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Giorno: 30 Aprile 2022

Viaggio a Vilnius

 

L’aereo atterra a Vilnius in perfetto orario, poco dopo le sette di una sera di dicembre, anche se l’impressione è che sia già notte fonda. Un paio di militari mi osservano pigri mentre esco dall’aeroporto, e le prime cose che mi accolgono nella capitale lituana sono il freddo tagliente e le luci giallastre dei lampioni che si riflettono sulla poltiglia lasciata sull’asfalto da nevicate recenti.

Potrei prendere un autobus per il centro, ma la prospettiva di un’attesa all’aria aperta con una temperatura già abbondantemente sotto lo zero mi fa desistere dall’idea. Sono abbastanza fortunato da poter buttare via una quindicina di euro per un taxi e accetto un passaggio verso la città. L’autista è un uomo sulla cinquantina, non parla inglese ma è cordiale, tradisce la voglia di fare quattro chiacchiere in questa sera da lupi. Comunichiamo come possibile, con le poche parole del mio russo approssimativo.

La velocità di crociera è simile a quella di una lumaca, ma un leggero nevischio ha appena ripreso a scendere e la strada bagnata e la visibilità inducono alla prudenza. Le prime immagini che scorrono dal finestrino sono di quelle che ti attendi a queste latitudini: casette di legno dall’aspetto pericolante, impianti industriali che danno l’impressione di vecchie acciaierie dismesse, piccoli condomini a tre piani persi nel nulla.

Mano a mano che ci avviciniamo la città prende forma, si rivela agli occhi la periferia fatta di palazzoni anonimi. Blocchi autarchici con negozietti e bazar al piano terra per i bisogni di prima necessità. Monoliti di stampo socialista, divisi l’uno dall’altro dalle rivendite di giornali e sigarette, piccoli chioschi rossi ormai schiacciati dalle insegne delle grosse catene occidentali di supermercati che iniziano a spuntare come funghi, e che da queste parti rappresentano le uniche luci chiare e intense come luna park in questa notte senza luna.

E poi uffici, palazzi di vetro dall’aspetto più moderno, contemporaneo, la città che tenta di rifarsi il trucco, che rincorre i modelli e gli standard delle capitali occidentali, in cerca di un’identità sganciata dal passato sovietico.

Il taxi mi scarica in pieno centro, proprio sotto il mio alloggio in – letteralmente “La via Tedesca”, per via del fatto che fin dal 1300 una comunità di mercanti e artigiani tedeschi si era stabilita su questa strada – a due passi dalla piazza del municipio e dalle strade del lusso. Mi sistemo alla meno peggio in un appartamento piccolo ma funzionale, con grandi finestre che danno sulla strada alberata.

Vokiečių gatvės - Vilnius
Vokiečių gatvės – Vilnius

La voglia di esplorare è più forte del freddo e nonostante il termometro segni già un meno dieci mi copro alla meglio ed esco in strada. Chi mi accompagna vorrebbe subito portarmi a vedere lo splendore e la grandeur in salsa locale di Viale Gediminas o Piazza dalla Cattedrale, luminarie, mercatini e alberi di Natale, ma la verità è che preferisco perdermi per i vicoli della città vecchia attorno a via Pilies e Aušros Vartai, meno battuti dai turisti e dall’aria più intima, autentica.

Appena girato l’angolo delle strade principali le luci si fanno più fioche, più rade, creando un’atmosfera mitteleuropea, dove grosse porte di legno nascondono gli ingressi di rumorose taverne e osterie, ambienti caratterizzati dai camini scoppiettanti, solidi tavoli di legno e pietanze nelle quali borsch ed altre portate a base di carne e patate la fanno da padrone.

Aušros Vartai - Vilnius
Aušros Vartai – Vilnius

Ospitali rifugi dal freddo che ti circonda e che ti entra nelle ossa, strade e menu che sono l’eredità di un luogo che per secoli ha risentito di influssi slavi, tedeschi, polacchi, fino alle comunità di ebrei ashkenaziti. Questi ultimi meriterebbero un capitolo a parte, se ci si ferma per un attimo a pensare che prima del 1941 circa 60.000 ebrei vivevano nella sola Vilnius, che non a caso era anche conosciuta come la ”Gerusalemme del Nord”. L’arrivo dei nazisti, non senza l’attivo supporto di milizie locali, fece il resto, e a guerra finita non rimanevano che poche migliaia di sopravvissuti, in una dinamica simile a quella avvenuta in altri stati “liberati” dalla Wehrmacht dal Baltico al mar Nero. Un massacro fatto comodamente sul posto, per il quale non fu necessario nemmeno la sforzo della deportazione. Si stima che nella foresta di Paneriai, appena a dieci chilomentri dalla città, furono sterminati e seppelliti da nazisti e collaborazionisti lituani circa 50.000 ebrei nello spazio di tre anni. Donne, uomini, bambini, senza alcuna distinzione. E se la Germania non ha mai smesso di fare i conti con il passato, qui si fa decisamente più fatica ad assimilare il tutto, ad ammettere di essere stati parte di questa tragedia, nonostante i vari memoriali eretti e sparsi nei punti giusti.

Lasciamo le strade del vecchio ghetto assieme ai fantasmi che lo popolano, e continuiamo in quella che più che una passeggiata sta diventando un viaggio temporale, mentre nel buio della notte le sagome dei campanili, che fanno di questa città una capitale del barocco, svettano tutt’attorno, si erigono sopra i tetti e gli abbaini, accompagnano i nostri passi. Ci dirigiamo verso la Porta dell’Aurora, l’ultimo dei nove antichi ingressi del centro storico rimasto intatto, con l’icona della Madonna nera che dall’alto guarda verso il basso, in un atmosfera mistica che per pochi metri è capace di riportare a un rispettoso silenzio anche il più convinto tra atei e agnostici.

Paneriai Memorial - Vilnius
Paneriai Memorial – Vilnius

Più ci si allontana dal centro, più l’atmosfera baltica e mitteleuropea lascia spazio all’eredità slava, a quello che rimane dell’esperienza socialista.

Poche centinaia di metri e giovani hipster, caffè dal design scandinavo e negozi di antiquariato vengono sostituiti da chioschi colmi di bibite e biglietti della lotteria, vecchi filobus Škoda di fabbricazione cecoslovacca, piccoli bazar. Babushke dalle forme generose con l’immancabile foulard sui capelli e uomini dall’età e dall’umore indefinibile ti osservano quasi fossi un alieno, in quello che sempre più appare come un salto nel tempo, che ti fa ritrovare di colpo nell’Unione Sovietica dei Gorbachev e degli Eltsin, anche se ormai è passato quasi mezzo secolo.

Basta attendere il mattino successivo per averne conferma, per vedere i venditori di sogni del centro e le catene internazionali venire gradualmente rimpiazzate dal caos slavo: negozietti di seconda mano dove è possibile trovare un po’ di tutto, mercati coperti di abbigliamento dalle marche incerte importato da Turchia e Cina, gli immancabili venditori di fiori agli angoli delle strade. Mi chiedo quanto questa realtà disordinata possa ancora durare, con i vecchi edifici e le “kommunalke” che uno dopo l’altro vengono acquistati da gruppi privati per diventare appartamenti di lusso, o in alternativa destinate ad accogliere turisti di passaggio, a generare profitti.

Una moltitudine di città nella città, dove le atmosfere di Leipzig convivono con quelle di Chișinău. Non a caso, “Educazione Siberiana”, il film di Gabriele Salvatores tratto dal romanzo di Nicolai Lilin è ambientato in Transnistria, un’area indipendentista e russofona della Moldavia, è stato girato proprio nella periferia di Vilnius. Simili gli scenari e le vibrazioni, eredità dell’occupazione sovietica.

Neris river - Vilnius
Neris river – Vilnius

Qui il nemico è decisamente a est, l’antico dominatore incarnato dalla Russia sterminata e tutto quello che rimane dei suoi satelliti. Il confine bielorusso e il varco di Sulwaki – la lingua di terra che porta all’enclave di Kaliningrad – sono appena a trenta minuti di strada, e i cartelli stradali già indicano in blu la strada per Minsk. A Vilnius i miei coetanei ancora si ricordano bene i fatti del 1991, quando dopo la proclamazione d’indipendenza nel 1990, il governo sovietico inviò l’armata rossa per riprendersi il possedimento ribelle, e occupò parte della città per diversi mesi. Fino a quando il Cremlino, a seguito della resistenza incontrata, non si decise a riconoscerne l’indipendenza.

Date e memorie difficili da dimenticare, relativamente recenti ma già punto fermo della storia lituana.  Eventi che si tramandano alle nuove generazioni come odi di saghe nordiche e vichinghe, che con i loro martiri non solo marcano un avvenimento storico, ma vanno anche a nutrire l’ipernazionalismo che si respira in giro. Ferite e cicatrici che ancora bruciano nell’anima di questo popolo, dei quali è difficile parlare senza suscitare reazioni ed emozioni.

Ma del resto se l’empatia è riuscire a mettersi nei panni dell’altro, quando ti ritrovi a crescere in questo angolo d’Europa e difficile dargli completamente torto. Se poi come vicino di casa ti ritrovi un Lukashenko che decide di fare intercettare un volo di linea Ryanair Atene-Vilnius pieno di vacanzieri lituani per dirottarlo a Minsk – giusto il tempo di arrestare un dissidente bielorusso che sapevano trovarsi su quell’aereo per poi organizzare un’abiura a reti unificate  – capisci come le percezioni del rischio possano essere diverse, a seconda del luogo dove si è nati e cresciuti, e alle distanze di sicurezza rispetto a confini più instabili, più imprevedibili.

Per non parlare poi delle tensioni più recenti a seguito degli avvenimenti in Ukraina, che riguardano da vicino tutta l’area del Baltico e oltre, dalle sabbie di Neringa fin quasi ai ghiacci del circolo polare. E che stanno esasperando ulteriormente quel nulla che ormai rimane dei rapporti con Mosca.

Se solo fosse possibile, in questi giorni dal futuro incerto, immaginare di potere cancellare tutto: ipernazionalismi, nuove voglie d’impero, atlantismi e pretese territoriali dal sapore irredentista. Ma perdersi nelle sponde e nella foschia del Neris, il fiume che divide la città vecchia da nuovi quartieri di grattacieli e uffici ipermoderni, e pensare che si tratti di un bel giorno di primavera. Attraversare il centro nelle sue strade più intime, immobili nel tempo, arrivare fino a Užupis, l’area che si sviluppa verso la collina e dalla quale è possibile ammirare tutta la città, i suoi tetti rossi e la moltitudine di campanili eretti verso il Cielo in uno sforzo mistico, sedersi per un caffè all’aperto, godersi la luce tagliente del nord e il vento fresco in un pomeriggio di fine maggio, lasciare scorrere il tempo senza pensieri.

Vilnius, un luogo che, pur sotto diverse bandiere, per secoli ha rappresentato la casa di mercanti Tedeschi, Ebrei, Polacchi, Russi e Lituani, in un equilibro spezzato definitivamente dai vari ismi e tutti i tragici eventi del secolo breve. Quel passato che dovrebbe essere di monito per il presente, e di cui ci si scorda sempre troppo facilmente. Storie di cui solo i libri, per chi ha voglia di andarseli a leggere, sono ormai rimasti testimoni, e rimpiazzate da altre, dal sapore più patriottico e più funzionali a celebrare miti ed eroi di questa giovane repubblica.

Ma per chi sa ascoltare, la città continua a parlarti, a sussurrarti i suoi segreti. La chiesa ortodossa di San Nicola, la Porta dell’Aurora, la Sinagoga Corale, la chiesa di Sant’Anna, le strade del Ghetto, la cattedrale. E tutto il resto che ti circonda, e che non è elencato nelle guide turistiche. I filobus Škoda, gli artisti e i caffè di Užupis, i palazzi dall’intonaco scrostato e le taverne dalle luci soffuse con i loro camini scoppiettanti e menu immutabili. Dove goulash, shashlik o pierogi possono giocare con l’immaginazione, farti credere di essere in un altro luogo, che potrebbe essere Praga come Kiev.

Republic of Uzupis
Republic of Uzupis

Ritorniamo nel mio appartamento con il termometro che è sceso a meno quindici. Ha ripreso a nevicare, e già la strada sottostante è deserta, in una calma surreale. Solo qualche passante solitario si affretta verso casa, tutto il resto è silenzio. Penso al posto di dogana poco distante, dove probabilmente qualche milite lituano e bielurosso in odore di punizione è stato messo a difendere la patria dall’invasore e pattugliare una strada in mezzo ai boschi dalla quale stanotte non passerà nessuno, nemmeno qualche bracconiere o trasportatore di contrabbando.

Finalmente mi butto a letto, e nel più assoluto silenzio penso a questo luogo che è allo stesso tempo Cracovia, Leopoli, Novgorod e Berlino. Il vero centro geografico dell’Europa, l’ultima grande città a cavallo tra il mondo slavo e asburgico, prima delle foreste e delle steppe che portano a oriente, verso altre storie e altri confini.

Letture consigliate:
Paolo Rumiz, Trans Europa Express, Feltrinelli
Jan Brokken, Anime baltiche, Iperborea
Ruta Sepetys, Avevano spento anche la luna, Garzanti

Foto di copertina e nel testo: Wikimedia Commons

PRESTO DI MATTINA
San Giorgio

San Giorgio fuori le mura

San Giorgio “fuori” le mura. Non solo come avverbio geografico, ovvero per indicare il luogo in cui è stata edificata la chiesa a lui dedicata. Ma anche come preposizione storica, che allude a un valoroso defensor civitatis venuto da lontano – e precisamente dalla Cappadocia in Turchia – per approdare alle nostre terre contese da numerosi e bellicosi contendenti.

Terre che per conciliarsi necessitavano di un santo super partes; un immigrato che, arrivando dall’esterno, potremmo definire un santo neo-comunitario. Oltretutto è «un santo di punta»: il coraggio è quello di un guerriero, ma al tempo stesso il suo essere straniero lo rende sensibile e attento alla mediazione e all’integrazione delle pluralità diversificate e conflittuali, capace di conciliare i conflitti e tessitore di ciò che accomuna le parti.

Per questo fu scelto come alleato di questa chiesa e della città nella difesa delle proprie autonomie e libertà, compagno di viaggio nel processo identitario e unitario, difensore e custode, a presidio del diritto e dell’identità locali in formazione. Era un forestiero, ma è diventato cittadino a pieno diritto – civis optimo iure – in favore dei diritti e della dignità di coloro che lo hanno accolto e prediletto.

Giorgio [Qui] non è un proto-vescovo da cui si è originata la nostra chiesa, né un martire della chiesa locale, attorno al quale si raccoglie un’identità spirituale ecclesiale cittadina, perché egli è antecedente la nascita dell’una e dell’altra.

San Giorgio è un santo che precede, precursore e antecedente la chiesa locale e forse anche la stessa diocesi di Voghenza, attestata come sede vescovile a partire dal 330, da cui è nata quella di Ferrara. A metà del VII secolo la sede episcopale fu trasferita a nord dapprima a Ferrariola (Forum Alieni situato nell’attuale borgo San Giorgio, sorto sulla biforcazione del Po; di origine romana, l’abitato gravitava intorno all’attuale chiesa ove rimasero i vescovi per circa cinque secoli), quindi dal XII secolo a Ferrara.

San Giorgio è stato per la città e la chiesa locale come un innesto su in un albero selvatico, l’inserimento di un una preziosa gemma. Così come nell’olivastro viene innestato il germoglio di un ulivo buono, siamo stati uniti a lui per ferita martirale: la stessa che unì a Cristo il martirio di san Giorgio, avvenuto fuori le mura di Nicomedia, un’antica città dell’Anatolia. Così inseriti l’uno nell’altro per ferita il selvatico è divenuto albero fruttifero, di molteplici frutti oleosi.

Chi ha colto in profondità il senso di questo patrocinio ecclesiale non meno che civico è stato mons. Antonio Samaritani, storico pomposiano quanto cittadino. È una storia innovativa quella che si legge ne La Chiesa di Ferrara nella storia della città e del territorio, innovativa soprattutto come taglio, in quanto protesa a tenere insieme la comunità religiosa e la comunità civile in un fruttuoso intreccio.

«Una lettura ardua – ha ricordato Ranieri Varese – che, senza rinnegare la ‘storia’ in senso tradizionale, vuole fare emergere le ‘storie’, attraverso il recupero della memoria di avvenimenti e pensieri disparati e maggiormente collegati alla quotidianità del vivere; la loro somma, più di atti e azioni eclatanti, costruisce e caratterizza quel passato che vogliamo mantenere e del quale vogliamo dare consapevolezza» (Boll. Eccl. 2004, 3).

Attraverso la ricerca storica e la narrazione di microstorie, Samaritani riscopre così la vocazione “sinecistica” della nostra gente (sunoikismós da oikos=casa e sun=con). Vocazione unificatrice di pluralità molteplici e minoranze diversificate, chiamate ad abitare insieme.

Per stile sinecistico si intende l’unificazione di entità politiche precedentemente indipendenti in una città od organizzazione statale; uno stile “al plurale”, fatto di “scambio” dunque, “consortile”, capace di mediare tra realtà divere, che si colloca “tra” e si pone “in mezzo”.

Città, la nostra, avvezza a “modularsi” e, tuttavia, non priva di inquietudine – sottolinea Samaritani – perché coinvolta in uno «sforzo di libertà da uomini e cose», ma proprio per questo, attenta alle diversità, capace così di riconoscere ciò che giova al più e meglio vivere.

Ma seguiamolo tra le pagine del testo Radici della spiritualità ferrarese, (in Boll. Eccl. 2 1993); la sua bibliografia conta 419 titoli tra libri, saggi e articoli, catalogata e digitalizzata presso il Cedoc SFR [Qui]

«San Giorgio, certissimamente, è un santo che antecede la nostra diocesi. Non è un santo da nuclei cittadini, ma da nuclei bellicosi, castrensi. È un santo dei bizantini (e noi eravamo territorio bizantino, imperiale) è un santo anche degli aggressori, dei Longobardi, di cui Ferrara ha sempre temuto l’attacco, nonostante il primo freno del 568, quando essi si stabiliscono nella confinazione sul Panaro.

Il santo patrono costituisce l’identità civica di un complesso demico: laddove non c’è un santo patrono, non ci sarebbe una coscienza religiosa specifica, una coscienza civica specifica, e questo noi lo dobbiamo mettere in conto.

Siamo una diocesi, in qualche modo, acefala nata come castrum, il castrum Ferrariae (la zona tuttora presente tra via Mayr, Ripagrande e via XX Settembre, la zona tra via Casotto, via Belfiore, via Salinguerra). Questo castrum non è una civitas, è soltanto un momento di difesa del territorio, quindi non ha raggruppato una entità di popolazione tale da sprigionare, come coscienza religiosa, un suo santo patrono.

Fra i tre castra di Ferrara, della zona nostra, abbiamo il castrum di Argenta, che ha una titolazione a S. Giorgio (castrum documentato nel 515 nel Liber Pontificalis di Agnello di Ravenna [Qui]). Nel nostro territorio abbiamo poi la pieve di S. Maria in Padovetere (sono presenti il battistero in tracciato di fondamento, e il tracciato della chiesa stessa).

Il castrum di Comacchio ha la titolazione ad un altro santo castrense: S. Cassiano [Qui], un santo che non connota una spiritualità locale, ma trasferita da altrove. È singolare questa capacità di scelta ferrarese: questa gente, che non ha le punte polemiche del mondo bizantino, non ha la bellicosità longobarda, assume un santo che sia di mediazione, di adattamento.

Il carattere ferrarese in tutti i campi, ieri, oggi e forse domani, e anche nella tipica spiritualità, ha un timbro di sintesi, non di avanguardia. S. Giorgio è un santo di punta: va bene per la dominazione bizantina, ma va bene anche per la dominazione longobarda e le vicende che hanno fatto la nascita e la morte di Voghenza, e in qualche modo anche la nascita e l’affermazione tormentata di Ferrara, sono, appunto, vicende di scontro tra Romani e Bizantini e Longobardi», (ivi, 347-348).

Ferrara: da presidio militare a città umanistica

Un tormentato e difficile passaggio fatto di mediazioni, di integrazioni, di composizioni e di aggiustamenti in vista di una sempre maggiore unità. Da castrum a civitas: la trasformazione cioè di una polarità in contrapposizione, militarmente difensiva/offensiva, ad una comunità mediatrice, conglobante, conciliatrice e innovativa. Una duplice polarità attestata – così mi sembra – anche nell’iconografica ferrarese del patrono san Giorgio.

Una prima polarità guerresca: il san Giorgio del nuovo e dell’antico duomo, all’esterno, nella lunetta del protiro il primo, sulla facciata della chiesa extra urbana il secondo. Entrambi a cavallo; uno con la spada sguainata nell’impeto dell’assalto, l’altro tutt’uno con l’impennata del suo cavallo, brandendo la lancia come un pugnale, incombente sopra il drago.

Di contro, all’interno di entrambe le cattedrali, un san Giorgio pacato, in riposo, quale segno della seconda polarità pacificante. Un san Giorgio tutto interiore, contemplativo, quello del dipinto nell’abside dell’antico duomo, opera di Maurilio Scannavini.

In quello nuovo sta invece il san Giorgio bronzeo, rinascimentale, di Domenico de Paris [Qui]; quasi senza sforzo, come appoggiato alla lancia, trafigge il drago; elegante, composto, con la mano sul fianco, con il volto disteso, perfino tranquillo. Anche il san Giorgio del Maestro delle storie di Elena è elegante, pienamente umanistico, attendista, ma vigile; tiene la spada nel fodero e vi si appoggia con delicata attenzione. Dosso Dossi [Qui] lo ritrae invece con la spada e la lancia in disarmo, il drago accucciato ai suoi piedi, quieto, la posa prospettica e l’armatura, nella sua compattezza dinamica; viene da pensare al motto di Manuzio: festina lente.

Genius loci

Proprio la designazione da parte della chiesa locale di «vivente titolare», di patrono vivo e attivo anche nella realtà di oggi, aggiunge un nuovo tassello a quel mosaico in fieri che si vuole designare con l’espressione genio cristiano del luogo: la qualifica della nostra come Chiesa georgiana.

Così Samaritani: «L’unitarietà e l’unicità del patrono “castrense” di Ferrara, san Giorgio in Ferrara legittima, l’espressione di sempre di Chiesa Georgiana per Ferrara». Due cattedrali in successione per lo stesso patrono; ma con la nuova cattedrale, gli verrà affiancato un altro martire ma vescovo, san Maurelio [Qui], per un’ulteriore e più precisa sottolineatura dell’identità ecclesiale:

«I fautori della grande riscossa dell’identità ferrarese, saranno vescovi come Landolfo (1099–1139), il “fondatore” della nuova cattedrale, e promotore di numerosi sinodi, equilibratore delle nuove forze religiose emergenti. Non sono più i monaci, ma le vicinie, le corporazioni, le parrocchie cittadine, che nascono proprio in questo periodo, a far riemergere una sigla unitaria, che è il patrono S. Maurelio, ultimo vescovo di Voghenza, proto-vescovo di Ferrara.

La diocesi di Ferrara, quando nasce ha bisogno di recepire la sua estrazione georgiana, e così si può dire: nasce ferrea, castrense, però capisce che è troppo generico il patrocinio di S. Giorgio; ha bisogno del patrocinio specifico, di un santo contrassegnato dalla lotta spirituale, dalla difesa di un’ortodossia, insidiata da Ravenna come rappresentante dell’Oriente e in qualche modo tipica di una zona nella quale fu più forte il senso della romanità che non in Roma stessa. Ma questo santo patrono ha una vita dura ed una affermazione difficile» (ivi, 348).

Così è pure la nostra quotidiana lotta spirituale, dura e difficile, transito pasquale pure dall’incredulità al credere, dal disperare alla speranza dal disamore ad una provvidenza di amore: sempre e ancora una ferita martiriale. Una condizione che mi ricorda quella dell’oleoso ulivo di Virgilio, una promessa certa di fecondità e di pace: da ferita di vomere un carico di frutti.

Non serve al contrario coltura per gli ulivi,
non richiedono il falcetto ricurvo
e la costanza dei rastrelli,
una volta che abbiano attecchito ai campi
e resistito ai venti;
la terra, se viene aperta dal dente della marra,
fornisce da sé sufficiente umidità,
se poi viene arata dal vomere,
un carico di frutti.
Coltiva per questo l’ulivo
che nella sua fecondità
è simbolo di pace.

In copertina: San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (da: wikipedia.org)

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