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Giorno: 9 Ottobre 2021

Le storie di Costanza /
Ottobre  2060 – Maia-111

I primi giorni di Ottobre sono quasi sempre belli. Ottobre è uno dei mesi migliori per vivere a Pontalba. La campagna sta prende la colorazione autunnale e le foglie delle piante sono un misto di verde, giallo e rosso che incanta. La temperatura è mite, il cielo azzurro intenso. Il Lungone scorre pieno d’acqua perché le turbine che ne incanalano  il corso per l’irrigazione, cominciano a rallentare il loro lavoro. Serve molta meno acqua per i campi di quanta ne serva in estate. Si possono ricominciare a mettere vestiti più pesanti, le scarpe da ginnastica con le calze di cotone che impediscono alla polvere delle stradine sterrate di entrare tra le dita dei piedi e, così facendo, di infastidire le passeggiate. Si può anche andare in giro in bicicletta lungo gli argini e ammirare questa magnifica stagione nel suo pieno splendore.

Mi siedo sotto il portico. Quello della casa dove ho sempre vissuto, in via Santoni Rosa 21 e ripenso agli ottantanove Ottobri che ho visto.  Tantissimi. I primi cinque o sei non me li ricordo bene, ma ricordo tutti gli altri.
Mentre me ne sto seduta suona il cellulare dell’orologio. Schiaccio un pulsantino e sento nitidamente la voce di Bianca, una delle nipoti di Guido. Anche Bianca vive stabilmente a Pontalba. Ha quarantacinque anni e da venticinque abita a Villa Cenaroli perché ha sposato Ludovico Giovanni Della Fontana (detto Lugo) il figlio della contessa Malù.  Lugo e Bianca hanno mantenuto Villa Cenaroli nel suo antico e intramontabile splendore, un luogo bellissimo e senza tempo. Passeggiando per il parco, tra i suoi antichi alberi, non si sa che anno sia. Potrebbe essere il 1980, oppure il 2020, oppure il 2060.  Quel parco è sempre un luogo suggestivo che piace a tutti. Da dieci anni Bianca e Lugo hanno aperto parte del parco al pubblico. Hanno fatto una strada tra gli alberi, un chiosco dove si vende il gelato con tanto di panche di legno e alcuni ombrelloni di paglia, una giostrina con i cavalli, tipo quelle che si vedono a Parigi e che fanno impazzire di gioia i bambini e di sudore i genitori.
“Ciao Bianchina, tutto bene?” dico.
“Ciao Costanza, io sto bene, grazie. Ti ho chiamato perché ho un problema con le ortensie. Hanno le foglie che stanno ingiallendo. Ho paura che abbiano preso un parassita. Quando puoi, passi a vederle?”.“Sì volentieri, ma perché non lo dici al giardiniere?”.
“Preferisco che le veda tu”.
“Ok” le dico.
“Anche Maia-111 non è in forma. Ultimamente mangia poco. Non tritura più le castagne secche degli Ippocastani per poi alimentare i suoi circuiti” aggiunge Bianca.
“Speriamo sia un problema transitorio. Altrimenti chiama il padre di Axilla. Credo che in questi giorni stia lavorando da casa” dico.

La robot Maia-111 è stata costruita apposta per Villa Cenaroli. Contrariamente a molti dei nostri mezzani, non mangia il cibo degli umani ma castagne secche, ramoscelli, foglie ed erba. Non pulisce la casa come molti suoi colleghi ma i sentieri e i ponticelli del parco, le rimesse degli attrezzi, gli argini che trattengono il Lungone nel suo corso nei momenti di maggiore piena. Dà da mangiare agli animali e accompagna i visitatori del parco. Di Villa Cenaroli sa tutto e lo sa raccontare con una dovizia di particolari e una contestualizzazione rispetto al tipo di utenza davvero impressionante. Conosce a memoria la storia della villa, del parco, dei Conti, del personale di servizio, di Pontalba, del Lungone, conosce tutte le varietà di piante e tutte le specie animali presenti nella proprietà.  Sa adattare quello che racconta a chi si trova di fronte. Sa discriminare se sta interagendo con un bambino, con una bambina, con un adolescente, con un adulto, con un italiano, con un anziano e così via. Sa fare domande profonde e circostanziate che l’aiutano a capire le caratteristiche e le preferenze della persona che ha di fronte in modo da costruire una narrazione di ciò che si sta osservando il più possibile consona alle caratteristiche del visitatore. E’ un robot-111 straordinario e preziosissimo. E’ costato a Ludo e Bianca una fortuna. Ma l’investimento è stato ampiamente ripagato, sia per la quantità di lavoro che Maia-111 sa fare, sia per le modalità in cui lo fa. Sa essere gentile, diplomatica, accogliente, divertente, colta, buffa, chiacchierona o, al contrario, silenziosa. E’ anche bellissima.  Deve il suo nome a una stella. La stella Maia (nota anche come 20-Tauri) è una stella della costellazione del Toro. Si tratta di una delle componenti dell’ammasso aperto delle Pleiadi e si trova ad una distanza di circa 440 anni luce da noi. Il suo nome proprio deriva dalla figura di Maia, una delle Pleiadi mitologiche.

Quale nome migliore per un Robot-111  che vive a Villa Cenaroli?.
Maia-111 è longilinea.  Alta un metro e cinquanta, ha braccia lunghe e, contrariamente a quasi tutti i nostri mezzani, ha anche le gambe. Gli arti inferiori le sono stati costruiti con un duplice obiettivo: uno estetico (sembrare bella),  uno pratico (le gambe le permettono di muoversi nel parco della villa senza inciampare negli arbusti e nei rami secchi, le permettono di muoversi sulla superfice sconnessa del parco con agilità e anche di entrare in acqua bassa senza danneggiare i suoi circuiti meccatronici che sono tutti posizionati nella parte alta del suo corpo). Ha gli occhi verdi scuro come le foglie estive degli ippocastani ed è interamente verniciata d’oro.
Questa mezzana d’oro è un’attrazione di Villa Cenaroli tanto quanto lo sono i castagni, i cigni e la giostra coi cavalli. Fa parte delle figure animate che danno vita a quello spettacolo unico, fuori dal tempo che si vede entrando in quel parco curato e senza rumori meccanici (si sentono cinguettii, squittii, il rumore delle foglie che friniscono quando c’è il vento, il rumore dei rami secchi che scricchiolano).

Una volta ho assistito ad una scena che mi ha colpito. Maia-111 si è messa a giocare a nascondino con  Ulisse, il bambino di uno dei giardinieri.
Il bambino si nascondeva e Maia-111 lo cercava. Quando lo trovava diceva “trovato, trovato!” e poi rideva, cioè imitava un umano che ride. Come fanno i robot-111 a ridere? Esattamente non so, ma lo sanno fare.
Sembra che si divertano, che abbiano senso dell’umorismo. Sono sicuramente dotati di auto-riflessività. Sanno fare considerazioni sul tempo che passa, sul fatto che forse domani pioverà o forse no. Ma sanno anche amare?. Non so. Gli ingegneri del centro Trescia-111 dicono di no. I nostri mezzani sono fatti di circuiti meccatronici che imparano per imitazione, si comportano in maniera riflessiva rispetto ai processi imitativi che hanno introiettato, cioè scelgono la reazione più consona allo stimolo che hanno potuto osservare. La consonanza viene definita in basa a un meccanismo per prove e errori che non ha niente di “sentimentale”. Gli ingegneri di Trescia-111 dicono che i robot-111 riescono a riprodurre dal punto di vista comportamentale, attraverso l’applicazione pratica di principi che provengono dalla logica formale, quello che noi proviamo, i nostri sentimenti, le nostre reazioni emotive, ma non le provano loro, semplicemente le imitano.
Resta il fatto che questa imitazione si riversa su di noi come se fosse un sentimento esperito esattamente come lo esperiremmo noi, come noi lo proviamo. Del resto la differenza tra ciò che sembra e ciò che è, non si esaurisce in una definizione lineare. Ciò che sembra orienta il mondo. La ricerca della consonanza tra ciò che sembra e ciò che è alimenta il senso della vita.

Gli ingegneri di Trescia-111 dicono che i mezzani non provano dolore, non soffrono, non amano in maniera altruista, ma sembra che lo sappiano fare, lo sembra al punto che molti umani si comportano ormai come se così fosse. Questa sovrapposizione tra ciò che sembra e ciò che è (una specie di sentimentalismo di ritorno alimentato elettronicamente), sta generando una deriva (preoccupante) di alcuni comportamenti e di alcune relazioni. Portando all’estremo questa riflessione e uscendo dalla dicotomia sempre più incerta umano-robot, mi chiedo da chi mai potrebbero imparare l’amore altruista i nostri robot-111 se anche noi umani non lo proviamo, non lo sappiamo insegnare, non lo riconosciamo negli altri e non lo individuiamo in nessuno (credo che sia proprio questo uno dei motivi per cui la dicotomia umano-robot andrà sempre più ad ibridarsi). Questo potrebbe tradursi in un grave problema.
A volte ho anch’io l’impressione che ci sia qualcosa che ci sta sfuggendo di mano, che ci siano ibridazioni “al limite” che, seppur indotte, cambieranno la vita di tutti. Io ho visto Maia-111 giocare a nascondino con Ulisse e se non fosse stato per la poca lunghezza delle gambe di Maia e perché ha il colore di una stella cadente, avrei avuto l’impressione che lei si stesse divertendo. Che lei stesse provando gioia, per la precisione.
Sono quasi sicura che continuando su questa strada, ad un certo punto, innamorarsi di un Robot-111 sarà tutt’altro che impossibile, ma così facendo che fine farà l’umanità? o meglio, come diventerà?

Costanza e il suo mondo sono solo apparentemente diversi e distanti dal mondo che usiamo definire “reale”, e quasi sovrapponibili ad ogni mondo interiore. Chi fosse interessata/o a visitare gli articoli-racconti di Costanza Del Re, può farlo cliccando [Qui]

PRESTO DI MATTINA
Francesco

Oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca”: l’espressione di papa Francesco, ripetuta ormai tante volte va sempre ricondotta, compresa ed esplicitata nel contesto del suo magistero pastorale orientato verso «una riforma della chiesa in uscita missionaria» (EvG 17) nel solco tracciato dal Concilio Vaticano II:

«La Chiesa “in uscita” è una Chiesa con le porte aperte… Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (EvG 46 e 49).

Un cambiamento di paradigma quello del Concilio, iniziato con la ricerca di unità tra le chiese e di anelito alla pace mondiale; un nuovo inizio caratterizzato dall’assunzione della storia come modello epistemologico, da un ritorno alle fonti cristiane, da un linguaggio ecclesiale e teologico rinnovato per riprendere il dialogo con il mondo, così da partecipare ai destini degli uomini e delle donne del nostro tempo, e «dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gs 1).

La luce della fraternità, allora, non è che l’ultimo tratto di cammino, articolato, faticoso e non privo di ripiegamenti, ma in ripresa, giunto fino a noi per lo più come il percorso di un “fiume carsico”. Un cammino che ora chiede di continuare, di essere portato alla luce nella nostra vita all’insegna della «fraternità, che è uno dei segni dei tempi che il Vaticano II porta alla luce, è ciò di cui ha molto bisogno il nostro mondo e la nostra Casa comune, nella quale siamo chiamati a vivere come fratelli» (Francesco, prefazione a M. Czerny, Ch. Barone, Fraternità “segno dei tempi”. Il magistero sociale di Papa Francesco, OR 28 09.2021, 8).

«Il Concilio Vaticano II [Qui] ha presentato la conversione ecclesiale come l’apertura a una permanente riforma di sé per fedeltà a Gesù Cristo». Tale riforma implica ed esige una pastorale “in conversione”; nelle persone e nelle strutture occorre ri-seminare il lievito della novitas evangelica: «Senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza “fedeltà della Chiesa, alla propria vocazione”, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo».

Il sogno di Francesco d’Assisi trova risonanze nel papa, che ha voluto prendere il suo nome: «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione» (EvG. 26-27).

Una riforma che ridoni una fede non solo trasmessa nei suoi contenuti, ma resa creativa e operante nel praticarla. Una “ortoprassi” per riunire la fede alla vita. Una fede che non si esaurisca nella sua enunciazione, ma che apra alla realtà e nella realtà del vissuto trovi accresciuto dinamismo e compimento. Ciò che si crede ed è offerto al credente – i contenuti della fede cristiana ‒ restano inanimati, lettera morta senza il respiro di una fede vivente.

C’è un vangelo nascosto in tante persone; vi è un Gesù che vive e abita in tante situazioni, vicine e lontane, di emarginazione ed esclusione, che chiede di essere incontrato. Osare incontrarlo in questi inospitali luoghi esistenziali porta a trovare ‒ come accadde a Francesco ‒ una vita nuova: «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo» (FF 110).

Essere “in uscita”, andare “incontro” a un cambiamento d’epoca, comporta allora un confronto serrato con il vangelo e con la diversità d’altri. Il tutto senza sottrarsi ed anzi accettando un combattimento spirituale generativo di una mutazione interiore: un cambiamento di mentalità, di prassi, di cuore; uno sguardo che parta dagli occhi dell’altro e faccia propri i suoi intendimenti, aspirazioni, attese e non già un adattamento esteriore, superficiale, per procura.

Altrimenti gridare al cambiamento diventa solo uno slogan da sbandierare, un atteggiamento di maniera, sterile, un gattopardismo clericale privo di quella autentica «conversatio cum pauperibus» che caratterizzò la conversione di Francesco, il suo volgersi verso l’altro, l’andare incontro, il trattenersi con e praticare il fratello, specie se povero.

Ci troviamo ad un valico, ad un mutamento di scenario. Stiamo attraversando il crinale che accede ad un altro versante. Un mutamento non dissimile da quello vissuto dal popolo di Israele entrando nella terra promessa. Che, per noi, ora, è una nuova terra di fraternità, nell’orizzonte del perseguimento della pace attraverso vie di giustizia e di riconciliazione.

Anche al tempo di Francesco si era sulla linea di faglia tra un “prima” e un “poi”, come di fronte a uno spartiacque. Pure il figlio di Pietro Bernardone e di donna Pica di Bourlemont, la città di Assisi, l’Italia, l’Europa, il papato e la chiesa nel XII e XIII secolo attraversarono un cambiamento d’epoca.

La chiesa gerarchica andava verso uno scollamento con la gente, con il popolo. Sempre maggiore diveniva la distanza tra ecclesiastici e laici, docenti e discenti; i vertici ecclesiastici sentivano sempre di più come una minaccia la scelta pauperistica degli innovatori, tanto che le loro opzioni evangeliche venivano considerate eretiche per via della loro autonomia e forza di contestazione dell’apparato ecclesiastico: una pasta senza lievito evangelico perché priva dell’opzione preferenziale per i poveri.

I prelati assomigliavano a ministri di una religione più che a servitori del vangelo. Il suo annuncio e la vita “vere apostolica” insita nella stessa dignità e missione battesimale di ogni cristiano era come requisita dai letterati e dai teologi, da prelati ed alto clero.

Scriveva un caro amico nei primi anni del post-concilio: «Come parliamo bene, anche con le idee del Concilio! Come torna viva l’impressione di soffocare in un ambiente chiuso, rimanere nei nostri ambienti di Chiesa. Non abbiamo distrutto il nostro complesso clericale, di “separati”. Lo abbiamo solo reso più sottile e inattaccabile, rivestendolo di grandi e belle idee. Mi pare che stiamo adottando molta “tecnica” di apostolato (lezioni teologiche, equipe e commissioni di lavoro), ma non diamo sufficiente importanza alla “profondità umana”. Stiamo calando una rete ben lavorata, senza preoccuparci di esplorare il mare, pazientemente, lungamente, silenziosamente. Ci consideriamo troppo al servizio della Verità, della Parola, senza scrutarne le strade che passano per il cuore, senza vederne la carne viva. Siamo fuori dall’umile, dolorosa avventura umana».

Proprio immergendosi nella cruda realtà del suo tempo fuori delle mura di Assisi Francesco scoprì per la prima volta l’esistenza del mistero e della presenza nascosta di Dio tra gli ultimi. Il dio denaro, il dio potere era caduto; il suo idolo come Golia era stato abbattuto dall’inerme forza dei poveri che gli avevano dischiuso la novitas evangelica.

Anche allora la riforma della chiesa in uscita missionaria corrispose alla riproposizione in un contesto certamente diverso della novità e della letizia del Vangelo: quella alegría del Evangelio [Qui] di cui scrive papa Francesco riattualizzando la “perfetta letizia” di cui parlò il primo Francesco.

La predicazione di san Francesco e dei suoi primi compagni contribuì senza dubbio allo sviluppo del movimento penitenziale, ma favorì la diffusione del vangelo tra la gente: «Dio, nella sua misericordia, ci ha scelto non solo per fare la nostra salvezza, ma anche per salvare molte anime».

Servì a porre su una nuova rotta il cammino dell’evangelizzazione: costrinse le guide della chiesa a rivolgere l’attenzione e l’annuncio della salvezza promessa dal vangelo non solo all’interno della cristianità, ma anche fuori. Un’irradiazione irresistibile verso agli altri si dischiudeva nel futuro della chiesa; non era più tempo di pensare solo a se stessi, a un cambiamento individuale in vista della propria salvazione. Il cuore e la mente andavano rivolti a tutti, in ragione di una fratellanza universale.

“Fratelli tutti” scriveva nelle ammonizioni san Francesco (FF 155). Parole riprese da papa Francesco, per il quale occorre partire da Assisi «al fine di pensare e generare un mondo aperto… un cuore aperto al mondo intero» (FT 87+ e 128+):

«“Fratelli tutti”, scriveva San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama l’altro “quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui” (FF125)».

Se fu l’eremitismo a rendere evidente la crisi in atto e l’esigenza di un mutamento necessario, segnalando con forza il profondo disagio che serpeggiava nella chiesa istituzionale e nello stesso monachesimo in ordine alla loro missione, mostrando l’inadeguatezza del corpo terreno di Cristo a reggere la spinta che veniva dal vangelo, furono «gli ordini mendicanti, soprattutto i francescani e i domenicani, [che] esercitarono un’enorme influenza sul laicato e sulla vita religiosa delle masse: attraverso la loro attività pastorale, di costante assistenza, presenza e predicazione, e attraverso l’organizzazione di gruppi di penitenti, di confraternite, di congregazioni pie, che formarono ed orientarono secondo linee unitarie ed organiche la pratica religiosa dei fedeli». (G. Miccoli, La storia religiosa in La storia d’Italia, 2/1 Einaudi, Torino 1974, 793). Furono essi che diedero forma e attuarono la realtà di una chiesa in uscita missionaria.

Scrive ancora lo storico Giovanni Miccoli [Qui]: «Con gli ordini mendicanti la “vita vere apostolica” troverà una sua precisa collocazione anche all’interno dell’istituzione ecclesiastica, riuscendo in qualche modo a comporre con le linee di fondo di una presenza religiosa ed ecclesiastica costruitasi attraverso una secolare tradizione, alcuni elementi di quella novitas evangelica e pauperistica che era stata alcuni decenni prima violentemente denunciata e combattuta dai suoi avversari…

Le parole che Bonaventura [Qui] mette in bocca al cardinale di San Paolo per rompere le esitazioni e gli indugi del papa e della curia di fronte alla novitas del propositum di Francesco, molto probabilmente non sono state dette veramente così. Ma restano ugualmente espressive del clima mutato, della consapevolezza della necessità di una più duttile e articolata risposta nei confronti delle istanze evangeliche e pauperistiche, che si era fatta strada negli ambienti ecclesiastici:

“Se respingiamo la richiesta (Regola di vita) di questo povero come troppo ardua e nuova, mentre ci chiede di confermargli semplicemente la vita evangelica, dobbiamo temere di offendere il Vangelo di Cristo. Se infatti qualcuno afferma che nell’osservanza e nel voto della perfezione evangelica c’è qualcosa di nuovo o di irrazionale o di impossibile ad osservarsi, è evidente che bestemmia Cristo, autore del Vangelo”» (Francesco d’Assisi. Realtà e memoria di un’esperienza cristiana, Einaudi, Torino 1991, 22-23).

Iniziò così un lento e cauto determinarsi di aperture, disponibilità e una nuova consapevolezza nella chiesa circa il cammino da intraprendere per ampliare l’orizzonte al bene dell’evangelizzazione.

«Chiesa, riforma, vangelo e povertà» non costituiscono allora solo una legatura decisiva nella storia religiosa del XII secolo, ma anche per quella carovana di viandanti dell’ekklesia di oggi:

Viandante, sono le tue impronte
il cammino, e niente più,
viandante, non c’è cammino,
il cammino si fa andando.
Andando si fa il cammino,
e nel rivolger lo sguardo
ecco il sentiero che mai
si tornerà a rifare.
Viandante, non c’è cammino,
soltanto scie sul mare.

E il salmista mi rincuora che non è solo poesia. Nascosto in essa è il mistero che si fa presente e reale nell’esodo di un popolo, di tutti i popoli migranti e nel cammino errante di una chiesa e di ciascuno: «Sul mare passava la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, e le tue orme rimasero invisibili. Guidasti come gregge il tuo popolo per mano di Mosè e di Aronne» (Sal 76).

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