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Giorno: 25 Dicembre 2021

PRESTO DI MATTINA
Natale: contemplativi sotto gli alberi

Ogni notte di Natale, per 13 anni, ho scritto per la gente della parrocchia una storia sugli alberi.

Cominciai con quello che voleva vedere le sue radici; terminai con la storia dell’albero di santa Francesca Romana, un cotogno, nel 2010. Poi altri racconti ho sparpagliato nei quaderni pastorali, per tenere vivo il pensiero che anche gli alberi, immagine e simbolo del misterioso legame tra il cielo e la terra, tra ciò che è già e ciò che deve ancora venire, condividono con noi una vocazione contemplativa.

Sì, proprio così: perché è degli alberi e degli uomini essere contemplativi, tendere oltre se stessi, verso un compimento che è ad un tempo in loro ed a loro trascendente; portati ad inabissarsi in profondità e ad innalzarsi nelle altezze e aprirsi e comunicarsi tra loro con rami e foglie.

La contemplazione è esperienza di transito, di superamento e attraversamento di confini, del proprio limite, pone nel luogo dell’altro. Mette in comunicazione realtà lontane, propiziando l’incontrarsi delle differenze portatrici di accrescimento e sviluppo.

Contempla, infatti, colui che resta aperto al venire del nuovo, nella notte al venire del giorno. Per questo l’albero può essere preso a emblema della rinascita dopo la morte.

Come gli alberi, nascosti nel solstizio d’inverno, contemplano il solstizio d’estate, così noi nel mistero del Natale contempliamo quello della Pasqua: ognuno a suo modo, nella sua notte oscura, contempla attendendo l’aurora messaggera del giorno.

Nel salmo che apre il libro del salterio è detto dei contemplativi nel cui cuore mormora giorno e notte la parola di Dio: sono come alberi alti piantati lungo corsi d’acqua, che il frutto matura ad ogni stagione e le foglie non vede avvizzire (1,3).

Anche se è notte, vi è una fonte che colui che contempla conosce. Questa fonte, sempre sorgiva del mistero nascosto in ogni vita, in ogni fede, in chi ama e spera, è cantata dal mistico e poeta di Fontiveros in Castiglia, san Giovanni della Croce [Qui]: il quale la riconosce nascosta nel pane eucaristico, ma è visibile pure in ogni pane che si frange e si condivide con gli altri:

«Ben so io la fonte che sgorga e scorre, anche se è notte! Quell’eterna fonte sta nascosta, ma ben so io dov’essa ha sua dimora, anche se è notte. Sua origine non so, non ve n’è alcuna, ma so che tutte l’origini in sé aduna, anche se è notte.

So ch’esservi non può cosa più bella, che cieli e terra bevon d’ella, anche se è notte. Ben so che fondo in essa non si trova e che nessuno mai potrà guadarla, anche se è notte. La sua chiarezza mai non s’offusca, so che ogni luce da essa è venuta, anche se è notte.

So che tanto copiose son le sue correnti, che cielo e terra irrigano e le genti, anche se è notte. La corrente che nasce da tal fonte ben so quanto è grande e onnipotente, anche se è notte. La corrente che da queste due procede so che nessuna d’esse la precede, anche se è notte.

Codesta eterna fonte sta nascosta in questo vivo pan per darci vita, anche se è notte. Qui se ne sta, chiamando le creature, che dell’acqua si sazian, anche se è buio, perché è notte. Questa viva fonte, cui anelo, in questo pan di vita io la vedo, anche se è notte
(Canto dell’anima che si rallegra di conoscere Dio per mezzo della fede).

Ho ritrovato in questi giorni un testo scritto nel 2006, scaturito come un flusso di coscienza, nella notte dell’ultimo giorno degli esercizi spirituali con i confratelli a Marola, Reggio Emilia. Un racconto. Solstizio d’estate lo avevo titolato.

Quale sorpresa rileggerlo ora come fosse la prima volta nel solstizio d’inverno. Ma non lo avrei rigirato a voi se non mi avesse convinto la lettura – anche quella inattesa sorpresa – di una poesia di Guido Cavalli: Nel Castagneto (Diabasis, Parma 2016).

Nella prefazione Claudio Risé annota come il poeta «cerchi nella terra, nel bosco, nelle vene d’acqua le parole che danno forma ai suoi versi. E le trova, profonde come le radici dei suoi alberi e arbusti, e cautamente occhieggianti, come le cortecce dei loro tronchi»; come l’odore dei boschi di castagno:

«È l’odore dei boschi di castagno./ È la cosa più antica che c’è in me./ Come nel giorno della creazione/ lo spirito aleggiava sulle acque/ buie ma piene di suoni, colori/ tenuti nella mano e sussurrati,/ così l’arca del ricordo sembra/ vuota ma dentro raccoglie la voce del pensiero quando parla».

Marola 20 giugno 2006.

«Dopo la cena, dal ritiro di Marola mi avvio silenzioso per un sentiero che, dall’ampia radura a fianco della Chiesa millenaria dedicata a Maria Assunta, fatta costruire da Matilde di Canossa si inoltra nel bosco dei castagni secolari. È ancora chiaro. La luce indugia ritardando l’appuntamento all’orizzonte con il buio. Non vuole cedere il passo alla notte trattenendosi ancora un poco dentro il bosco a ridisegnarne un’ultima volta le sue forme.

Addentrandomi, mi accorgo così che tutto è ancora vario e ben distinto: colori, forme e odori. L’occhio cade ovunque ed è attirato da sempre nuovi squarci, da differenti scenari; affonda sempre oltre per cercarne la fine e mai si sazia del nuovo che gli si presenta.

Tutto, sotto lo sguardo, varia in continuazione: le sagome dei tronchi, l’ondulazione del terreno, la disposizione dei rami e delle foglie, e tuttavia tutto è comune e familiare trattandosi di un esteso bosco di castagni.

Dentro a questo vivaio naturale a questa famiglia patriarcale più che centenaria, mi verrebbe da esclamare: “guarda, finalmente tante diversità in comunione“. Ma non è forse così – mi dico – anche se non si trattasse di un bosco di tutti castagni.

Infatti in mezzo a questa comunanza vegetale, pur essi in comunione, sono aceri, qualche quercia, alcuni cedri neo-comunitari e qualche pino, che svetta dritto tra arbusti vari. Questa sparuta minoranza non sembra minimamente intimorita dalla maggioranza, ma fa anch’essa la sua bella figura. Qui ogni albero è ammirato e tutti sono accolti, grandi e piccoli e la diversità non fa paura, perché la terra è di tutti, ed il sole si fa tutto a tutti senza privilegi di sorta.

Mentre cammino ascolto il bosco, e lui mi regala la memoria del vento che rincorre e si intreccia con quella del mio spirito tra le fronde. Lo spirito è attratto ora qua ora là, si distende in alto, in basso si china subito dopo, poi si gira in continuazione. Chiamato da tante voci, colori, forme quasi si disperde e si dispera, così egli rincorre ogni più piccolo rumore, ogni visione che gli si presenta: non vorrebbe perdere nessun invito.

Ma poi ecco, si ferma davanti ad un castagno centenario, perché ricorda il grande castagno di Camaldoli: il tronco di circa sei metri di diametro, scavato dal tempo come una grotta di eremiti. Riesce perfino a vedervi dentro un monaco raccolto intento alla sua lectio.

Egli si ricorda poi il bel nome del castagno, chiamato l’albero del pane, per via della farina di castagna che, una volta, teneva il posto di quella di grano che mancava. Un pane difficile quello che del frutto del castagno, perché prima se ne deve affrontare il pungente riccio. “Lo stesso è del pane della comunione” – rimugina e rumina lo spirito dentro di me –  non nutre se non si vive in comunanza e lo si pone al centro della difficile comunità.

Mi accorgo che anche i volatili del bosco accumulano ritardo al giorno, imitando la ritrosia della luce ad entrare nella notte. Anch’essi sembrano presagire che questa notte sarà la più corta dell’anno. Domani sarà il solstizio d’estate, il giorno più lungo.

E forse perché vorrebbero rendere questa notte ancora più breve che essi indugiano a ritirarsi silenziosi nelle loro dimore, quasi che per una volta fosse possibile cogliere il giorno nascere, non dalla notte, ma dal giorno che l’ha preceduto.

“Un giorno senza tramonto” – prorompe d’improvviso la voce dello spirito in me – “il giorno del sole di giustizia che verrà su di noi”.

In un attimo, come sterpaglia a cui si appicca il fuoco, mi sono sentito avvinto dalla memoria struggente di quel giorno promesso e benedetto, portato quasi fin sulla sua soglia. Un attimo, un attimo subito inghiottito dalla penombra del bosco fattasi d’improvviso più oscura e minacciosa.

Ritornato sui miei passi e raggiunta l’ampia radura vicino alla chiesa mi sono girato indietro a guardare, pensando di vedere ormai solamente, di quel bosco, una massa oscura ed informe. Ed invece, nonostante il tramonto ormai inoltrato, il bosco dei castagni rimaneva ancora chiaro, le cime degli alberi sembravano trattenere ancora la luce, al modo di quelle nubi all’orizzonte che, oscure e cupe nella loro massa, ai bordi risplendono ancora degli ultimi riflessi del tramonto.

Solo allora mi sono accorto che quel supplemento di chiarore veniva dalla fioritura dei castagni, erano i loro lunghi e bianchi fiori penzolanti alla brezza della sera, come addobbi liturgici disposti per la festa del nuovo giorno, che mi annunciavano, nel solstizio d’estate, la memoria dolce e struggente insieme del Giorno senza tramonto, del giorno di Cristo Signore».

Il suo Dies Natalis nella Pasqua a venire.

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

REPARTO 6
un racconto

Liberamente tratto da un racconto di Chekhov

La luce tutte le mattine,
almeno io penso sia mattina, entra in questo camerone pieno di echi e di voci aggrappate ai muri scalcianti, si intrufola di soppiatto. È calda, se la si guarda dalla mia seggiola è carica di milioni di piccole farfalle che galleggiano nel suo raggio e spariscono nell’ombra.
Io me ne sto seduto su questa piccola seggiola, forse era di una scuola elementare o magari di un asilo, perché le mie ginocchia sono vicine alla mia faccia. Chissà quanti bambini sono stati seduti su questa seggioletta, avranno imparato a fare cerchi e stanghette, poi le lettere dell’alfabeto, a fare di conto a recitare le tabelline. Le gambe di questa seggiola sono di ferro, freddo e un po’ consunto, sopra c’è la seduta in legno laccato tutta sfrangiata sul davanti, lo schienale è storto e scomodo.
Ma io sono attratto dalla luce, mi scalda, mi ci crogiolo come una lucertola sui muri estivi.
È il buio a farmi paura,
quel buio in cui vengo gettato quando non voglio prendere le pillole, quelle grandi, quelle che mi fanno bere con quell’acqua calda che sa di ruggine. Poi, anche se lo negano quando passano i dottori, quella camicia che mi stringe le braccia dietro la schiena, loro la adoperano ancora. Puzza quella camicia. Sa di vomito e cipolla, di sangue e cimice. Non mi piacciono quelle pillole, sono troppo grandi, preferisco le punture. Con quelle dormo ma sono sveglio. Un po’ come ora.
Io non lo so come sono entrato qua dentro, il reparto numero 6 oramai è casa mia. Ma come era casa mia? Sai che non me lo ricordo. Sento in lontananza delle urla, delle grida, dei pianti soffocati, ma non so se era mio padre che mi picchiava o se siamo noi matti quando cambia il tempo.
Sai che dicono che prima della pioggia o del brutto tempo, i folli cominciano a gridare e cantare? Penso sia vero. Io però non canto mai.
Alle volte la mia testa è talmente pesante che non riesco ad alzare il collo, non riesco a guardare dritto davanti a me, mi guardo i piedi. Sono scalzo e loro, i piedi, sono sporchi, le unghie sono nere.
Quando però la luce mi colpisce in faccia e mi scalda mi sento libero, mi sembra di essere al mare, oppure seduto davanti al bar mentre bevo un bel chinotto. Addirittura i raggi del sole, anzi il raggio, perché ne entra solo uno, mi fa ricordare dei libri che forse ho letto. La tigre della Malesia, quello che fece il giro del mondo su una mongolfiera, quell’altro che uccide una persona e poi si pente e diventa buono, sì, lo scrittore era russo. Chissà se li ho letti davvero quei libri oppure me li hanno raccontati, oppure me li sono inventati.
Alle volte mentre guardo il pavimento, azzurro sporco, mi cade un filo di bava a terra, non lo faccio apposta, mi cade da sola. Sono sempre mezzo addormentato, ogni tanto uno di quelli col camice diverso dal mio mi prende per un braccio e mi porta in bagno. Mi fa male, e poi in bagno neanche chiude la porta e io mi vergogno. C’è puzza in bagno, c’è sempre qualcuno a cui fanno il clistere e c’è merda dappertutto, a me fa schifo e alle volte non riesco a farla. E allora loro si arrabbiano, urlano, gridano, mi danno delle sberle. Sembrano matti. Ma chi sono i matti, noi o loro? Magari è la disperazione, ma io non sono sicuro di sapere che cos’è. Forse ce n’è di più fuori, forse quando ero fuori ero disperato. Ora non più. O forse sì.
Alla mattina c’è sempre quel raggio pieno di farfalle che entra dalla finestra e io mi scaldo. Poi ci sono anche le brutte giornate, quelle con la nebbia, quelle dove manca la luce anche durante il giorno. In quei giorni davvero mi sento morto, anche in altri, ma in quelli di più ed allora urlo. E loro si arrabbiano, vengono due volte con i pastiglioni. mi portano al buio. E io allora conto, fino a che mi dimentico i numeri.
Nel reparto numero 6 il tempo è fermo, anche se ogni giorno è uno di meno. Ma forse è così anche fuori. Ma poi fuori esiste o è solo una bugia, che a forza di pensarci mi sembra vera? Vabbè io guardo le farfalle che si rincorrono in quell’ultimo spicchio di luce, prima che il buio le mandi a dormire.

Nascita

Parlo spesso ai bambini, soprattutto quando sembra che non capiscano. Ho sempre ammirato il loro genio inconsapevole. Provo ogni volta la meraviglia di quando iniziano a dire bugie, di quando cominciano a frequentare l’ironia. Per qualche motivo, non associo a queste malizie la fine dell’innocenza. Le bugie dei bambini non sono un assaggio amarognolo dell’ età adulta, ma una manifestazione magica del loro genio.

Parlo spesso ai bambini, soprattutto quando sembra che non capiscano. Parlo poco agli adulti, perché spesso non ascoltano più.

“Ogni bambino che nasce è in qualche misura un genio, così come un genio resta in qualche modo un bambino”.

Arthur Schopenauer