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Giorno: 14 Aprile 2022

OUT OF TIME. RIPARTIRE DALLA NATURA
Cinque artiste internazionali alla biennale donna di Ferrara.


 

Ogni cosa che puoi immaginare, la natura l’ha già creata.
(Albert Einstein)

La XIX edizione della Biennale Donna, sorprende nuovamente. Perché sorpresa, estro, creatività, originalità, sensibilità e meraviglia sono, ancora una volta, donna. Dal 27 marzo al 29 maggio il Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara ospita la mostra OUT OF TIME. Ripartire dalla natura, a cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban, una collettiva che presenta opere di cinque artiste internazionali: Mónica De Miranda (Portogallo, 1976), Christina Kubisch (Germania, 1948), Diana Lelonek (Polonia, 1988), Ragna Róbertsdóttir (Islanda, 1945) e Anaïs Tondeur (Francia, 1985).

Monica De Miranda
Christina Kubisch
Diana Lelonek
Ragna Robertsdottir
Anaïs Tondeur

Mi ci sono avvicinata con curiosità e umiltà, quasi con un poco di timore reverenziale, visto il tema complesso che sapevo di andare a incontrare. La mostra, infatti, illustra la necessità di ripensare le strutture radicate in una società impazzita che non sta più al passo con l’Uomo, di riorganizzare le pratiche consolidate in ambito sociale ed economico e mostrare i legami con il dibattito ecologico in corso. Un dibattito complesso e che mette di fronte a tante responsabilità condivise. Il risultato è davvero brillante.

La diversa consapevolezza rispetto all’ambiente naturale che ci circonda che si è sviluppata negli ultimi anni (considerando anche i giovani dei Fridays for Future, ma non solo) e che oggi, soprattutto dopo il terribile tempo di pandemia, si va rafforzando, chiama tutti ad una riflessione più acuta sulla consapevolezza che il modello finora seguito non regge più. Lo sviluppo a tutti i costi e il mantra della crescita continua non sono più sostenibili. Il modello di sviluppo finora perseguito è obsoleto e non regge più.

Come se non bastasse, la guerra in corso sta mostrando anche la debolezza di un sistema energetico fallibile e in fallimento. Chi parla della necessità dell’essere disposti a un qualche sacrificio ci porta a confrontarci anche con questo crescente bisogno di rinunce.

Non vorrei divagare troppo, ma vi invito, in proposito, a leggere La fine del mondo storto di Mauro Corona, uscito nel 2010. Incredibilmente attuale. Un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica. È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e il freddo è insopportabile. Gli uomini si guardano l’un l’altro. E ora come faranno? Come sopravviveranno e chi ce la farà? La stagione gelida che non perdona avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza rumori. Tutto tace (e non era forse così anche in pandemia?). Rapidamente, gli uomini capiscono che se vogliono arrivare alla fine di quell’inverno di fame e paura, devono guardare indietro, tornare alla sapienza dei nonni che ancora erano in grado di fare le cose con le mani e, soprattutto, ascoltavano la natura per cogliere i suoi insegnamenti. Resi uguali dalla difficoltà estrema, gli uomini si incammineranno verso la possibilità di un futuro più giusto e pacifico, che arriverà insieme alla tanto attesa primavera. Ma il destino del mondo è incerto, consegnato nelle mani incaute dell’uomo… Cosa di più attuale???

Dicevamo, quindi, anche partendo dalle incredibili, illuminate e profetiche pagine di Corona, che la nostra terribile epoca antropocentrica ha bisogno di essere ripensata tramite nuovi paradigmi, che potrebbero (e dovrebbero) prefigurare un modo altro di essere nel mondo. L’antropocene, termine coniato, nel 2000, per l’era geologica attuale dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen (mentre la data-simbolo del suo inizio il 16 luglio 1945 è frutto di una ricerca compiuta da un gruppo internazionale di studiosi), oggetto di un omonimo film del 2018 molto duro ma reale, si presenta ormai chiaramente come questa era terribile e inquieta in ci viviamo dalla quale, in qualche modo, bisogna tornare indietro.

Lo sguardo con cui siamo abituati a vedere il mondo è assolutamente antropocentrico, una realtà nella quale gli esseri umani sono la (sola) misura di tutte le cose. Tutto ciò che non è umano è un contorno, un decoro, una bella cartolina, una compagnia, una proprietà. I mondi vegetale e animale sono solo un bel panorama. Mentre noi, in realtà, siamo quella Natura e il pianeta non ci appartiene, anzi, ne siamo ospiti spesso maleducati e irrispettosi. I disastri urbani sono stati presentati come simbolo di modernità, così come lo sono state alcune scoperte che ci avrebbero semplificato la vita quotidiana (basti pensare alla banale plastica e al miracolo dell’usa e getta di quando eravamo ragazzini). L’Uomo ha sempre avuto bisogno del controllo, quello dell’identità, della perfezione, della bellezza, della purezza, della perfezione dell’abilità, della felicità, del potere. Oggi che lo sta perdendo mostra sempre di più la sua fragilità e solo il recupero del suo essere natura lo potrà salvare.

Ragna Robertsdottir, Saltscape 15. September 2018

È quindi inevitabile che l’arte affronti il mondo di oggi con le sue questioni ecologiche più pressanti. Le riflessioni che ne derivano da ambiti differenti confluiscono, attraverso diversi linguaggi artistici (installazioni, fotografie e video), in una mostra che esplora il rapporto tra l’essere umano e l’ambiente, ed esamina le interazioni tra essi. Ponendo anche l’attenzione sulle modalità di appropriazione dell’ambiente come conseguenza drammatica dello sfruttamento delle risorse naturali. Un ulteriore monito al doversi saper fermare in tempo. Un grido.

Monica De Miranda, Untitled (da serie Arquipelago), 2014

Le cinque artiste in mostra indagano gli scambi e la possibile alleanza tra tutti gli esseri viventi ospitati da questo pianeta. Diverse sono le prospettive che richiamano l’attenzione sui modi in cui la natura è stata stravolta nella ricerca dell’egemonia da parte dell’essere umano, mettendone in luce le ripercussioni sull’ambiente e sul tessuto sociale.

Secondo il filosofo Emanuele Coccia, “il mondo non è un luogo ma è lo stato di immersione di ogni cosa in ogni altra cosa, la mescolanza che rovescia istantaneamente la relazione di inerenza topologica”. Il mondo, che lui identifica con la stessa natura, è dunque mescolanza. Tutto è in tutto, diceva Anassagora. Una mescolanza che chiede co-abitazione, co-operazione, co-creazione, co-narrazione, compenetrazione. E la natura è proprio la mescolanza di ogni cosa, ogni essere ha senso non nella sua identità e separatezza ma nella sua partecipazione alla mescolanza. Il percorso che ci accingiamo a fare oggi al PAC porta a questa conclusione.

La mostra si apre con l’islandese Ragna Róbertsdóttir, artista dal lavoro minimalista, che sorprende per l’impiego di componenti dall’evidente potenza materica. Lava, vetro, pomice, ossidiana, rocce vulcaniche, sale, o conchiglie caratterizzano una personale impronta espressiva che sfocia in un legame viscerale con il mondo naturale. Dentro la terra, da essa si sprigiona potenza, la materia che diventa solida, la forza della natura che modella, scolpisce, permea, avvolge e (s)travolge. Alcuni dei suoi lavori, dal 1984 al 2017, sono raccolti anche in una bella (e suggerita) pubblicazione. In un’originale intervista del 2018 per l’Icelandc Art Center, l’artista, che vive tra Arnarfjörður e Berlino, sottolinea come il suo metodo sia un interessante mix fra l’intenzione e il caso: non ha mai il controllo dei risultati del suo lavoro.

Ragna Robertsdottir, Saltscape

Oltre ad alcune delle sue opere più significative, come la serie in bianco e nero Saltscape, realizzata con sale marino e sale di lava nero, o View, dove domina la lava rossa del vulcano Seyðishólar (sempre un dipinto monocromo ma, a una visione più attenta, si scoprono il caos e l’ordine di cui è capace la natura), la Biennale Donna ospita anche un’altra grande installazione della lava scura che, guardata da lontano assomiglia a un dipinto minimalista, monocromo e austero: tanti puntini neri. Avvicinandosi, invece che pittura, ci si trova di fronte a migliaia di granelli provenienti dal vulcano islandese Heika: su uno strato di colla, l’artista getta a mani nude i residui di lava, alcuni dei quali si attaccano alla superficie, mentre altri cadono a terra. Questi ultimi vengono recuperati e riposizionati con minuziosa attenzione, in un equilibrio casualità/intento che filtra tutto il processo creativo, evidenziando quanto la natura stessa ceda spesso alla fatalità. Qui vedo la forza.

Ragna-Robertsdottir Lava Landscape 2022
Ragna Robertsdottir, View, 2019

Di differente sintesi poetica e di diversa narrativa è invece l’approccio della francese Anaïs Tondeur, la cui ricerca si concentra su una pratica artistica di derivazione scientifica, frutto di studi realizzati con la collaborazione di geologi, oceanografi, fisici e antropologi (fra essi, Germain Meulemans). Le due installazioni multidisciplinari presentate in mostra (A memory of ocean e Petrichor) sono, infatti, la traduzione visiva di indagini scientifiche rispettivamente dedicate alle tracce del petricore, l’inconfondibile odore della pioggia sul suolo asciutto, e all’analisi dei cicli oceanici, di vitale importanza per una maggiore comprensione dei cambiamenti climatici terrestri.

Petrichor, View of the installation, Domaine Départemental de Chamarande, France, Copyright Anaïs Tondeur & Germain Meulemans, 2017

In particolare, il neologismo petricore – composto dal greco petra, pietra, e ichor, termine usato da Omero per definire il sangue degli dèi – fu coniato negli anni Sessanta da due scienziati australiani. L’indagine di Tondeur rileva l’intreccio di interazioni invisibili tra l’acqua piovana, l’attività dei batteri del suolo, il sole che li riscalda e le condizioni atmosferiche che intrappolano l’ozono. Attraverso un’installazione quasi onirica, lo spettatore è invitato a soffermarsi sulle potenzialità del suolo e la sua interrelazione con altri elementi, micro e macro organismi.

Per l’Oceano, invece, l’artista si affida alla comunità oceanografica internazionale per avere una raccolta di campioni e dare sostanza a una storia liquida: grazie a vari laboratori nel mondo e al fisico Jean-Marc Chomaz, ha raccolto da ogni oceano campioni d’acqua a diverse profondità, dalla superficie fino a 8000 metri. La collezione narra così il viaggio secolare, attraverso la memoria delle acque e delle correnti oceaniche, della circolazione termoalina. Collega tutte le acque del pianeta in circa 1500 anni, con un anello di correnti che distribuisce il calore globalmente. Gli attuali cambiamenti climatici concorrono a ridurre il volume dell’acqua che precipita verso l’abisso, rallentando di conseguenza la circolazione termoalina con potenziali gravi conseguenze sulle temperature mondiali.

A memory of the ocean View of the Installation

Qui vedo l’odore intenso della natura, la bufera (del clima) e l’interconnessione della(e) vita (e).

La Biennale prosegue poi con il mondo visionario di Mónica De Miranda, poliedrica artista portoghese di origini angolane, che vive tra Lisbona e Luanda, la cui eredità culturale ha fortemente influenzato il suo percorso artistico, portandola all’esplorazione dell’evoluzione ambientale da un punto di vista antropologico. Confrontandosi con le ferite di un colonialismo violento, l’artista si sofferma sulle convergenze fra stratificazione sociale e cambiamento dell’ecosistema, proponendo “geografie emozionali” – come lei stessa le definisce – cioè narrazioni urbane che seguono intimi processi identitari.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, still da video

L’installazione Under water raffigura un prezioso ecosistema, un angolo di rara biodiversità che viene però completamente estrapolato dal proprio contesto naturale per essere posizionato in un luogo inconsueto e ad esso estraneo. La flora autoctona e l’insolito acquario suggeriscono una vulnerabile precarietà, uno smarrimento, un allontanamento dal proprio sicuro habitat. Uno sradicamento di questo munito ecosistema che si riflette nello strappo sociale e culturale subito dai colonizzati della fotografia riflessa nello specchio accanto, costretti a risanare un trauma perpetrato per secoli e nei secoli.

Monica De Miranda, Under Water, 2020

All that burns melts into air (2020) è stupefacente, vi invito a visionare anche un estratto del video ad esso dedicato. Qui, fra le ferite di un colonialismo violento, vedo la città serrata e fortemente urbanizzata che prevarica e soffoca la natura.

Monica De Miranda, All that burns melts into air, 2020

La prevaricazione dell’uomo sulla natura torna baricentrica anche nel percorso creativo della polacca Diana Lelonek, la più giovane (classe 1988), laureata al dipartimento di Fotografia della Facoltà di Comunicazione Multimediale della University of Art in Poznan. Avevamo sentito parlare dell’artista, in occasione di una mostra, Diana Lelonek: Buona fortuna, organizzata a Roma presso il Pastificio Cerere nel 2020. Diana crea progetti interdisciplinari basati su una ricerca ispirata alle scienze naturali e all’eco-attivismo, che sollevano la questione dell’impatto umano sulla natura e la fine dell’antropocentrismo come epoca geologica in cui l’ecosistema terrestre è fortemente condizionato dagli effetti dell’azione dell’uomo. L’artista, offrendo una visione critica sui processi di sovrapproduzione, focalizza la sua parabola espressiva sulla possibilità di soluzioni alternative di convivenza e coesione fra mondo naturale e mondo umano. Tale approccio empatico detta le basi di un’interdipendenza fra specie e l’accettazione di uno scenario trasversale di chiara rottura rispetto a quello attuale. Nell’opera Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, realizzata per una campagna pubblicitaria del collettivo Sputnik Photos, denuncia la grave politica di disboscamento dell’ultimo polmone vergine d’Europa, la foresta di Bialowieza, portata avanti nel 2016 dal governo polacco. Allo stesso tempo, filtra il messaggio con poesia sublime, in bilico fra triste presago e consapevole allarme. In questa foto, la vegetazione selvaggia riconquista i propri spazi, la lontana presenza di cerbiatti che scrutano l’osservatore, quasi a volergli intimare di andarsene. L’impronta umana è devastante.

Diana Lelonek, Ministry of the Environment overgrown by Central European mixed forest, 2017

Qui vedo l’Umano che supera l’Umano e la natura che, tentando di recuperare il proprio spazio, chiama aiuto.

Chiude il percorso espositivo il lavoro di Christina Kubisch, una delle più incisive figure della sound art tedesca. Attingendo a un’estetica inedita, la compositrice (ma non solo, ha, infatti, studiato pittura, musica – flauto e composizione – e musica elettronica ad Amburgo) è riuscita nell’intento di proiettare “paesaggi acustici” attraverso l’esplorazione del potere del suono. Le sue polifoniche installazioni sonore indagano il cosiddetto inquinamento acustico silenzioso, esperienza sensoriale fondamentale per poter comprendere lo stato di saturazione elettromagnetica diffusa intorno a noi.

Christina Kubisch_Cloud, 2019

Il respiro del mare è un’opera costituita da due forme identiche, simili a labirinti realizzati con cavi elettrici al cui interno scorre un suono preregistrato. Una struttura contiene il suono perpetuo del mare, l’altra il respiro dell’artista. Spostandosi da un labirinto all’altro, grazie a piccoli altoparlanti realizzati ad hoc, il visitatore cattura e sente le onde elettromagnetiche che viaggiano attraverso il cavo, mentre lo spostamento nello spazio da una forma all’altra gli consente di mescolare i suoni dando vita, appunto, al respiro del mare.

Christina Kubisch, Il respiro del mare, 1981

Qui vedo il suono prorompente della natura che respinge il chiasso umano, che satura.

Noi, voi, loro, tutti insieme. Ci sarebbe da raccontare ancora per ore… Il percorso che potrete fare, se solo lo volete veramente, è unico, davvero. Siete incuriositi, almeno un po’?

Non ci salveremo se non ricuciremo tutti i fili di questa tela lacerata che siamo diventati – Rossana Rossanda

 

OUT OF TIME. Ripartire dalla natura

27 marzo – 29 maggio 2022, Padiglione d’Arte Contemporanea, Corso Porta Mare 5, Ferrara

A cura di Silvia Cirelli e Catalina Golban. Organizzatori: UDI – Unione Donne in Italia e Servizio Musei d’Arte – Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea in collaborazione con la Fondazione Ferrara Arte, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna

Orari di apertura: 10.00 – 18.00, chiuso il lunedì. Aperto anche 18 e 25 aprile, 1° maggio

Crediti fotografici: Monica De Miranda: © l’artista e Sabrina Amrani, Madrid; Christina Kubisch: ph. Nikolas Brade, © Christina Kubisch; Diana Lelonek: ph. Yulia Krivich / Szum Magazine; Ragna Robertsdottir: © Jóhanna Ólafsdóttir; Anaïs Tondeur: ph. Patricio Retamal

 

L’ultimissima guerra
un racconto quasi vero

 

“In conclusione (pausa) signori delegati (pausa prolungata) e amici carissimi (pausa infinita) devo confessarvi che abbiamo finito tutte le nostre cartucce”. Il rappresentante USA nonché Segretario del Super Consiglio di Sicurezza si lasciò sprofondare (non senza enfasi) nella sua ampia poltrona di finta vera pelle. Ci pensasse la Cina, con tutta la vomitosa retorica del suo fottuto Impero della Terra di Mezzo e i suoi due miliardi di musi gialli a trovare una soluzione. Ma Il delegato del Partito Paleocomunista Cinese, per la prima volta nella storia, non trovò di meglio che accodarsi allo scoramento statunitense. “Sarebbe a dire?” – ruggì il presidente onorario MacNamara, spalancando le sue orbite color ghiaccio secco. “Sarebbe a dire – rispose il cinese con un placido sorriso confuciano – che anche noi abbiamo finito munizioni.”.
Nel linguaggio figurato del Super Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la gloriosa quanto fallimentare organizzazione che aveva appena celebrato in pompa magna i suoi primi cento anni di vita, le cartucce, ovvero le munizioni, alludevano alle sterminate risorse militari a disposizione dell’Alleanza Planetaria e alle geniali trovate diplomatiche degli strateghi militari. Anche queste ultime, come le ormai obsolete armi convenzionali e i nuovissimi droni micronucleari, stavano infatti dimostrando la loro totale inefficacia a fronteggiare l’emergenza.

A turno presero la parola gli altri membri del Consiglio, ma solo per rispettare la ritualità assembleare, perché né la Grande Santissima Russia, né l’Unione Sudamericana, né l’Impero delle Indie, né il Califfato Santo Riunito avevano uno straccio di soluzione da proporre. Mancava all’appello solo la Federazione Europea degli Stati Disuniti, la vecchia e saggia Europa. Erano però più di vent’anni che gli Stati Federati d’Europa non riuscivano a mettersi d’accordo su un nome condiviso per rappresentarli nel Consiglio di Sicurezza.

Fu ancora il vecchio Arthur Benjamin W. McNamara a reagire. Aveva fatto il generale per tutta una vita e in pensione da tre lustri, ma vivaddio, da generale non ci si dimette mai. “Facciamo entrare gli esperti”, ordinò McNamara, ed esibendo uno dei suoi celebri sorrisi rassicuranti, continuò: “vorrei ricordare a tutti i colleghi delegati due fatti incontrovertibili. Prima di tutto non ci dimentichiamo mai che noi siamo i buoni e loro i cattivi; e in più abbiamo un grande vantaggio dalla nostra parte, perché noi…” – qui la voce del vecchio generale infranse la barriera del suono minacciando l’integrità della grande vetrata della Sala Ovale – “noi, carissimi amici… NOI SIAMO VIVI! “.

Intanto nel campo avverso fervevano i preparativi per la battaglia. A dire il vero, fervevano anche troppo. Nello sconfinato salone del quartier generale regnava una sovrana baraonda. In piedi, o appoggiati con le mani o con i gomiti a un lungo tavolo malfermo, a voce altissima e difficilmente intellegibile, si confrontavano una trentina di uomini e una cinquina di donne. Erano gli alti ufficiali dell’esercito di liberazione, regolarmente eletti con l’antico e resuscitato metodo dei soviet.

Nel punto mediano della lunga frattina di noce – per intenderci, nella classica posizione del Nazareno nel Cenacolo di Leonardo – si scorgeva un po’ a fatica il comandante in capo. Vista la bassa statura, la trasandatezza dell’abito, la barba di una settimana e il viso a chiazze tipico dell’epatico, non si può dire che la sua figura dominasse la scena. Il generale di tutti i generali – riconoscibile solo per una benda rossa al braccio destro – non sembrava né Spartaco né un suo lontano parente, ma come non riconoscere al “Piccolo Corso” le qualità del grande stratega. Napoleone aveva già parlato, brevemente – ché lui era uomo del fare, non delle inutili chiacchiere – e ora continuava a guardarsi intorno, unico a bocca serrata in quel tripudio inestricabile di voci. Sorrideva, forse sogghignava, sicuro di potersi finalmente prendere una definitiva rivincita sulla battaglia più nota dei libri di storia. Si scosse infine dal suo allucinato mutismo e prese a confabulare con chi gli stava più vicino, il secondo e il terzo ufficiale, gli unici a cui concedeva una qualche stima, il giovane Alessandro di Macedonia che lo affiancava a sinistra e lo spelacchiato Caio Giulio alla sua destra.

Era un problema di alta strategia? Bisognava indovinare la tattica vincente? O si trattava solo di azzeccare al minuto secondo l’ora X?
Per qualsiasi commentatore esterno alla congrega, anche se ferrato in storia militare, sarebbe stato difficile dare un giudizio.  L’unico dato evidente era che il Comitato Trapassati Riuniti sembrava lontanissimo dal trovare un accordo. In compenso la sala traboccava ottimismo. Le parole con cui il Generale Giap aveva concluso il suo intervento, “Abbiamo dalla nostra un vantaggio incolmabile: NOI SIAMO MORTI!”, erano state salutate dal pubblico con una ola da stadio.

I morti, com’è noto, anche se presi a cannonate, non possono morire due volte. E c’era un ulteriore vantaggio, lo aveva ricordato il delegato Pitagora di Samo, sventolando un papiro zeppo di cifre davanti all’uditorio: “Non solo siamo morti, e tutti in buona salute, ma siamo anche molti di più di loro”. “E quanti siamo?”, aveva gridato uno sfacciato dal fondo della sala. E Pitagora: “Ho fatto e rifatto i conti; abbiamo superato quattro volte il numero dei nemici viventi. Volete sapere il numero preciso?”. Sicuro che lo volevano sapere. Gli ottomila delegati presenti (tutti regolarmente eletti e tutti regolarmente morti) aspettavano da anni, da secoli o qualcosa in più, quel numero liberatorio, che Pitagora scandì sillaba per sillaba e numero per numero: 99miliardi730milioni322milanovecentotrantatrèUn bel numerone, non c’è che dire. Un numero che cresceva inesorabilmente di minuto in minuto. E i nemici, voglio dire, i vivi? Quelli avevano smesso di crescere da almeno vent’anni.

Queste le forze in campo come si presentavano alla vigilia della Grande Battaglia. Come andò a finire è scritto su tutti i libri, tanto da rendere superflua una cronaca dettagliata degli eventi. Basterà riportare qualche scarna notizia e qualche cifra. Fu una guerra lampo, durò una sola notte. I vivi morirono tutti, come i Trecento delle Termopili, compreso il valoroso MacNamara, decisissimo a vendere cara la pelle. Ma la pelle gliela fecero eccome, a lui e a tutti gli altri. Nessun morto invece tra le file dei morti.

L’arma letale? La escogitò il solito Odisseo: non c’era bisogno di incrociare le spade, sarebbe bastata un po’ di messa in scena. E far leva sulla paura. Paura dei fantasmi, paura del buio, paura dei morti e della morte. Fu la paura il Cavallo di Troia, il Tallone di Achille, l’Uovo di Colombo. Alla paura non scampò nessuno, neppure gli atei militanti, gli agnostici, gli ufficiali di carriera, i marines e le teste di cuoio.

Alla fine, fu una scena davvero commovente, i morti vincitori e i vivi sconfitti – diventati all’istante ex vivi e morti novelli – si abbracciarono riconoscendosi fratelli. Il pianeta Terra trovava finalmente un po’ di pace. Eterna.

Parole a capo
Gianni Goberti: “Terra ferrarese” e altre poesie

“I poeti non cambiano, ma forse cambiamo noi e dobbiamo fare una strada intima per ritrovare la poesia nella quotidianità.”
(Monica Vitti)

Terra ferrarese

Vieni a vedere come i profili dei pioppi
incidono la nebbia del breve orizzonte
nato dagli argini.
Come potrei abbandonare questa mia terra
così legata ai ricordi, così grassa ed amara
questa terra che racchiude i miei morti
e si apre in estati feroci
allo stridio metallico delle rondini
sui maceri immoti, quando il sole
s’accanisce sugli uomini nei campi
mentre le cicale segnano il silenzio.
Questa mia terra che in aspri inverni
deve contendere al fiume, case e figli.
Questa terra così fulgida
in primavera
quando i fiori del suo verde
spezzano i brividi delle ultime fisarmoniche;
così dolente
quando la mucca gravida urla nella notte
e gli uomini fumano muti nelle stalle.

 

Fuga dal cielo

Fissai con una gassa d’amante
la mia fune ad una nuvola
e scesi – perplesso e indeciso -.
Lasciai il cielo
le sue certezze di felicità
la serenità di giorni troppo perfetti,
per tornare nel disordine.
Capitemi,
non ero pronto a certe rinunce:
il volto delle donne, il profumo del cibo,
il fruscio della pagina di un libro,
calore vellutato del vino, alberi, prati,
rumori della risacca.
Tutte cose che lassù non c’erano.
Ecco perché tornai.

 

Che giornata

Cielo senza luci
e di morti colori;
rumori senza suono
vetrine che non sorridono
malinconie, grigiori.
Solo l’anima
abbozza una difesa:
una canzone di Marley
cantata in sordina:
…..immaginare i colori
il rosso, il verde, il rosa.
In una giornata cosi
è inutile anche suicidarsi:
non avrebbe lo sparo
l’eco trionfale del tuono
ma si spegnerebbe il rimbombo
come lo scatto stremato
di una molla di piombo.

 

Foibe

Fu in quei giorni senz’anima
laggiù, sul fondo
con il terrore
che dilagava come bora,
in quelle notti di luna
nata per altri sogni…
– quella luna  nemica
che additava all’assassino
la vittima senza difesa –
fu in quei giorni senz’anima,
con quei corpi
scaraventati come cose
nel fondo della tenebra,
che la pietà chiuse gli occhi
per non vedere
il cuore  malato dell’uomo.

 

Periplo di millennio

L’illusione dell’immortalità
della tua razza t’accompagnò
uomo, per un arco di storia
che  andava da Cromagnon ad Auschwitz.
Poi un giorno d’agosto
il privilegio della morte individuale
ti fu tolto: s’accesero diecimila soli
nel cielo di Hiroshima
e un vento di tenebra
raggelò l’ultima canzone
sulla bocca di mela dei bambini di Nagasaki.
Imparasti, quei giorni, che tutta una specie
poteva dissolversi come rugiada
sotto l’urto del lanciafiamme.
Questa ossessione della mano
che tutto azzera, che tutto cancella
sempre t’accompagnerà
perché sei sempre tu,
uomo del sasso e della fionda:
secoli di scienza e filosofia
non hanno placato
la tua sete di violenza,
figlia d’una ferocia senza rimorsi
e senza memoria, in questo
periplo di millennio che ha spento
tante illusioni.

Gianni Goberti  ferrarese di nascita, dopo gli studi all’Istituto d’Arte Dosso Dossi è entrato giovanissimo al Centro Ricerche della Montecatini dedicato al Premio Nobel Giulio Natta, dove rimase per 40 anni.
Negli anni 70 esce la sua prima pubblicazione di liriche “Stazione di Provincia”, Rebellato Ed.; successivamente ha pubblicato “Logica del caos”, Forum Quinta Generazione, “A due passi da Itaca”,edizioni Alba e “Fuga dal cielo”, Ed. Schifanoia. Nel 2008, esce la sua prima raccolta di racconti “La sera andavamo al Moka – Storie di ferraresi”, Edizioni Sivieri. Ha collaborato scrivendo 15 liriche sulle Stazioni della Via Crucis inserite nel libro “La Via Crucis fra storia, devozione e arte”, scritto dalla moglie Margherita Malfaccini, in uscita in libreria nell’aprile 2022.

La rubrica di poesia Parole a capo curata da Gian Paolo Benini e Pier Luigi Guerrini esce regolarmente ogni giovedì mattina su Ferraraitalia. Per leggere i numeri precedenti clicca [Qui]