta in Europa!
Non ci vuole molto a concludere che anche quest’ultimo tema, quello di una vera riforma delle Pubbliche Amministrazioni, rientra a pieno titolo in un’idea di modello sociale e produttivo alternativo a quello che ci prospetta il Pensiero Unico, anche nelle vicende della pandemia. E per il quale vale la pena continuare a ragionare e mobilitarsi.

Questo articolo è apparso il 13.10.20 su https://transform-italia.it/