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Arina viveva nella dependance di Casa Pilla. Gli anziani signori Pilla avevano una casa in via Torre Antonina a Pontalba. La via era particolare. Corta, in salita, con case solo da un lato mentre dalla parte opposta c’era un frutteto enorme.

La casa era circondata sui due lati corti e su quello posteriore da vecchi alberi molto curati e sulla parte anteriore dal prato inglese, un roseto di rose bianche e una piscina dove d’estate facevano il bagno i nipotini dei Pilla.

Il figlio dei vecchi Pilla era morto ormai da anni e Margherita Pilla, l’unica loro nipote, aveva sposato un direttore di banca di Trescia. Margerita si era trasferita in città per stare vicino al marito, ma tornava spesso a Pontalba con Martino e Penelope, i suoi due bambini. Per questo nella porzione di giardino antistante la casa era posizionata la piscina. Martino e Penelope vi si tuffavano appena possibile e non uscivano di là se non dopo che Margherita li aveva minacciati di non portarli più a trovare i bisnonni.

Arina si occupava di Villa Pilla e in modo particolare di Luigia Pilla, la nonna di Margerita. L’accompagnava al mercato di Pontalba e a fare commissioni. La portava a fare i controlli sanitari in città. L’aiutava a cucinare, a fare la marmellata con le prugne e la crema di nocciole, a lavarsi e a vestirsi, a leggere il giornale.

Conversava con lei di politica, stagioni, tempo, matrimoni, battesimi, funerali e imprevisti vari che riguardavano gli abitanti di quel paese piccolissimo e ricco di vegetazione che si chiamava, e si chiama tutt’ora, Pontalba.

Chissà perché quel paese aveva quel nome, si chiedeva Arina. Pontalba, un ponte sull’alba. Sul ponte lei ci andava spesso. Da là si poteva vedere il fiume scorrere lento e pacifico e contemporaneamente il sole sorgere dietro gli alberi che costeggiavano gli argini. Il ponte permetteva di transitare sopra il Lungone e di passare dal territorio del comune di Pontalba a quello del Comune di Iupine.

Iupine era il primo comune della provincia di Vergania, mentre Pontalba l’ultimo della provincia di Trescia. Non era mai scorso molto buon sangue tra Pontalbesi e Iupinesi. “Questo è abbastanza normale”, pensava Arina, “i confini segnano una frattura e il senso di appartenenza si ricuce esclusivamente al di qua e aldilà del confine”.Così per i Pontalbesi gli Iupinesi erano brutti e dispettosi e la stessa cosa pensavano gli Iupinesi dei Pontalbesi.

Arina aveva davvero un buon lavoro, uno stipendio sicuro e abitava nella dependance di una bella casa, anche se non paragonabile alla maestosità di Villa Cenaroli, dove abitava Ettore.
Quel maggiordomo aveva un buon lavoro e viveva nella zona più bella di Pontalba; inoltre la contessa Malù aveva la fama di essere molto generosa coi suoi dipendenti.

Tutto questo rendeva Ettore interessante. Da quel poco che aveva visto lei, quell’uomo sembrava un po’ pedante, un po’ fuori dal mondo reale, ma sicuramente onesto. Uno che credeva in quel che diceva e faceva.

“Non so che necessità abbia di spiegarmi il significato di alcune parole strane, a me non importano. Ma se a lui fa piacere che lo faccia pure. Non ho nulla da perdere. Anzi, parli pure, io intanto posso raccogliere la legna, oppure le more e le fragole, oppure le nocciole per fare la crema da invasare per la brutta stagione.” Pensava Arina.

Da novembre a marzo lei e Luigia uscivano poco. Alle diciassette accendevano la televisione e dopo mezz’ora preparavano il thè fumante con i biscotti e la crema di nocciole.
Luigia era stata amica della mamma di Malù e conosceva bene sia i conti che la vita che si svolgeva tranquilla a Villa Cenaroli. Alcune abitudini erano trasmigrate da una casa all’altra e ora le caratterizzavano entrambe rendendole diverse da tutte le altre.

La presenza del prato, del giardiniere, di una dependance per la servitù, l’abitudine del thè, quella di avere ospiti durante il fine settimana e di invitare parenti e amici a cena. Entrambe le case erano anche molto ospitali. Se una persona Passava da Pontalba ed era un conoscente dei Pilla piuttosto che dei Cenaroli, poteva contare su una ospitalità sicura e molto ben organizzata.

Luigia Pilla si era accorta che Arina ultimamente era strana. Sembrava sovrappensiero, oppure con la testa tra le nuvole, non sapeva decidersi.
Così glielo chiese:
– Cosa ti passa per la testa Arina?
Ettore, il maggiordomo dei Cenaroli, buon partito, da sposare, insomma – disse Arina, andando subito al sodo.

Luigia restò esterrefatta, non sapeva che Arina conoscesse Ettore, anche perché il maggiordomo non usciva quasi mai dal cancello di villa Cenaroli, la residenza bellissima che costeggiava il Lungone dove viveva e lavorava da sempre.

– Ma dove hai conosciuto Ettore? – chiese Luigia.
– Sulla strada sterrata dei castagni, io stavo raccogliendo la legna e lui uscito dal cancello per aiutarmi. Sembrato una persona seria, buon lavoro sicuro e buono stipendio.
Ma ti piace? – chiese Luigia.

– Cosa significa mi piace? Io vengo da Romania, ho avuto problemi di “sallute”. Con la fine della dittatura, ho perso lavoro, il mio primo marito, tutti i vantaggi di prima. Ho dovuto fare di tutto, compreso contrabbando sigarette, profumi e oro con la Turchia.

Ho visto gente ricca diventare poverissima, ammalarsi e morire. Ho visto la miseria e la paura, la guerra. Ho visto la corruzione che un regime dittatoriale lascia dietro di sé quando finisce. Ho visto ciò che resta e diventa visibile quando cade “ommertà” che un regime impone come vincolo al privilegio, come premessa per casa e stipendio.

Ho avuto alcuni miei parenti prima ammalti e poi morti e non ho potuto fare nulla per curarli e seppellirli. Una persona che ha visto e provato sulla sua pelle tutto questo considera il “piacere” cosa diversa.

Un uomo piace nella proporzione in cui sa essere economicamente stabile, nella misura in cui sa essere come pensione. Se poi sta anche in un bel posto e sembra sano di mente, ha tutto ciò che deve avere. Non c’è altro che si possa sperare e non c’è nulla di più a cui “annellare”. Chi ha passato quello che ho passato io, sa che occhi belli e pelle liscia durano forse qualche anno, mentre la pensione e una vecchia casa di mattoni durano fin che uno vive. –

Luigia non commentò quello che Arina le aveva detto. Non le vennero le parole. Si accorse come in Arina ci fosse una rinuncia a qualsiasi sogno, una attenta analisi della realtà volta ad eludere qualsiasi possibile delusione.

La priorità di Arina era trovare una persona solida dal punto di vista economico e comportamentale. Altro non voleva e non cercava. Quello che aveva visto e sopportato in patria aveva ucciso una parte dei suoi sentimenti. Sicuramente tutti i suoi sogni.

Si chiese cosa avrebbe potuto dire ad Arina su Ettore e poi si sorprese a pensare che Ettore era una brava persona, gentile, con uno stipendio sicuro e una bella casa. Arina avrebbe potuto vivere a Villa Cenaroli, sulle sponde del Lungone. Vedere le stagioni che cambiano, le foglie dei rampicanti che diventano rosse, gli uccelli migratori che arrivano e ripartono, le tartarughe di terra che scavano un tunnel sotto l’argilla e là si posizionano per superare l’inverno. Avrebbe potuto osservare da vicino gli aironi e le gazze, i corvi e i leprotti correre felici lungo gli argini (almeno fintantoché non riapriva la caccia).

Ma l’amore è qualcosa in più, è molto di più? Oppure no. … Le era venuto il dubbio che i trascorsi di Arina l’avessero in parte uccisa, che i drammi già passati non potessero più essere cancellati dal suo cuore e che quindi quello che diceva su Ettore fosse la forma (possibile) di amore che Arina poteva ancora provare su questa terra.

Avrebbe parlato con Malù per verificare la serietà di Ettore nei confronti di Arina e, una volta appurata quella, si poteva organizzare un bel matrimonio e il conseguente trasferimento di Arina a Villa Cenaroli.

Magari lei e Malù avrebbero potevano fare scambio di cameriera. Magari Malù le avrebbe ceduto volentieri Serafina e si sarebbe presa Arina. Malù era intelligente e di solito altruista, si poteva combinare un fruttuoso scambio.

In quanto a Ettore ed Arina si poteva augurare loro di vivere serenamente e in pace. In fondo al suo cuore Luigia sapeva che mancava qualcosa, che non c’era, almeno da parte di Arina, molto amore spassionato, poco trasporto. Non c’era innamoramento. Mancava quel sentimento dolce e leggero che avvolge tutto con un manto dorato e rigenera il cuore rendendolo nuovo e forte.

Ma tant’è, magari il matrimonio avrebbe funzionato comunque; c’era inoltre la possibilità che una quotidianità tranquilla cementasse dei sentimenti che potevano alla lunga trasformarsi in amore. Poteva anche essere. E comunque, sposando Ettore, Arina si sarebbe definitivamente sistemata.

“Parlerò con Malù e vedrò come si può sistemare la faccenda” pensò Luigia.
“Parlerò con Ettore” e vedrò come sistemarmi, pensò Arina.

In quel momento si decise il futuro di diverse persone senza menzionare l’amore, senza rifletter sul fatto che è l’amore che fa girare il mondo. Senza quel nobile sentimento perdiamo parte del nostro valore come esseri umani, come individui che hanno una spiritualità delicata e raffinatissima, che va coltivata, se non si vuole che marcisca.

Forse un matrimonio di quel tipo poteva essere un buon inizio e forse poteva essere l’esatto contrario. Ma quante certezze ci sono nei cambi di vita, quanto possono le accidentalità, le malattie, i casi nefasti, le cattiverie della gente? Che bisogno c’è dia anelare a quel sentimento nobile e onirico che si chiama amore spassionato?

Eppure, nell’amore sta tutto il senso della nostra vita e in quel momento Luigia, Arina ed Ettore sbagliarono tutti e tre qualcosa. Luigia e Arina perché abdicarono all’amore, Ettore perché lo diede per scontato.

Il matrimonio fu una discreta comunione d’intenti, un discreto successo che garantì ai protagonisti una discreta vita. Così è l’esistere, spesso ci si accontenta troppo di quel che si ha.

Arina Arina mon seul et grand amour. Quelle douleur est l’amour.
(Arina, Arina, mio solo e grande amore. Quale dolore è l’amore.)

Fine

L’amore di Ettore (1° parte)

L’amore di Ettore (2° parte)

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

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Costanza Del Re

E’ una scrittrice lombarda che racconta della vita della sua famiglia e della gente del suo paese, facendo viaggi avanti e indietro nel tempo. Con la Costanza piccola e lei stessa novantenne, si vive la storia di un’epoca con le sue infinite contraddizioni, i suoi drammi ma anche con le sue gioie e straordinarie scoperte.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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